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L’“umanitario” diventa militare-civile di
Antonio
Mazzeo Le
crisi economiche, sociali e politiche generate dalla diffusione
generalizzata delle politiche neoliberiste e la contemporanea crisi ideale
e d’identità delle organizzazioni di massa della sinistra (partiti,
sindacali, ecc.) - fenomeni che hanno segnato l’ultimo trentennio - non
potevano non segnare la mission,
i percorsi e l’agire delle Organizzazioni non governative (ONG).
Sviluppatesi in buona parte tra la fine degli anni ’70 e i primi anni
’80 per ripensare i modelli di sviluppo, sostenere le lotte di
liberazione nel Sud del mondo e svolgere opera di sensibilizzazione contro
le feroci dittature al potere in Asia, Africa e America latina, sono
veramente poche le ONG che oggi s’interrogano sugli scopi sempre meno
“umanitari” dei donanti e cofinanziatori dei propri programmi e
progetti nel Sud del mondo. Complice poi la sempre maggiore dipendenza
dalle sempre più scarse risorse finanziarie dei soggetti pubblici
(l’Unione Europea e, in Italia, <?_xml:namespace prefix = st1 ns =
"urn:schemas-microsoft-com:office:smarttags" /> Mentre
all’interno delle ONG tende a scomparire qualsivoglia dibattito
sull’origine dei finanziamenti e le reali finalità sociali, politiche
ed economiche dei progetti e/o delle controparti locali, si fa sempre più
affannosa la ricerca delle «opportunità»
rappresentate dalla partnership strategica con il mondo del profit,
banche, holding e imprese private in testa. Pecunia
no olet
e, di conseguenza, si assiste alla moltiplicazione di programmi
d’intervento e “cooperazione” con la sponsorizzazione
dei grandi gruppi finanziari ed industriali dall’assai discutibile
responsabilità sociale ed etica (in Italia, perfino, il colosso
petrolifero ENI o il gruppo Finmeccanica a capo del complesso militare
industriale). Lo
scoppio delle cosiddette “guerre umanitarie” (in ex Jugoslavia, Kosovo,
ecc.), il consolidamento della dottrina dell’intervento militare
USA-NATO-UE, con o senza il pass del Consiglio di sicurezza dell’ONU per
«ristabilire
ovunque democrazia, sicurezza e legalità»
(Afghanistan, Iraq, Somalia), la strumentalizzazione delle crisi
alimentari e dei disastri sempre più impropriamente “naturali” per
legittimare l’occupazione militare di regioni di rilevanza strategica
(Sri Lanka, Filippine, Darfur e recentemente Haiti), hanno ulteriormente
contribuito ad emarginare quasi totalmente i soggetti e le esperienze
realmente democratici e con aspirazioni di trasformazione sociale, locali
e internazionali. Si è reso vita difficile se non impossibile alle ONG
che tentano d’intervenire in modo autonomo nei Paesi vittima di
conflitto, grazie ad una vera e propria paramilitarizzazione degli
“aiuti” e della “cooperazione”. Gli eserciti possono e devono fare
tutto: bombardare e ricostruire, affamare e sfamare, assetare e dissetare,
togliere e dare speranze. Gli organismi non governativi e le agenzie delle
Nazioni Unite, se proprio vogliono, possono operare sempre e quando
l’intervento sia compatibile e funzionale alle strategie militari ed
economiche delle coalizioni occupanti e dei fedeli partner in loco, a
condizione di accettare le scorte dei blindati e dei militari o di body
guard privati. Il
governo italiano segue in maniera del tutto subalterna la visione di una
“cooperazione allo sviluppo” funzionale alle logiche del mercato
globale e della guerra “preventiva e permanente”. A metà novembre
2009, nel corso dell’ultima riunione annuale della DGCS, sono state
formalizzate le linee guida del piano che sarà presto implementato: tagli
sostanziali ai finanziamenti pubblici e
dirottamento dei fondi a favore delle missioni delle forze armate
all’estero; utilizzo di contributi di aziende e industrie
private; ONG ed associazioni di volontariato sostituite preferibilmente da
università e istituti di ricerca; sempre meno progetti a medio-lungo
termine e priorità agli interventi d’emergenza nelle aree geografiche
d’interesse per l’economia nazionale e rigorosamente sotto il
controllo di Washington e della NATO. Non è casuale che Afghanistan e
Pakistan assorbiranno buona parte delle scarsissime risorse destinate allo
“sviluppo” nel 2010. Per l’Afghanistan, in particolare, è stato
approvato un contributo di 4 milioni di euro che sarà gestito dal Fondo
di ricostruzione della Banca Mondiale, a cui si aggiungerà un
finanziamento di 667 mila euro per un programma di «formazione
a distanza tramite la televisione Radio
education».
