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VOCI
DALL'IRPINIA
LA
PAGINA DI LUCIO GAROFALO
DI
LIONI
Il
Grillo parlante, il Gatto e la Volpe
Tutti conoscono "Le Avventure di Pinocchio", la celebre
fiaba inventata
dall'estro di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, per averla
semplicemente
ascoltata, oppure studiata a scuola, per averla vista al cinema o in
televisione. Tra le varie versioni cinematografiche e televisive
ricordo con
piacere l'indimenticabile sceneggiato trasmesso dalla RAI nel 1972, un
capolavoro di Luigi Comencini, con un cast formato da attori
eccezionali: il
magistrale Nino Manfredi nei panni di Mastro Geppetto, i memorabili
Franco
Franchi e Ciccio Ingrassia nelle vesti del Gatto e della Volpe, la
splendida
Gina Lollobrigida nel ruolo della Fata Turchina, infine il piccolo e
sconosciuto Andrea Balestri nella interpretazione di Pinocchio e che
oggi ha
46 anni.
Sarà che non ho mai ammirato il noioso e invadente personaggio del
Grillo
Parlante, ritratto simbolico dei moralisti di ogni tempo che si ergono
a
difesa dell'ordine costituito, dei falsi predicatori e paladini del
buon
costume, sempre pronti a sentenziare e dispensare consigli, ad
impartire
norme e precetti che loro sono i primi a violare. Né ho mai
apprezzato il
profilo dello stesso Pinocchio, un tipo ingenuo e facilmente
influenzabile,
effigie di tutti gli sciocchi zimbelli e burattini. Tanto meno ho
amato la
maschera di Mangiafoco, crudele metafora dei burattinai, degli
aguzzini e
carcerieri a difesa del sistema. Parimenti ho detestato quei
mascalzoni che
sono il Gatto e la Volpe, divertente allegoria dei numerosi furfanti
in
circolazione, sempre pronti a raggirare e derubare gli sprovveduti,
anch'essi vaganti in gran copia. E ancor meno ho gradito i gendarmi
d'ogni
tempo, diffusi in ogni angolo del mondo. Invece, ho sempre preferito
l'immagine allegra e strepitosa di Lucignolo, emblema dei giovani
ribelli e
disobbedienti, inguaribili sognatori, figura tipica dell'anarchico
anticonformista all'eterna ricerca della libertà e della felicità
inseguite
nell'immaginario e utopico "Paese dei balocchi".
Sarà per questo ed altre ragioni, ma francamente non riesco a provare
una
sincera simpatia nei confronti del comico Beppe Grillo. Ancor meno
provo
attrazione verso l'ambiguo movimento che i media hanno battezzato con
il
nome di "grillismo". Attingendo nella memoria storica e
nella mia esperienza
diretta, ho sempre provato una legittima diffidenza verso i movimenti
di
questo tipo, malgrado mi sforzi di comprendere le loro ragioni. In
passato
abbiamo già conosciuto altri movimenti di protesta antipartitocratica.
Ad
esempio, all'indomani della seconda guerra mondiale, nel clima rovente
della
guerra civile scatenata dall'opposizione tra fascismo e Resistenza
partigiana, nacque il Fronte dell'Uomo Qualunque, fondato a Roma nel
1944
dal commediografo, giornalista e (guarda caso) uomo di spettacolo
Guglielmo
Giannini. Successivamente si affacciarono i Radicali di Marco Pannella
ed
Emma Bonino, paladini del liberismo capitalistico anglosassone. Molti
anni
dopo apparve la Lega Nord di Umberto Bossi. Insomma, l'elenco è assai
nutrito.
Tutti questi movimenti, sorti con motivazioni abbastanza analoghe,
sono
infine approdati al medesimo risultato: inserirsi nell'alveo della
tanto
agognata e maledetta Casta partitocratica. Ne approfitto per ricordare
che
lo stesso Silvio Berlusconi si presentò in illo tempore con le
fattezze del
"nuovo che avanza", come simbolo dell'Antipolitica. Egli
seppe interpretare
abilmente il diffuso sentimento di protesta e malcontento popolare
diretto
contro i partiti sull'onda emotiva scatenata dalle inchieste
giudiziarie di
Tangentopoli. Seppe cavalcare il comune senso dell'Antipolitica,
ergendosi a
paladino della battaglia antipartitocratica, per diventare infine
l'emblema
per eccellenza del potere partitico e istituzionale, oltre che di
quello
economico e del "quarto potere", quello mediatico.
Tuttavia, mi chiedo se tali accostamenti storici possano davvero
servire a
comprendere un movimento per certi versi inedito, quantomeno perché
generato
su Internet. Un fenomeno determinato dalla crisi di consensi e
credibilità
in cui versa da tempo il potere politico ricostituitosi in Italia dopo
la
"bufera" di Tangentopoli che investì i partiti della Prima
Repubblica
all'inizio degli anni '90. Ma il parallelismo più logico e scontato,
indubbiamente corretto dal punto di vista storico, è quello con il
"leghismo", di cui il "grillismo" si configura
come il più degno erede, ma
in una versione di "sinistra". Se posso azzardare un audace
paragone, il
"grillismo" si presenta come una sorta di "leghismo di
sinistra", ossia di
marca "girotondina".
Ma vorrei soffermarmi su un punto. Il movimento che Grillo ha saputo
riunire
attorno a sé, sebbene possa pretendere di aver ragione accampando una
serie
di giuste rivendicazioni contro un ceto politico corrotto, tuttavia
non
riesce ad occultare la sua reale natura moralista e inquisitoria. Mi
spiego
meglio richiamando la proposta di riforma che è il principale cavallo
di
battaglia del "grillismo". Mi riferisco al disegno di legge
popolare
articolato in tre punti per un "Parlamento Pulito". I tre
punti sono:
* NO AI PARLAMENTARI CONDANNATI.
No ai 25 parlamentari condannati in
Parlamento - Nessun cittadino italiano può candidarsi in Parlamento
se
condannato in via definitiva, o in primo e secondo grado e in attesa
di
giudizio finale.
* DUE LEGISLATURE. No ai
parlamentari di professione da 20 e 30 anni
in Parlamento - Nessun cittadino italiano può essere eletto in
parlamento
per più di due legislature. La regola è valida retroattivamente.
