l'articolo/notizia/comunicato nella OpenArea di Pugliantagonista
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ROMA 27 FEBBRAIO 2010 INCONTRO NAZIONALE DI DISCUSSIONE SULLE PROSPETTIVE DI RINASCITA DI UN PARTITO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO
Per un comunista non vi è altra
soluzione che il comportarsi da comunista. Per questo pensiamo ad un percorso
costituente che da oggi ponga all’ordine del giorno il Movimento
politico organizzato, qui ed ora, e, in un vicino lasso di tempo, un
ulteriore passaggio organizzativo complessivo (e stringente) come
sintesi possibile delle nostre esperienze e – ci auguriamo – di
quelle di tanti altri compagni e compagne, oggi condannati alla
solitudine ed alla marginalità da gruppi dirigenti opportunisti che,
ancora una volta nella nostra storia, hanno svenduto i bisogni e le
aspirazioni dei lavoratori, dei giovani, delle donne, in cambio di
poltrone e privilegi. Per raggiungere questo obiettivo è
necessario coinvolgere le avanguardie di lotta e i più ampi settori
di massa per aprire un dibattito, caratterizzato da uno sforzo
unitario, il più franco e leale possibile, con tutte le componenti
comuniste e rivoluzionarie realmente interessate e motivate oggi ad un
percorso di liberazione del proletariato e dell’umanità intera
dallo sfruttamento capitalistico e dalla schiavitù del lavoro
salariato mediante la rivoluzione per l’abbattimento del capitalismo
e del potere borghese. La nostra
proposta muove infatti da un assunto di fondo: la crisi sistemica del
modo di produzione capitalista, al contempo economica, sociale e
politica mette in luce, con un’evidenza senza precedenti, il divario
tra l’attualità oggettiva del superamento rivoluzionario
dell’esistente e l’inadeguatezza soggettiva del fronte proletario,
e in primo luogo delle sue avanguardie. Siamo consapevoli che, nel
quadro dato, il lavoro necessario a colmare questo gap non sarà né
agevole, né di breve durata: per noi la costruzione del partito dei
comunisti non potrà che essere l’esito di un costante processo di
confronto e di verifica da svolgere sul terreno quotidiano della lotta
di classe. Un processo che potrà dare i suoi primi frutti solo
muovendosi in controtendenza rispetto al pantano attuale, ovvero: fuori
da logiche di mero assemblaggio, tanto più se funzionale a qualche
sterile scorciatoia elettorale; oltre
gli ambiti angusti che si autonominano “partito” sulla base di
oscure liturgie e autoinvestiture; e contro
ogni opera di maquillage tesa a riciclare parti di quel ceto politico
responsabile di
decenni di sconfitte proletarie.
DOCUMENTO - PROPOSTA per la COSTITUENTE del PARTITO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO. La situazione politicaIl capitalismo mondiale mantiene ed
accresce, con i suoi effetti devastanti di crisi economica e di
guerre, i caratteri fondamentali di imperialismo delineati
dalla teoria comunista nel corso della prima guerra mondiale del
1914/18. La dinamica impetuosa della diffusione
nel mondo del modo di produzione capitalistico, realizzatasi
soprattutto negli ultimi decenni, e delle sue ineliminabili
contraddizioni di classe tra proletariato e borghesia, mette sempre di
più all’ordine del giorno la necessità storica del superamento del
sistema borghese. Questa necessità storica, non traducendosi
meccanicamente né in crisi politica, né in automatiche ricadute
organizzative, pone ai comunisti il compito di lavorare per la
costruzione del partito rivoluzionario partendo dal presupposto
irrinunciabile: la natura internazionale del proletariato e la
necessità di inquadrare internazionalmente ogni sua lotta politica,
contro ogni imperialismo, in primis quello di "casa propria"
(nel nostro caso quello italiano ed europeo), indipendente da ogni
borghesia nazionale d’area, anche se si presenta come
"oppressa", come progressista o sedicente socialista. La crisi capitalistica determina, in
Italia come nel resto del mondo, una ridefinizione dell’assetto
politico e del funzionamento della macchina statale borghese. In
questo processo, non esiste una linea univoca della classe avversa. Le
varie fazioni sono, infatti, discordi sui tempi e sui modi, riflesso,
questo, di una divisione ben più profonda dei loro interessi
contrapposti, sia a livello internazionale sia interno. Una delle cause degli squilibri sociali
e politici dell’imperialismo nostrano è il peso abnorme della
piccola borghesia, mediamente tre volte maggiore di quello dei suoi
concorrenti internazionali. Nei vari settori in cui opera (commercio,