Per il Pakistan è stato approvato invece un credito d’aiuto di 20
milioni di euro per «l’inclusione sociale e l’occupazione nella provincia
nord-occidentale di frontiera»,
iniziativa dai contorni assai ambigui a cui il governo italiano aveva già
concesso un credito di 40 milioni nel luglio 2009. Anche
se non viene esplicitato nei documenti ufficiali, la tendenza è quella di
giungere ad assegnare la pianificazione, direzione e realizzazione degli
interventi direttamente a task-force “miste”, composte da militari e
civili, riproducendo in scala minore quanto gli Stati Uniti d’America
stanno sviluppando in Medio Oriente, Africa, America latina e Caraibi
grazie alla partnership tra i comandi regionali delle forze armate e USAID,
l’Agenzia federale per gli aiuti allo sviluppo. Il Mali è uno dei
luoghi dove Secondo
il capitano Erminio Englearo, addetto stampa dello Stato maggiore
dell’Aeronautica, Ridare
la luce ha come obiettivi «la
cura delle popolazioni del deserto del Sahel dalle malattie della vista,
lo svolgimento di operazioni di chirurgia generale e lo scambio di
conoscenze su nuove tecniche operatorie tra medici e infermieri italiani e
maliani».
Molto più esplicito sulle reali finalità della massiccia presenza
militare nella missione è però il generale Vincenzo Camporini, Capo di
Stato maggiore della difesa, giunto in Mali nel novembre 2009 insieme ai
vertici della Direzione Generale per L’interventismo
militare nel continente è stato giustificato prima dall’amministrazione
Bush e poi da quella Obama con buona parte delle cosiddette “minacce”
utilizzate per le operazioni di guerra in Medio Oriente: il terrorismo e
la proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’espansione del
fondamentalismo islamico, la difesa degli interessi economici (accesso
all’energia), il narcotraffico, ecc.. Si fa però sempre più enfasi (si
leggano in proposito le dichiarazioni del generale James Jones, Comandante
supremo alleato in Europa SACEUR,
rese davanti al Congresso USA nel settembre del 2006)
all’esigenza di intervenire a 360 gradi, contro il «contrabbando, la pirateria marittima e la pesca illegale»;
per arginare i «crescenti
flussi migratori»
e perfino per lottare contro la «fame,
i disastri ambientali, la tratta delle persone e le principali epidemie»
che affliggono il continente. “Minacce” dunque che mescolano insieme,
esemplificandoli, fenomeni notevolmente complessi. L’Africa si trasforma
di conseguenza nel laboratorio sperimentale per l’implementazione dello
strumento militare-civile “umanitario”: è stato fatto da Washington
prima con le operazioni in Mozambico, Sierra Leone, Repubblica Democratica
del Congo ed Uganda, successivamente in Darfur e Somalia. E in alcune di
queste “missioni” ipocritamente definite di «peacekeeping»
o di «sostegno
alimentare e sanitario delle popolazioni»,
il Pentagono è riuscito a coinvolgere La
modalità con cui gli Stati Uniti stanno portando a termine questo
pericolosissimo programma di emarginazione della società civile nei
teatri più “caldi” del pianeta, traspare dalle parole di Theresa
Whelan, assistente del Dipartimento della Difesa per gli affari africani.
Riferendosi alle nuove “minacce” che pongono agli Stati Uniti il «dovere
di intervenire nel continente»
(letteralmente AIDS,
malaria, tubercolosi e trasformazioni demografiche), Whelan ha
dichiarato che il Comando militare USA in Africa deve «combinare
funzioni militari e civili»;
per questo è composto da «esperti
nel campo dell’intelligence, della diplomazia, della sanità e
dell’aiuto umanitario provenienti dal Dipartimento di Stato, dai
Dipartimenti alla salute, ai servizi sociali e all’energia, da USAID».