* ELEZIONE DIRETTA. No ai
parlamentari scelti dai segretari di partito
- I candidati al parlamento devono essere votati dai cittadini con la
preferenza diretta.
Ebbene, fermiamoci a ragionare sulla "condizione" che per
far parte delle
liste civiche occorre essere "incensurati", oltre a non
avere tessere di
partito. Questo dettaglio è assai rivelatore, è una spia che
tradisce la
vera indole reazionaria del movimento "grillista". Questo
dato conta più del
folclore, delle manifestazioni di protesta, delle battute ad effetto e
dei
"vaffa" urlati contro la Casta. Nel postulare una norma così
rigida il
progetto "grillista" rivela non solo un eccessivo timore
reverenziale nei
confronti dell'azione repressiva della magistratura, bensì tradisce
un
farisaico perbenismo e un giustizialismo "girotondino" a dir
poco
inquietante.
Oggi si può incappare facilmente nelle maglie della Legge, per cui si
può
essere "censurati" per molte ragioni, tra cui cito ad
esempio i "reati
d'opinione". La conseguenza immediata e concreta del disegno di
legge
proposto dal movimento "grillista" sarebbe quella di bollare
come
"colpevoli" tutte le vittime del sistema carcerario e
repressivo, negandogli
ogni diritto politico, escludendoli dalla "comunità
politica", ossia
dall'alveo della cittadinanza. In tale progetto di esclusione e
repressione
si rivela la natura autenticamente autoritaria del "grillismo".
Vorrà dire
che mi beccherò una valanga di critiche ed insulti da parte dei
numerosi
"grillini".
Lucio
Garofalo
L'AFRICA
E I POTENTI DEL G8
Al
termine del summit internazionale tenutosi a L'Aquila nei giorni
scorsi,
Silvio Berlusconi ha proclamato con la consueta alterigia ed enfasi
retorica: "Il G8 è stato un successo, sono stati stanziati 20
miliardi per
l'Africa". In realtà, il vertice de L'Aquila si è concluso con
una serie di
clamorosi fallimenti rispetto agli ambiziosi obiettivi fissati
nell'agenda.
Sorvoliamo il tema dei mutamenti climatici, non tanto perché
secondario o
marginale, quanto per concentrarci sul nodo centrale dell'economia
globale
rappresentato dalla frattura sempre crescente tra Nord e Sud del mondo
e
dalle iniziative politiche a favore soprattutto del continente
africano e
contro la fame nel mondo. Ebbene, su tale versante il G8 ha annunciato
solo
vaghi e generici impegni e proclami verbali che, come ormai succede
puntualmente, verranno smentiti dai fatti.
Dunque, il vertice del G8 si è rivelato come l'ennesima operazione
mediatica
sbandierata come un evento persino filantropico e umanitario, con uno
scopo
liberale quanto pragmatico, almeno stando agli scopi dichiarati e alle
enunciazioni di principio, quale la cancellazione del debito economico
che
strangola i paesi africani. Al di là della buona fede e delle buone
intenzioni, reali o presunte, di qualche ingenuo spettatore
tendenzialmente
credulone e sprovveduto, a chi è per indole, vocazione e formazione
intellettuale sempre vigile e critico, diffidente e malpensante, non
è
sfuggito il vero carattere, per nulla caritatevole e misericordioso,
di tale
avvenimento, ossia una finalità ipocrita e strumentale di mera
propaganda
ideologica. Come altre precedenti iniziative persino spettacolari,
anche
questo annuncio "buonista" appare assolutamente funzionale,
o comunque
strumentalizzabile, ai fini di un disegno ideologico e propagandistico
teso,
tra l'altro, a "ripulire" la coscienza sporca della
"ricca e opulenta"
civiltà occidentale, per procedere infine a riabilitare un sistema
economico
di rapina, di espropriazione e sfruttamento materiale e intellettuale
imposto a danno di miliardi di esseri umani, un sistema economico
planetario
che da anni è precipitato in una grave perdita di consensi, oltre che
in una
fase di profonda crisi strutturale.
A questo punto, mi sorge spontanea una domanda: ma chi sono i veri
debitori
e i veri creditori? Mi spiego meglio. L'Africa, culla del genere umano
e
delle prime civiltà storiche, è uno sterminato continente ricco di
risorse
umane e ambientali: forza-lavoro, acqua, petrolio, oro, diamanti,
avorio e
altre preziose materie prime. Queste immense ricchezze - non solo
materiali,
se si pensa al saccheggio culturale che ancora oggi subiscono le
popolazioni
africane - per secoli sono state depredate ed estorte ai legittimi
proprietari, ossia gli africani, da parte di una ristretta schiera di
superpotenze economico-imperialistiche (soprattutto europee, con
l'aggiunta
degli Stati Uniti, mentre il Giappone ha sempre mirato al dominio e
allo
sfruttamento coloniale del continente asiatico) che, in nome di una
pseudo-legalità internazionale, continuano a pretendere la
restituzione del
cosiddetto debito economico accumulato da regimi locali dispotici e
corrotti, collusi con lo strapotere occidentale, in seguito ad
incessanti
acquisti di armi da guerra, i cui principali produttori ed esportatori
mondiali sono, non a caso, i suddetti Stati occidentali. Se leggiamo
bene la
storia dell'Africa (e dell'intero pianeta) ci rendiamo perfettamente
conto
che è il "ricco e civile" mondo occidentale ad essere
debitore, sia sotto il
profilo materiale che culturale, verso i popoli africani, non il
contrario.
Eppure, chi espone le cose come realmente sono, ossia crudamente e
senza
ipocrisie, è criticato e bandito quale "nemico"
dell'occidente.
Dal canto suo, il G8 ha creato uno dei paradossi più assurdi che si
siano
mai conosciuti, ma che esprime emblematicamente ed efficacemente la
follia e
le violente contraddizioni che sono alla base dell'assetto economico
sociale
vigente su scala planetaria. Infatti, mentre da un lato i capi di
Stato
riuniti nel G8 hanno pomposamente annunciato di voler abbattere il
colossale
debito economico (che ammonta a svariate migliaia di miliardi di
dollari:
una cifra spaventosa) che affoga i paesi africani e che in effetti non
potrà
mai essere estinto completamente dato che solo gli interessi annui
stanno
letteralmente strozzando lo sviluppo di quei popoli, soprattutto
dell'Africa
sub-sahariana e centro-meridionale, dall'altro lato dietro i proclami
retorici si annidano nuove, pericolose liberalizzazioni in ambito
economico
internazionale.