servizi, professioni, artigianato, turismo) essa occupa uno spazio
economico che difende dalla concorrenza del grande capitale,
avvalendosi della protezione politica di leggi e regolamenti. La
caduta del secondo governo Prodi e l’avvento del blocco reazionario
oggi al potere ha rappresentato anche una vittoria di queste
resistenze contro le liberalizzazioni di Bersani. La bassa
concentrazione, ossia la piccola dimensione delle imprese italiane, si
riflette anche in una più elevata frammentazione del proletariato e
in una sua più difficile organizzazione nei luoghi di lavoro. Al contrasto d’interessi tra piccola
e grande borghesia si sovrappongono il contrasto tra gli interessi
regionali, principalmente legato ai trasferimenti di ricchezza da Nord
a Sud attraverso il Bilancio dello Stato, e quello tra gli interessi
dei vari settori, talvolta confliggenti tra frazioni della stessa
grande borghesia. L’esempio più fulgido è rappresentato dalle
guerra senza esclusioni di colpi tra l’impero Sky di Murdoch e
quello Mediaset sul mercato televisivo - pubblicitario o tra Mondadori
e De Benedetti su quello editoriale. Non vi è mai identità o
corrispondenza biunivoca tra interessi economici e rappresentanze
politiche; i grandi gruppi tengono in genere pedine in tutti gli
schieramenti politici oggi presenti in Parlamento. Tra gli stessi
gruppi si fanno strada ipotesi centriste (vedi Montezemolo) non
necessariamente destinate al successo, perché non vi è sempre
meccanica traduzione politica degli interessi economici. Il
proletariato fornisce, con crescente riluttanza, la massa elettorale
per la contesa democratica tra gli interessi borghesi, senza avere una
propria rappresentanza politica. La recente offensiva antioperaia
FIAT-Marchionne trova sostegno in tutti gli schieramenti politici. In generale la forma democratica dello
Stato è quella più funzionale alla mediazione e regolazione degli
interessi delle varie frazioni della borghesia, anche in questa fase
di crisi e difficoltà di accumulazione del capitale. Quel che muta
sono invece le modalità attraverso le quali lo Stato esercita il
proprio potere, ed esse sono più o meno autoritarie a seconda delle
dinamiche del ciclo del capitale e soprattutto in relazione ai
rapporti di forza tra le classi. Storicamente, la forma fascista è
stata adottata dalla grande borghesia (e non solo da quella agraria)
come risposta repressiva alla pressione rivoluzionaria del
proletariato; è indubbio che la crisi attuale tende a determinare una
ripresa su larga scala di pulsioni reazionarie e xenofobe; tuttavia
allo stato attuale la borghesia non sembra aver bisogno di sopprimere
la democrazia formale, essendo oggi ancora poco consistente la
pressione proletaria ed ancora inesistente l’organizzazione
partitica di classe mirante apertamente alla soppressione del dominio
borghese. Anche per queste ragioni gli attuali rigurgiti neofascisti
non assumono ancora un largo carattere di massa; però, se e quando
operano contro l’attività dei comunisti o tentano di contrastarla,
devono ricevere adeguata risposta. Sono tuttavia in corso tentativi di
rafforzamento degli organi esecutivi a discapito di quelli
parlamentari e della magistratura, nel tentativo di adeguare il
meccanismo democratico-istituzionale ed elettorale alla situazione
generata dalla crisi. Tale processo non è certo opera solo della
destra berlusconiana ma è in atto, o già giunto a compimento, in
gran parte d’Europa, e risponde in realtà a un’esigenza di
semplificazione dei meccanismi decisionali dello Stato, al fine di
adeguarli ai tempi ed alle nuove modalità di accumulazione di un
capitale sempre più transnazionale. Questi meccanismi tendono
inevitabilmente ad aprire nuove contraddizioni, provocando dissenso e
talvolta aperta opposizione in settori proletari (a cos’altro mira
il famigerato Piano-Marchionne, se non a produrre sul piano sindacale
quegli stessi paradigmi che da qualche decennio si sono affermati in
ambito parlamentare e costituzionale?). La crisi di accumulazione interna, che
si traduce nella stagnazione del PIL italiano (cui fa da contrappunto
il rafforzamento della presenza estera dei gruppi italiani), riduce i
margini di concertazione ed elargizione riformistico-clientelare, con
tagli che investono in particolare il pubblico impiego e il sistema
del welfare. Questo ha ristretto lo spazio di manovra del
centro-sinistra e delle confederazioni sindacali, il cui peso al di
fuori dei salassati pubblici dipendenti si va sempre più riducendo.