«AFRICOM
– ha aggiunto l’assistente - coordinerà gruppi di addestramento,
consulenza, affari civili, aiuto medico e veterinario. Esso farà da
interfaccia con altre agenzie governative e gruppi umanitari
non-governativi negli sforzi da portare avanti nel continente».
Ancora più esplicito il generale James Jones, secondo cui «AFRICOM
ha come priorità quello di aumentare la capacità delle nazioni africane
nel condurre operazioni di mantenimento della pace e di pronto intervento
in caso di crisi, particolarmente attraverso l’Unione Africana ed altre
organizzazioni regionali, di proteggere le risorse naturali e di
promuovere la stabilità fornendo consulenza ed assistenza sanitaria sui
temi quali l’AIDS, il colera, la malaria e le altre malattie che hanno
conseguenze umanitarie e strategiche». Le
finalità dichiaratamente neoliberiste della “cooperazione” USA,
nell’ottica dell’accelerazione dei processi di privatizzazione globale
delle risorse naturali e dei servizi (sanità, educazione, ecc.), sono
state sottolineate dalla responsabile di USAID per l’Africa, Katherine
Almquist, in occasione di un vertice militari-civili tenutosi presso il
Comando AFRICOM di Stoccarda, il 17 ottobre 2008. «Abbiamo
consulenti tecnici distaccati presso il
Combined
Joint Task Force-Horn of Africa a Gibuti, per operare in partnership
con le forze amate a favore della promozione della sicurezza della nostra
nazione e dei nostri alleati in Africa»,
ha affermato Almquist. «Gli
Stati Uniti hanno giustamente identificato lo sviluppo come una componente
integrale della propria sicurezza nazionale. Il Presidente della Banca
Mondiale, Robert Zoellick, in un suo recente intervento, ha identificato
le sfide maggiormente critiche negli Stati che si caratterizzano per la
loro fragilità, cioè quelle riguardanti la governance,
l’economia e la sicurezza, elementi strettamente collegati tra loro. Noi
dobbiamo prendere seriamente in considerazione l’appello di Zoellick per
una differente struttura che costruisca la sicurezza, la legalità, la governance
e l’economia, aldilà di come intendiamo oggi la sicurezza o lo
sviluppo. Zoellick utilizza l’espressione “securing
development” per sottolineare la nozione di simultaneità
nell’indirizzo a favore della sicurezza e dello sviluppo durante la fase
di transizione dal conflitto alla pace e, successivamente, della stabilità
affinché lo sviluppo possa affermarsi. Così noi di USAID applaudiamo
agli interventi dei militari USA nel continente africano, in particolare
alle operazioni realizzate a fianco dello loro controparti in Ghana,
Senegal, Benin, Botswana e Kenya, preparando i militari delle nazioni
africane ad affrontare le pesantissime sfide del 21° secolo in settori
come il controterrorismo, la lotta al narcotraffico, gli interventi di
peacekeeping e la sicurezza marittima (ossia
la cosiddetta “lotta alla pirateria” NdA)».