A parte le condizioni di estrema povertà materiale in cui versa oltre
un
miliardo di persone che vive con meno di un dollaro al giorno, occorre
evidenziare la catastrofe sanitaria provocata dalla crescente
diffusione di
perniciose malattie epidemiche quali l'Aids, che in occidente sono
ormai
debellate o sotto controllo, mentre in vaste zone del continente
africano
stanno causando un vero e proprio sterminio di massa a causa degli
alti
costi dei vaccini imposti dalle multinazionali farmaceutiche. Ebbene,
il mio
profondo scetticismo scaturisce esattamente dall'analisi
dell'esperienza
storica, che mi induce a dubitare del valore di simili iniziative che
servono, probabilmente, solo a rimuovere i sensi di colpa e la cattiva
coscienza del mondo occidentale. Non è un caso che l'immenso fiume di
denaro
devoluto finora ai paesi poveri, sia finito in parte nelle tasche dei
ceti
ricchi dei paesi poveri, in parte è ritornato ai ricchi dei paesi più
ricchi
in termini di interessi (usurai) sul debito oppure attraverso la
vendita di
armi.
Allora, si dirà, come sono "bravi, buoni e generosi" i
bianchi occidentali,
che sono persino disposti ad azzerare il debito finanziario che uccide
l'Africa e il Terzo mondo in generale! Ma, domando, quale strozzino ha
mai
estinto, di sua spontanea volontà, il debito (o una parte di esso)
contratto
dalle proprie vittime? Nessuno. Eppure siamo pronti a credere che una
cosa
del genere possa improvvisamente accadere agli usurai dell'economia
globale,
soltanto perché lo ha detto la Tv, solo perché lo hanno annunciato
alcuni
capi di stato. Ma che ingenuità sovrumana! Inoltre, seguendo i
telegiornali,
ad un certo punto ho visto scorrere le immagini dei potenti del G8,
alla
stregua di un vero e proprio spot elettorale. Ciò mi ha ulteriormente
confermato che un obiettivo strategico di simili iniziative
"benefiche",
condotte a livello verticistico, è quello di sottrarre l'iniziativa
ai
movimenti di base e alle masse, che evidentemente possono solamente
svolgere
un ruolo da spettatrici, per assegnare invece una funzione decisiva e
primaria agli statisti del G8 i quali, grazie anche ai loro giullari e
servitori addetti alla propaganda, possono riacquistare la credibilità
e il
prestigio perduti.
Tuttavia, i capi di stato del G8 non sono tanto potenti e determinanti
quanto lo sono, invece, altri centri di comando e dominio
"imperiale",
ovvero: le multinazionali, soprattutto quelle petrolifere, degli
armamenti,
dei farmaci, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e
altre
strutture del potere economico sovranazionale. Pertanto, le migliori
campagne di sensibilizzazione non si promuovono organizzando eventi di
pura
retorica e demagogia politica, o allestendo megaspot elettorali a
beneficio
dei presunti padroni della Terra, bensì costruendo dal basso percorsi
di
lotta, di elaborazione, riflessione e progettazione politica, in cui
le
masse popolari riescano ad esercitare un ruolo di protagonismo reale,
attivo
e consapevole, e non quello di semplici spettatori e consumatori
passivi di
ciò che ormai è diventato soprattutto uno dei tanti mega-spettacoli
dello
starsistem politico internazionale. Ovviamente, mi riferisco al summit
del
G8.
Questa è l'umile opinione di un cittadino del mondo che non intende
conformarsi agli schemi politici e culturali dominanti, ma cerca di
sfuggire
alle facili suggestioni suscitate dai mass-media e da iniziative
prettamente
propagandistiche. In buona sostanza, il mio intento è di smascherare
la
natura ipocrita e mistificante di tali operazioni di portata
planetaria che
vengono spacciate come attestati di solidarietà e di amicizia
universale, ma
in realtà approfittano della buona fede e delle speranze dei popoli.
Non
sono un mago né un profeta, per cui non conosco né intendo suggerire
la
"soluzione" rispetto ai gravi problemi che affliggono gran
parte
dell'umanità, come la drammatica emergenza della povertà estrema in
cui
versano i popoli africani. A tale scopo, comunque, non servono le
iniziative
quali il G8, che celano e perseguono altri interessi, orientati a
vantaggio
dei decisori del G8 e di quel 20 % di ricchi che consumano oltre l'80
% del
reddito materiale prodotto dall'intero pianeta.
Lucio Garofalo
UNA
SCUOLA DA DEMOCRATIZZARE
L'UNICA DEMOCRAZIA OGGI POSSIBILE E PRATICABILE NELLA SCUOLA E' LA
DEMOCRAZIA A PARTECIPAZIONE DIRETTA
L'esperienza di lavoro, più che decennale, nella scuola pubblica
italiana
(ma credo che il discorso valga a maggior ragione anche per quella
privata)
mi ha insegnato, attraverso frequenti casi e circostanze assolutamente
negative, che attualmente non esiste più alcun margine, né spazio di
agibilità e libertà sia democratica che sindacale, e tantomeno
politica,
nella vita e nel funzionamento dei cosiddetti "organi
collegiali", a partire
dal Collegio dei docenti, che ironicamente ho ribattezzato "degli
indecenti".
Come si è verificato in molteplici occasioni, persino le idee e le
proposte
che sono indubbiamente da apprezzare nel merito, in virtù delle
finalità
dichiaratamente a favore degli alunni, inevitabilmente finiscono per
suscitare reazioni di perplessità, di critica e dissenso rispetto
alle
modalità impiegate, che non costituiscono un aspetto secondario o
marginale,
né un elemento di pura formalità procedurale, in quanto i metodi e
le regole
formano la base su cui poggia un'autentica democrazia collegiale. Tale
deficit, ovvero l'assenza di regole e di trasparenza democratica, si
avverte
sempre più spesso sia in fase di elaborazione e di creazione
progettuale,
quindi in fase di discussione e di approvazione formale, sia in fase
di
esecuzione pratica e operativa.
