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2 settembre 1980 Maurizio, 30 anni fa i Nar uccidevano il nostro tipografo: killer mai presi Di Leo scambiato per un cronista. Un bassorilievo nella sede del Messaggero, ma nelle strade di Roma nemmeno una targa di Fabio Isman ROMA (2 settembre) - Stasera, 2 settembre, saranno 30 anni esatti: quelli non erano, né lo saranno mai, i migliori della nostra vita. Si sparava; si ammazzava; si organizzavano (ancora) tanti attentati, mille stragi: la prima, il 12 dicembre 1969 a Milano, alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana (16 morti, 24 feriti); l’ultima, fino ad allora, il 2 agosto, a un mese di distanza da quel 2 settembre, alla stazione di Bologna. Una carneficina: 80 vittime, circa 200 feriti. Un mese dopo, era un martedì, un giovane uomo di 34 anni conclude il suo lavoro alle 20.40. Monta su un autobus, il 56, per raggiungere casa a Roma: via Giovanni De Romanis, a Monteverde; cambia mezzo a Piazza Sonnino. Ma al capolinea, lo aspettano i “killer neri”, forse sei: gli sparano; un caricatore intero di pistola. Finito il lavoro, il giovane che viveva con la madre vedova da poco, se n’era andato da qui: da via del Tritone 152. Maurizio Di Leo era infatti un tipografo de Il Messaggero, anche se ormai nel reparto non c’è più nessuno che ne abbia condiviso le ore di fatica. Un volantino dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari, come si diceva allora «rivendica» l’attentato. Ma era uno sbaglio: lo avevano scambiato per un cronista, che scriveva sui “più duri” dell’estrema destra. Forse, lo pedinavano da giorni: era abitudinario. Una trappola infame (telefonata anonima: «Un messaggio è in un cestino vicino al giornale; Bologna, strage di stato»), aveva fatto correr fuori due giornalisti proprio con chi invece stava rincasando: due giorni dopo, un altro volantino dei Nar avrebbe ammesso l’equivoco. Ma quanto (pochissimo, nulla) valeva la vita d’un giovane, che da 8 anni lavorava al primo giornale di Roma; sedeva a uno dei più remoti computer (scrivendo i titoli); e l’indomani era libero, forse sarebbe andato al Circeo con la ragazza, pare conosciuta da poco? Di uno come Maurizio, che scriveva poesie e testi di canzoni, suonava la chitarra, era quasi entrato nella band di Lucio Dalla? Certo, infinitamente di più: «Ogni morte di uomo mi diminuisce» (è Hemingway, Per chi suona la campana); e per molti, purtroppo, questa non era nemmeno una delle “solite” scomparse. Ma quel delitto rimane misterioso. Di ben 379, una delle 19 lapidi (appena due vittime uccise dall’“ultrasinistra”), su cui, con il dolore che non si cancella, è scritto «autore ignoto». Per qualcuno, le vittime sono 428 e 2.000 i feriti in 14.615 attentati. A fine Anni 80, sei furono processati: terroristi già in carcere, gente del “gotha” del terrorismo nero. Però li accusavano due “pentiti” che non sempre hanno detto la verità: Angelo Izzo, quello che al Circeo ammazzò Rosaria Lopez e brutalizzò Donatella Colasanti (per poi uccidere di nuovo, in semi-libertà dal carcere) e Cristiano Fioravanti, fratellino di Giusva, condannato anche per la strage di Bologna. E di testimoni, quasi non ce n’erano. Un errore? coincidenze? qualcosa di più studiato? Episodi che, ancora, non si capiscono. Il processo andò a rilento: forse non ci credeva neppure l’accusa. Come non ha mai creduto allo “scambio di persona” Vittorio Emiliani, direttore de Il Messaggero d’allora: «Il tipografo ucciso era piccolo, magro, sempre ben vestito; il cronista alto, corporatura grossa, sempre in jeans e maglione, aveva casa dalla parte opposta» (nel suo libro Benedetti, maledetti socialisti, Dalai editore). Dice Emiliani: «Un senso diffuso di paura, tutto il giornale si sentì nel mirino». Per commemorare Maurizio, si precipitarono anche i sindacati: quello dei poligrafici era diretto da Guglielmo Epifani, ancora per poco segretario generale della Cgil. A prendere la parola in assemblea, c’era addirittura come un senso di timore. Brutti tempi, tempi orribili. Il giorno dopo, al suo posto di lavoro non si era seduto nessuno: un garofano rosso. Se al tribunale sono state necessarie sette ore di camera di consiglio per assolvere (insufficienza di prove: perfino quella esisteva ancora), per dimenticare non basta la vita. A tanti. A chi stava qui dentro; non alla mamma Maria, che purtroppo non c’è più, ma, ad esempio, al fratello Sergio; forse, a quella ragazza del Circeo, pur conosciuta da poco. Dal 1985, nell’atrio di via del Tritone, il bassorilievo di uno scultore ricorda Maurizio Di Leo: negli ultimi 25 dei miei 40 anni qui dentro, non sono mai riuscito ad entrare senza dargli almeno un’occhiata. Un pensiero: quello che, 30 anni dopo, tutti dovrebbero avere stasera per lui. E perché, tra le mille strade della sua città (ma certamente saranno assai di più), non ce n’è una che oggi lo ricordi? |
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