Più
specificatamente dal punto di vista della “cooperazione”, viene
segnalato il complesso piano infrastrutturale finanziato e coordinato da
USAID e dal Comando AFRICOM, e realizzato nella regione sub-sahariana
dagli uomini dell’US Army Engineers, il corpo d’ingegneria
dell’esercito statunitense. Attualmente sono in via di esecuzione 44
progetti nelle regioni più remote del Mali e del Niger: si tratta della
costruzione di 32 pozzi d’acqua, 7 scuole, 2 piccoli presidi sanitari e
2 “banche di sementi”, costo totale 1,7 milioni di dollari. «Questi
progetti beneficeranno gli abitanti, i nomadi Tuareg e i Wodaabe»,
ha affermato Darrell Cullins, responsabile progetti in Africa del
distretto europeo dell’US Army Engineers. Per «promuovere
la libertà economica ed investire sul capitale umano»,
il Mali è stato inoltre inserito dal Dipartimento di Stato tra i paesi
del cosiddetto Millennium
Challenge Account, il piano di «riduzione
della povertà e di promozione della crescita economica a livello
internazionale»
avviato nel 2004. Sono previsti interventi per 461 milioni di dollari,
finalizzati in particolare all’irrigazione di un’area di L’intervento
di Washington non si fermerà tuttavia alle regioni sub-sahariane. «Per
il futuro lavoro nel continente - ha aggiunto Darrell Cullin - l’US Army
Enginners ha firmato un Multiple
Award Task Order Contract (MATOC) che prevede il design e i lavori di
realizzazione e manutenzione d’infrastrutture e di servizi destinati
alla popolazione africana, per cui è prevista una spesa di 14,8 milioni
di dollari entro il settembre del 2011. Il MATOC opererà principalmente
in Niger, Ciad, Mali, Senegal, Marocco, Mauritania, Tunisia, Gabon, Ghana,
Nigeria e Liberia, con la collaborazione dei militari presenti in Corno
d’Africa e dell’US Navy».
Cooperazione, dunque, sempre più mercificata e militarizzata. Dato
che anche la “sicurezza” non deve sfuggire alle regole del mercato
“globale”, specie a partire dall’attacco USA e NATO in Afghanistan
ed Iraq, società contractor
e mercenari sono chiamati ad assumere un ruolo sempre maggiori nelle
operazioni belliche e negli interventi “umanitari”. Per restare in
Africa, è alla tristemente nota DynCorp che il Pentagono ha assegnato
l’addestramento, l’equipaggiamento e il sostegno logistico della
fallimentare “missione di pace” dell’Unione Africana in Somalia.
L’amministrazione Bush ha versato alla società della Virginia, più di
10 milioni di dollari per l’acquisto di tende, generatori e veicoli da
destinare alla peacekeeping
force, e per garantire la movimentazione dei mezzi e del personale
militare africano. Il Pentagono ha poi sottoscritto con DynCorp un
contratto per oltre 20 milioni di dollari per il supporto alle «operazioni
di sorveglianza, addestramento e peacekeeping»
di alcuni importanti partner regionali (principalmente Etiopia e Liberia). Ancora
più sfacciato quanto USAID in collaborazione con l’agenzia per le
Nazioni Unite per la lotta alla droga e al Crimine UNDOC sta implementando
in Colombia, paese leader della crociata USA contro i governi progressisti
della regione andina e dei Carabi. Nel paese sotto assedio del
narco-paramilitarismo, USAID e UNDOC hanno stretto un’alleanza con Peccato
che molte delle piccole e medie imprese di campesinos
siano sorte solo dopo il varo nel 2005 della cosiddetta “Ley de Justicia
y Paz”, voluta da Alvaro Uribe per favorire la smobilitazione delle
maggiori organizzazioni paramilitari. All’impunità per i gravi crimini
commessi si è cosi aggiunta la possibilità di accedere ad ingenti
contributi finanziari internazionali e, oggi, anche alla grande
distribuzione. Senza che ciò abbia assolutamente rappresentato lo
smantellamento delle paramilizie e una pur minima riduzione dei massacri
della popolazione civile e delle comunità indigene e dell’omicidio
selettivo o della sparizione forzata di leader comunitari e sindacali.
Violazioni inaudite dei diritti umani che Washington continua a voler
ignorare. Agli aiuti di USAID si aggiungeranno le centinaia di milioni di
dollari del Pentagono per creare 7 nuove basi aeree in Colombia. Ancora
una volta la politica del bastone e della carota. Pubblicato
in Guerre
& Pace n. 158, aprile-maggio 2010. Per
ulteriori approfondimenti
http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/
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3) Bari 4 Agosto 2015, la battaglia dei forni 4) Italia e Germania acquistano aerei robot_killer 5)Massacro a Gaza:uno sguardo sulle guerre urbane future 6) 30 dicembre 2015, Piombo fuso su Bari vecchia
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10 luglio 2016 12)Brindisi 1 agosto 09. Militari nelle nostre strade?No grazie !La nostra città ha bisogno d'altro 13) Bari 15 agosto 2016. Massacri in nome del codice militare umanitario
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