Per citare un caso recente ed emblematico, che investe la scuola dove
(ahimè) insegno, una delle circostanze più amare, spiacevoli ed
infelici che
ho registrato, concerne le modalità e le procedure decisionali
adottate in
merito ai cosiddetti "Corsi di recupero".
Premesso che tali interventi compensativi sono un'iniziativa senza
dubbio
valida e persino eccellente, essendo finalizzata al recupero a
beneficio
degli alunni che nel corso dell'anno hanno evidenziato lacune,
lentezze o
difficoltà sul piano degli apprendimenti e dei contenuti
disciplinari, è
quantomeno da obiettare che la proposta sia supportata da un'ampia
condivisione della base collegiale. Infatti, sono di imprescindibile
necessità quelli che ad altri appaiono evidentemente come oziose e
noiose
procedure burocratiche da eliminare o rimuovere. Mi riferisco a quei
preziosi momenti di riflessione, dibattito e partecipazione collettiva
che
sono valori essenziali tanto, se non più del merito stesso di un'idea
o di
un progetto, per quanto nobile, originale e impareggiabile possa
essere.
Le procedure democratiche del confronto, della partecipazione e della
ratifica collegiale non possono essere sminuite o degradate al livello
di un
arido formalismo burocratico, come ormai accade in molte realtà
scolastiche,
laddove i Collegi dei docenti sono esautorati di ogni potere di
controllo e
decisione, sono privati della libertà di discutere e confrontarsi
sulle
questioni. In tali contesti le delibere non scaturiscono da un
confronto
sincero, né poggiano su basi di compartecipazione e corresponsabilità
corale. Ormai è evidente che gli organi collegiali sono stati
svuotati e
ridotti a luoghi privi di ogni libertà democratica, divenendo centri
di mera
ratifica formale delle decisioni assunte altrove.
Nella scuola odierna, più che in quella del passato, è possibile,
oltre che
necessario, ripristinare e rilanciare un metodo di gestione
effettivamente
corale e partecipativo. In tale ottica conta molto più il metodo che
la
finalità di un progetto, in quanto è più importante il modo in cui
si
raggiunge uno scopo, ossia il come, anziché il cosa. Nel nostro caso,
il
metodo da recuperare si chiama "democrazia partecipativa", o
"democrazia
diretta": è la democrazia suprema dell'autonomia personale, il
massimo
possibile di democrazia in una società come la nostra e in una scuola
come
la nostra.
In tempi di transizione e di passaggio epocale come quelli che stiamo
vivendo, la democrazia è un organismo estremamente fragile e
precario, nella
misura in cui le inquietudini e le insicurezze derivanti dalla grave
recessione economica in atto e dalla crisi sociale, mettono seriamente
a
repentaglio le libertà individuali. L'attuale situazione
economico-politica
nazionale e internazionale evidenzia simili rischi; infatti, sono in
grave
pericolo i diritti e le libertà democratiche delle persone.
Ebbene, in simili fasi storiche di transizione e trapasso, segnate da
una
profonda crisi sociale, economica e politica, l'unica democrazia
effettivamente possibile non è quella formale e rappresentativa di
stampo
borghese, basata sul meccanismo della rappresentanza liberale, ovvero
la
democrazia delle deleghe elettorali, su cui poggia il sistema
politico-istituzionale tuttora vigente. Oggi l'unica democrazia
davvero
possibile e praticabile, da rivalutare, è esattamente la democrazia a
partecipazione diretta.
Nella scuola questa formula è incarnata nella democrazia collegiale,
l'unico
esempio di democrazia realmente possibile e praticabile. Non esistono
altre
forme o modalità organizzative. L'alternativa sarebbe semplicemente
l'assenza di democrazia, di regole condivise e di trasparenza, ovvero
la
deriva verso il personalismo e l'autoritarismo, il dirigismo e il
verticismo, la censura e la manipolazione delle idee e delle persone.
Pertanto, è necessario riscoprire ed applicare un metodo di gestione
politica basato sulla più ampia partecipazione e condivisione
collettiva
possibile, un metodo di organizzazione e di direzione collegiale da
mettere
in pratica sin dalle fasi iniziali di elaborazione e creazione di
qualsiasi
progetto o iniziativa scolastica che investe l'istruzione e la
formazione
delle giovani generazioni.
Lucio
Garofalo
disoccupazione,
droga ed emarginazione nell'Irpinia del 2009
FLESSIONI
E RI-FLESSIONI IRPINE
Se in questa noiosa campagna elettorale si volesse discutere
seriamente (per
quanto possibile in una campagna elettorale) delle questioni più
dirompenti
che turbano l'esistenza quotidiana delle nostre popolazioni, si
dovrebbe
prendere spunto dalla ferita più dolorosa che offende l'Irpinia, ma
il
discorso si potrebbe estendere facilmente a tutte le aree interne e
depresse
del Mezzogiorno. Mi riferisco al triste problema della disoccupazione
giovanile, alla totale assenza di prospettive e speranze legate a un
lavoro
decente e a una vita dignitosa per l'avvenire delle giovani
generazioni.
Dunque, proviamo a svolgere un'analisi il più onesta e obiettiva
possibile
sull'attuale situazione politico-sociale in Irpinia.
Il tasso della disoccupazione giovanile in Irpinia è assai elevato in
quanto
si aggira oltre il 52 per cento: quindi, nella provincia di Avellino
un
giovane su due è disoccupato. Inoltre, e questo è motivo di
ulteriore
apprensione e amarezza, il numero dei disoccupati che hanno varcato la
soglia dei 30 anni è in costante aumento. Notevole è anche il numero
dei
disoccupati ultraquarantenni, che nutrono scarsissime speranze e
possibilità
di reinserimento nel mondo del lavoro. Nel contempo, anche in Irpinia
si
sono diffusi a dismisura i rapporti di lavoro atipici e precarizzati,
soprattutto nella fascia di giovani tra i 20 e i 25 anni, ossia tra i
giovani alla loro prima occupazione lavorativa, assunti con contratti
a
breve termine.
Per non parlare dello sfruttamento del lavoro nero. Il numero di
lavoratori
stranieri presenti in Irpinia è in fase di crescita esponenziale
negli
ultimi anni. Lo sfruttamento di manodopera straniera a basso costo,
pagata
quasi sempre a nero, costituisce un problema molto grave ed esteso,
che
investe soprattutto i lavoratori immigrati che inevitabilmente ne
pagano le
conseguenze. Infatti, anche in Irpinia si registrano percentuali
davvero
inquietanti di omicidi bianchi, vere e proprie stragi sul lavoro di
cui
quasi nessuno parla. In larga parte le vittime dell'infortunistica sul
lavoro sono costituite da manodopera di origine straniera impiegata
nel
settore dell'edilizia.
Anche la Fillea-Cgil di Avellino denuncia tale situazione di emergenza
già
da qualche anno: "Purtroppo - così dichiara nel giugno 2007 il
segretario
Antonio Famiglietti - i cantieri privati continuano a sfuggire ad ogni
controllo. (.) la Fillea richiama ancora una volta ad un maggior
controllo
preventivo da parte degli organi preposti, riguardo all'osservanza
delle
norme di sicurezza nei cantieri irpini e operanti in Irpinia. Abbiamo
più
volte evidenziato che nei confronti della manodopera straniera occorre
prevedere misure di formazione maggiori, poiché spesso i lavoratori
stranieri sono inconsapevoli dei rischi connaturati all'attività
edile e il
più delle volte ignari della esistenza di leggi volti a tutelare la
loro
incolumità". Ma cosa fanno i "sepolcri imbiancati"
della politica locale?
Evidentemente sono troppo occupati in campagna elettorale a dispensare
facili promesse che non saranno in grado di mantenere, ma che servono
a
carpire ed ingannare la buona fede degli sprovveduti che ancora
credono a
tali impostori.
Ma torniamo al punto di partenza di questa riflessione, vale a dire al
tema
della disoccupazione giovanile. Questa rappresenta in ogni caso una
tragedia
collettiva in quanto produce effetti di depressione e disgregazione
che
lacerano il tessuto sociale di una comunità, esponendo i soggetti più
indifesi al ricatto politico-clientelare dei notabili locali e
comprimendo
gli spazi di libertà e convivenza democratica. Pertanto, è una
conseguenza
"inevitabile" che i migliori cervelli delle nostre zone
siano condannati
alla fuga, ad una sorta di esilio forzato che li obbliga ad emigrare
oltre i
confini del proprio territorio, in alcuni casi persino all'estero, per
ottenere ed esercitare una professione adeguata alle proprie
aspettative,
per conquistare un lavoro dignitoso che li metta in condizione di
affermarsi, seppure in un luogo distante dalla famiglia e dal paese
d'origine. In molti casi, mettendo radici altrove, senza fare più
ritorno
nella terra natia.
Ebbene, la nuova emigrazione irpina rivela aspetti a dir poco
sconcertanti,
che sono totalmente ignorati o sottovalutati, trattandosi di una fuga
in
massa di cervelli, ossia un'emigrazione giovanile di tipo
intellettuale, un
esodo di intere generazioni di giovani che mostrano notevoli
percentuali e
livelli di scolarità. Infatti, gli elementi più intelligenti, colti
e
preparati fuggono dal luogo in cui sono nati, cresciuti e dove hanno
studiato, anche perché non intendono (giustamente) soggiacere al
ricatto
clientelare imposto dai notabili locali che li costringono a mendicare
la
concessione di un lavoro che, invece, è un diritto che spetta a ogni
cittadino, sancito nel dettato costituzionale.
Quindi, occorre riconoscere un dato di fatto talmente palese che
indica
l'inasprimento e il peggioramento delle condizioni di vita in cui
versano le
fasce sociali colpite dalla povertà e dalla precarietà materiale,
anche e
soprattutto in seguito all'attuale crisi economica internazionale.
Tali
problemi esistono e si aggravano pesino nei piccoli centri della
nostra
provincia, che non rappresentano più le "oasi felici" di un
tempo,
oltretutto perché si è allentata quella secolare rete di reciproca
solidarietà che in passato sorreggeva le nostre comunità, un tempo
considerate (giustamente) a misura d'uomo.
Negli ultimi anni, a causa della globalizzazione economica
neoliberista
(contestata in tante parti del mondo) la realtà irpina ha accusato
una
nuova, improvvisa accelerazione storica che ha spinto fasce sempre più
ampie
di popolazione, soprattutto giovanile, verso il dramma della
disoccupazione
e dell'emigrazione, dell'emarginazione, della precarietà e della
disperazione. In questo contesto di pesanti difficoltà esistenziali,
le
devianze giovanili, i suicidi e le nuove forme di dipendenza -
dall'alcool e
dalle droghe pesanti - sono solo gli indizi più inquietanti e
sintomatici di
un diffuso malessere economico e sociale di cui nessuno, tanto meno i
politici, sembra voler prendere atto.
La scarsità di un lavoro degno di questo nome, lo spauracchio
dell'emigrazione (anche per le fasce sociali più scolarizzate), il
ricatto
sempre più anacronistico, ma tuttora vigente, delle clientele
politico-elettorali, la crescente precarizzazione dei contratti di
lavoro e
più in generale della stessa esistenza, l'assenza di tutele e
diritti:
queste sono tra le cause più drammatiche e strutturali che producono
il
disagio materiale ed esistenziale dei nostri giovani. Intere
generazioni che
crescono e si formano culturalmente nella nostra terra, ma poi sono
costrette ad emigrare per far valere le proprie capacità, per trovare
un
ambiente in cui vivere decorosamente e realizzarsi non solo dal punto
di
vista professionale, ma anche sul piano sociale. Se invece restassero,
sarebbero costrette ad umiliarsi, ad inchinarsi al solito "santo
protettore", oppure a farsi mantenere a vita dalle proprie
famiglie. Queste
condizioni non sono per nulla dignitose, e in nessun caso permettono
di
affermare la propria indipendenza economica, ma soprattutto di
conquistare
la piena autonomia sotto il profilo umano, sociale e politico. Si
tratta di
situazioni precarie e ricattabili, segnate da dolorose frustrazioni
interiori.
Preciso altresì che l'espressione "disagio giovanile" è
errata e fuorviante,
in quanto il disagio non è riconducibile ad un dato anagrafico. E'
invece
più corretto riferirsi al "disagio sociale", benché questo
malessere investa
soprattutto le "categorie" dei giovani e degli anziani,
ossia le fasce più
fragili della nostra società, essendo più esposte alle difficoltà,
anzitutto
materiali, che l'esistenza quotidiana impone agli esseri umani,
offrendo
scarse speranze e possibilità di superamento. Occorre aggiungere che
anche
un'elevata percentuale della popolazione senile sopporta stenti e
privazioni
derivanti soprattutto dalla solitudine e dall'abbandono, disagi che in
passato erano ammortizzati da una fitta rete di relazioni di mutua
solidarietà tra le generazioni, che ora non esiste più, almeno nelle
forme e
nelle dimensioni di un tempo.
Oggi l'Irpinia è un vasto comprensorio di piccoli comuni di montagna,
soggetti ad un inarrestabile calo e invecchiamento demografico, centri
che
non offrono più nulla o quasi ai giovani, sia sul versante delle
prospettive
e delle opportunità occupazionali, sia sul piano delle occasioni di
svago,
dei momenti di aggregazione e di crescita culturale, tranne pochi bar,
pub o
altri tipi di locali pubblici in casi eccezionali, è una provincia
ridotta
ad essere un luogo di noia e desolazione esistenziale, per cui
attecchiscono
atteggiamenti insani e pericolosi, si affermano in misura crescente
devianze
e dipendenze da alcolici e droghe di vario tipo, abitudini impensabili
fino
a 25/30 anni fa.
Negli ultimi anni, il problema delle tossicodipendenze giovanili è
uno dei
fenomeni sociali che hanno subito una notevole accelerazione e
trasformazione storica anche nelle nostre zone, assumendo proporzioni
e
caratteristiche di massa che prima erano ignote. Questo aspetto è uno
dei
segnali che attestano in modo inequivocabile i mutamenti
economico-sociali e
antropologico-culturali che si sono compiuti nelle nostre zone. In una
società di massa, in cui prevalgono tendenze e abitudini di tipo
edonistico
e consumistico, è inevitabile che si affermi anche un consumo
massiccio di
quelle sostanze definite "droghe", anzitutto un effetto di
emulazione e
omologazione culturale, vale a dire in virtù di un efficace strumento
di
persuasione, comunemente definito "moda".
In questo ragionamento occupa una posizione centrale la mercificazione
del
"tempo libero". La società borghese ha ormai imposto
un'ideologia
mistificante del "tempo libero", inteso falsamente come una
frazione della
propria esistenza quotidiana libera da impegni di lavoro e di studio
da
poter destinare agli svaghi, ai divertimenti, alle vacanze, ossia ai
consumi
economici. Tale mistificazione ideologica è funzionale ad un processo
di
mercificazione e privatizzazione del "tempo libero" che è
diventato un
ulteriore momento di alienazione dell'individuo nella fruizione
passiva e
meramente consumistica di prodotti offerti dall'industria del
"tempo libero"
e del "divertimento" quali, ad es., il sesso, la musica, lo
sport e,
ovviamente, le droghe. Per la serie "sex, drugs and rock'n roll".
Tali
fenomeni di massificazione, mercificazione e alienazione del
"tempo libero"
sono evidenti anche nei piccoli centri di provincia in cui viviamo.
E' estremamente difficile determinare con esattezza la portata di un
fenomeno come il consumo di sostanze stupefacenti nei nostri paesi, ma
basterebbe guardarsi un po' intorno con maggiore attenzione per
rendersi
conto della realtà. I Ser.T (Servizio Tossicodipendenti), ad esempio,
non
sono affatto rappresentativi della situazione delle tossicodipendenze
in
Irpinia perché in tali centri si recano generalmente quegli
eroinomani che
hanno necessità di assumere il metadone oppure quando, segnalati
dalla
prefettura, sono obbligati a seguire una terapia. Dunque, stabilire
con
precisione quanti siano i consumatori di altre sostanze (ovvero
cannabis,
cocaina, crac, kobrett, psicofarmaci, alcool) è praticamente
impossibile.
Un dato certo e inoppugnabile è che piccoli paesi con più o meno 4
mila
abitanti, come Andretta, Caposele o Frigento, hanno assistito ad una
crescita davvero inquietante del fenomeno negli ultimi anni. In queste
piccole comunità irpine si conta ormai un elevato numero di giovani
tossicomani che fanno uso di sostanze letali quali l'eroina, il
kobrett e il
crac, i cui centri di spaccio sono da ricercare fuori dal nostro
territorio,
ossia altrove, in luoghi notoriamente riconosciuti nelle periferie e
nei
quartieri più degradati dell'area metropolitana di Napoli, come, ad
esempio,
Scampia e Secondigliano.
Tali dati, pur nella loro agghiacciante "asetticità", ci
consegnano un
quadro allarmante di cause che probabilmente inducono i nostri giovani
più
validi ad allontanarsi dal posto in cui sono nati e cresciuti, per
riscattarsi altrove, per realizzarsi non solo nell'ambito
professionale,
esprimendo tutto il loro potenziale talento, che invece finirebbe
mortificato se restassero nella loro terra. Tali evidenze non possono
non
turbare la nostra coscienza, ma soprattutto dovrebbero indurre quanti
sono
deputati a livello politico-istituzionale ad adottare i provvedimenti
più
adatti a risolvere le drammatiche emergenze sociali come quella dei
decessi
per overdose, oppure dell'emigrazione e della disoccupazione
giovanile, del
lavoro nero e degli infortuni sul lavoro. Si tratta indubbiamente di
questioni distinte, ma che esigono un'analisi lucida, razionale e
unitaria,
in grado di comprenderne e spiegarne le cause reali.
Ebbene, quali sono le proposte emerse in questa scialba campagna
elettorale?
Quale è stata finora la risposta messa in campo dalle istituzioni
politiche
locali? Nella peggiore delle ipotesi, nulla. Nella migliore, il
ricorso alle
forze dell'ordine, l'intensificazione dei controlli e dei posti di
blocco,
insomma la repressione poliziesca, come se questi metodi coercitivi,
oltre
che inutili, potessero rimediare al malessere diffuso nelle nostre
comunità,
che scaturisce da altre emergenze sociali che ancora non hanno trovato
una
soluzione idonea e razionale: mi riferisco alla disoccupazione di
massa,
alla nuova emigrazione, alla precarizzazione delle condizioni di
lavoro e di
vita, all'assenza di diritti e tutele, di speranze e possibilità per
tanti
giovani, e meno giovani, dell'Irpinia.
Lucio Garofalo
TERREMOTO IN ABRUZZO: E' IL MOMENTO DELLA SOLIDARIETA', MA ANCHE DI
UNA PRIMA RIFLESSIONE
Di fronte
all'ennesima "sciagura naturale" (ma esistono davvero
calamità naturali esenti da qualsiasi responsabilità di ordine
politico-economico e antropico-culturale?) che ha investito il nostro
popolo e il nostro territorio, già straziato da lunghi decenni di
scempio e devastazione ambientale, di pessima e dissennata gestione
politica del territorio e delle sue ingenti risorse, anzitutto sul
versante delle amministrazioni locali e quindi sul piano nazionale,
un'antica storia contrassegnata da pericolose connivenze e complicità
con il cinismo, la spregiudicatezza e il malaffare della criminalità
economica privata a beneficio esclusivo di pochi speculatori avidi e
arroganti e totalmente privi di scrupoli, questo è comunque il
momento dei soccorsi e della solidarietà verso le popolazioni colpite
dal sisma. In seguito verrà anche il tempo delle polemiche e delle
critiche costruttive, ossia delle proposte.
Pertanto, voglio esprimere subito tutta la mia vicinanza e la mia
solidarietà morale ed umana a chi sta soffrendo in queste ore a causa
del terremoto in Abruzzo, anche perché ho direttamente conosciuto il
dramma provocato da una scossa sismica estremamente distruttiva,
avendo vissuto personalmente la terribile esperienza del 23 novembre
1980 in Irpinia.
Tuttavia, una prima analisi critica, benché ancora a caldo, si può e
si deve tentare, almeno per provare a comprendere quanto sta accadendo
e cosa si potrebbe fare in futuro.
Il bilancio delle vittime, dei feriti, dei senzatetto, dei danni alle
persone e alle abitazioni, è ancora provvisorio e si va aggiornando
in modo lugubre e agghiacciante ora dopo ora.
Un dato sembra certo e inoppugnabile: si tratta di uno degli episodi
sismici più violenti e catastrofici degli ultimi anni, inferiore (per
magnitudo Richter) solo ai terremoti che prostrarono il Friuli nel
1976, l'Irpinia e la Basilicata nel 1980. Un evento sconvolgente che
ho vissuto direttamente sulla mia pelle. Per questo, e a maggior
ragione, so di cosa parlo.
Alla devastante potenza si aggiunga anche l'orario notturno in cui si
è manifestato il sisma: a quell'ora assai inoltrata solo i più
incalliti nottambuli erano ancora svegli e in circolazione.
Non c'è dubbio che il terremoto che ha sconvolto l'Abruzzo è stato
geograficamente più circoscritto, nonché più limitato nella sua
durata temporale rispetto a quello che la sera del 23 novembre 1980
rase al suolo interi paesi dell'Irpinia e della Lucania, estendendosi
in un'area estremamente vasta e profonda, al punto che la scossa
maggiore (durata all'incirca un minuto) fu avvertita a centinaia di
chilometri di distanza. Ma l'ultimo evento sismico, per gli effetti di
distruzione provocati, risulta molto più grave e drammatico di quello
che colpì l'Umbria e le Marche nel 1997 e il Molise nel 2002. Tali
riferimenti alle esperienze pregresse non sono un puro ed inutile
esercizio di contabilità statistica, ma un modo per cercare di
comprendere chiaramente l'effettiva portata dell'evento tellurico che
ha sconquassato e stremato le popolazioni dell'Abruzzo. Non a caso,
partendo dal terremoto dell'Irpinia e dalla Basilicata nel 1980,
giungendo a quello dell'Umbria e delle Marche nel 1997, a quello del
Molise nel 2002, ed infine oggi in Abruzzo, l'area geografica
direttamente interessata e minacciata dai fenomeni sismici più
frequenti e dannosi, è esattamente quella lunga striscia di
territorio che attraversa la catena dell'Appennino centro-meridionale.
Si tratta di una delle zone a più alto rischio sismico dell'intera
penisola, probabilmente del mondo. E questo è un elemento di verità
assolutamente innegabile e incontrovertibile.
Dunque, per quanto concerne il rischio sismico, l'Italia
centro-meridionale è comparabile al Giappone e alla California.
Invece, per quanto attiene agli interventi di prevenzione sul
territorio, che richiedono soprattutto un'opera di educazione, ossia
di sensibilizzazione e preparazione culturale (da affidare non solo
alle istituzioni scolastiche che dovrebbero essere deputate a tale
compito, ma pure ad altre agenzie formative presenti sui territori),
siamo purtroppo paragonabili ad altri Stati, che noi riteniamo siano
più arretrati e sottosviluppati del nostro paese, invece ci sarebbe
da chiedersi chi è il vero "Terzo Mondo".
Si pensi che la terra d'Abruzzo è stata dichiarata una zona ad alto
livello di pericolosità rispetto al rischio sismico sin dagli anni
'60, per cui si presume che la normativa antisismica in materia di
edilizia abitativa fosse stata adottata (evidentemente solo sulla
carta) sin da quegli anni lontani. Invece, dalle notizie appena
trasmesse veniamo a scoprire che, ancora oggi, a causare il maggior
numero di morti sono stati i palazzi di quattro piani ed oltre (e c'è
chi legifera, tramite decreti d'urgenza, per incentivare la
cementificazione del territorio e l'ampliamento dell'edilizia
abitativa) costruiti col cemento (dis)armato, così come è accaduto
in precedenti esperienze. Un dato davvero inquietante e
raccapricciante. Insomma, la memoria storica che dovrebbe essersi
formata nella coscienza delle persone del nostro paese, sembra non
valere proprio a nulla.
In questi giorni si viene ad apprendere (per chi non lo sapesse) che
in Italia la normativa antisismica più stringente e rigorosa è stata
varata (e non parliamo della giusta e doverosa applicazione della
legge) solo dopo il terremoto del Molise nel 2002, esattamente con
l'Ordinanza n. 3274 del 20 Marzo 2003.
Sembra incredibile ed assurdo, ma è così. Checché ne dicano i
sepolcri imbiancati presenti in maniera trasversale nella politica
nostrana, nonché i loro servi e padroni.
Comunque, si sa che in Italia una cosa sono le leggi, ben altra cosa
sono l'osservanza e l'applicazione delle leggi soprattutto da parte di
chi dovrebbe eseguirle e farle rispettare.
Nonostante la storia sismica del territorio italiano avrebbe dovuto
insegnarci a costruire le case, gli ospedali e le scuole, non dico
come in Giappone, ma molto meglio di quanto non avvenga in realtà, e
avrebbe dovuto abituarci ad una politica educativa e culturale di
prevenzione, per scongiurare simili eventi catastrofici, invece la
realtà raccapricciante dell'ultima tragedia ci dimostra che le
esperienze precedenti non sono valse proprio a nulla. Si continua a
far finta di nulla, come se l'Italia fosse immune da ogni rischio
sismico e ambientale.
Dunque, un altro elemento di critica, non polemica o gratuita, bensì
costruttiva, da proporre sin da subito, è il seguente.
Viene giustamente da chiedersi come mai in un paese ad elevato rischio
di catastrofi sismiche e ambientali, quale l'Italia, in cui
periodicamente si verificano "disastri naturali" (terremoti,
alluvioni, frane ecc., possono davvero essere considerati come
semplici "disgrazie" o "iatture" dovute alla furia
della natura, oppure esistono precise responsabilità storiche da
ascrivere all'uomo, ovvero alla gestione politica, all'incuria e allo
scempio del territorio?), il governo nazionale ragiona insieme ai
governatori delle regioni su come incentivare l'edilizia abitativa
oppure sull'ipotesi di costruzione del ponte sullo stretto di Messina,
invece di dedicarsi seriamente alla progettazione e alla realizzazione
di un piano di risanamento ambientale e antisismico, da varare ed
attuare finalmente su scala nazionale.
La risposta sarebbe scontata e banale: gli affari d'oro che
scaturiscono dalle speculazioni edilizie, o di altro tipo, sono
indubbiamente maggiori rispetto ad un'opera di risanamento antisismico
e ambientale su tutto il territorio nazionale, che ridurrebbe gli
spazi di agibilità e le possibilità di profitto economico per gli
speculatori e agli affaristi, ed ovviamente per i loro complici e
protettori, vale a dire i referenti politici e istituzionali. Questa
è una verità storica ormai assodata da tempo, eppure sembra che
venga scoperta per la prima volta.
La mia riflessione non vuole fornire un facile e comodo pretesto per
una strumentalizzazione di parte a livello politico, né intende
prestarsi ad interventi di "sciacallaggio politico", come
potrebbero banalmente obiettare i detrattori più faziosi e in
malafede, ma si propone di offrire un ragionamento il più possibile
onesto e obiettivo, utile e costruttivo per l'avvenire, affinché le
future generazioni non debbano subire sulla loro pelle le dolorose
esperienze vissute in passato dalle genti irpine e lucane, ed oggi
dalle popolazioni dell'Abruzzo.
Lucio Garofalo, di Lioni (in Irpinia)
06.04.2009
Da: INFOAUT.org
Terremoto in Abruzzo: oltre 100 morti, allarme inascoltato!
Un terremoto di magnitudo di 5,8 gradi della scala Richter (simile per
intensità a quello del 1997 in Umbria) ha colpito alle 3.32 di questa
notte la zona de L'Aquila, in Abruzzo, causando il crollo o il
lesionamento di centinaia di edifici e un numero imprecisato di
vittime. Al momento sono 40 i corpi estratti dalle macerie, ma decine
di persone mancano ancora all'appello. Fra essi anche numerosi
universitari italiani, palestinesi e greci, rimasti coinvolti nel
crollo di una casa dello studente. Centinaia i feriti e decine di
migliaia gli sfollati non solo a L'Aquila ma anche in numerosi centri
minori, radunati in gran parte nello stadio cittadino.
L'ospedale cittadino è parzialmente inagibile, chiusa l'autostrada
A24 e assente l'acqua potabile in gran parte delle zone colpite. In
queste ore continuano comunque le operazioni di ricerca dei dispersi e
rimozione delle macerie, ma la situazione resta drammatica anche per
lo stillicidio di scosse di assestamento che stanno riguardando
l'area. Il sisma notturno è stato avvertito in tutto il centro
Italia, fino a Roma, mentre solo ieri un'altra scossa aveva colpito la
zona a cavallo fra Romagna e Marche.
Nonostante l'immediato battage mediatico vada dicendo fin da questa
mattina l'evento sismico non era assolutamente prevedibile, da giorni
la zona de L'Aquila era colpita da scosse di terremoto. A
testimoniarlo, fra le altre cose, la richiesta inoltrata al Governo
proprio dal Comune aquilano affinchè lo Stato riconoscesse lo stato
d'emergenza: una richiesta datata 1 aprile 2009, ossia ben 5 giorni
fa. Forti polemiche anche sulle previsioni del sisma fatte nei giorni
scorsi da Gioacchino Giuliani, ricercatore ai laboratori del Gran
Sasso dell'Istituto nazionale di fisica nucleare. Nei giorni scorsi lo
strumento creato da Giuliani aveva rilevato la presenza massiccia di
precursori dei terremoti nella zona di Sulmona, attraverso i livelli
di gas radon liberati dalla crosta terrestre. Poi il sisma non era
avvenuto e lui era stato denunciato per procurato allarme.
L'intervista a Gioacchino Giuliani: "Ora Bertolaso chieda
scusa"
Dirette, interviste e approfondimenti su Radio Onda d'Urto
Abruzzo, Italia 6 aprile 2009
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