Nel settore privato, dominato dalla piccola impresa, anche tra i
salariati vince, infatti, l’ideologia interclassista aziendalista e
la sua traduzione elettorale leghista o PDL, e si affievolisce la
capacità di resistenza e di risposta collettiva di classe, anche
nella misura in cui viene meno la prospettiva sindacale-riformista. Se la frammentazione della classe e la
pesantezza del mercato del lavoro indeboliscono la capacità di lotta
del proletariato, ciò non significa assenza di lotte: ne sono
testimonianza eclatante i violenti scontri tra manifestanti e “forze
dell’ordine” in Grecia, Inghilterra, Francia, Tunisia, Algeria,
Albania, Egitto ed in Italia, come pure in altri paesi; resta,
purtroppo, il grosso limite della loro frammentazione e della
difficoltà di unificazione e generalizzazione. In situazioni economicamente più
floride della presente, la borghesia, a volte, ha “magnanimamente”
concesso vasti poteri formali alle assemblee elettive, investendo
nella propaganda della partecipazione del cittadino alla formazione
delle decisioni del proprio paese, per rafforzare così il consenso
generale. Ma, con l’acuirsi della crisi, sono stati tagliati tali
fronzoli in favore di una semplificazione e razionalizzazione
istituzionale che, proprio in virtù della introdotta semplificazione
verso il ‘bipolarismo’ e della razionalizzazione del sistema
politico (nello specifico, la soglia di sbarramento al 4% alle
nazionali), ha fatto sì che ormai in Parlamento non ci fosse più
spazio nemmeno per la sedicente “sinistra radicale”. D’altro
canto, la diminuzione della capacità di elargire servizi e di fare
del riformismo assistenzialista (soprattutto, ma non solo, per la
‘sinistra’ di sistema), per effetto della crisi strutturale di
accumulazione, costringe chiunque entri nelle "stanze dei
bottoni" a fare riforme impopolari, accrescendo così il distacco
ed il risentimento diffuso verso la casta dei politici e le
istituzioni rappresentative. La classe operaia sola di fronte alla crisi.Nonostante il silenziatore posto da
giornali e televisioni di regime, intenti come non mai ad occultare il
paese reale e le sue contraddizioni per concentrare i riflettori
sull’insulso teatrino del bipolarismo istituzionale e sui finti
scontri tra le due frazioni della borghesia nostrana, ovunque si
susseguono esperienze di lotta e protagonismo operaio. La mappa delle crisi aziendali e delle
numerose mobilitazioni di lavoratori è così ampia e svariata che è
letteralmente impossibile stilarne un elenco minimamente esaustivo;
salvo qualche lodevole eccezione, nella maggior parte dei casi stiamo
assistendo a una proliferazione di lotte “fai da te”, il più
delle volte portate avanti fuori dai tradizionali canali sindacali, e
in molti casi caratterizzate da forme di protesta isolate tra loro, e
mosse più da un senso di disperazione e di ricerca spasmodica dei
riflettori mediatici, che di cosciente e consapevole iniziativa di
classe. Questo rinnovato protagonismo operaio è a nostro avviso anche
il frutto della profonda sfiducia e dell’estremo isolamento politico
e sindacale che si è sedimentato tra la classe nel corso degli anni,
alimentato da un lato dalla perdita di credibilità delle
organizzazioni “ufficiali” (CGIL e “sinistra radicale” in
primis) a seguito dei voltafaccia, del ventennio di concertazione a
perdere e delle politiche di attacco al salario in nome dei “governi
amici”, e dall’altro dalla cronica incapacità delle realtà del
sindacalismo di base e della ‘sedicente sinistra di classe’ di
indicare e praticare percorsi di lotta organizzati, coordinati e
capaci di infondere nuova fiducia nella classe. In questo stato di perenne equilibrio
precario, in cui il ceto politico e sindacale prova a galleggiare
investito dalle stesse contraddizioni da cui è divorata la classe
dominante, emergono con sempre maggior evidenza i limiti del movimento
di classe in tutti i suoi ambiti e forme: la mancanza di coordinamento
tra le lotte e le vertenze, la mancanza di credibili punti di
riferimento a livello sindacale e, soprattutto, l’assenza di una
concreta iniziativa politica tesa al rilancio della battaglia per
l’unità e l’autonomia di classe e, a partire da questa, per il
rilancio di un credibile progetto di unità dei comunisti, funzionale
politicamente e sostanzialmente. È ormai evidente l’esigenza della
creazione di strumenti credibili ed al passo con le attuali
problematiche e le ulteriori forme di sfruttamento, capaci di
interagire con le lotte che spontaneamente la classe produce, con le
sue forme più avanzate di protagonismo ed autorganizzazione, avendo
come fine determinare, favorire ed assecondare la loro unità,
indipendenza e radicalità. Lo scopo immediato è di parlare
“alla pancia”, “al cuore” e “alla mente” dei lavoratori
attraverso un fronte unico che si muova dal basso per scavalcare i
vertici di tutte quelle entità sindacali o politiche che mirano a far
rientrare la mobilitazione. Ne consegue che, in tali momenti, la
distinzione da rimarcare è fra chi tenta di incanalare o svendere la
protesta e chi, invece, tenta di farle esprimere tutte le potenzialità
di cui è in grado. In periodi come gli attuali, in cui,
anche se ci sono parziali segnali incoraggianti di risveglio, i
proletari non stanno rispondendo come avrebbero dovuto ai recenti e
recentissimi attacchi, bisogna evitare il cosiddetto “realismo
contrattuale”: per il classico ‘piatto di lenticchie’ ci si
trasformerebbe in complici della concertazione dei sindacati
“ufficiali”. L’intervento rivoluzionario nel
conflitto di classe, oggettivamente prodotto dal rapporto
capitalistico di produzione, è inevitabile, ed è insostituibile
“palestra” politica, organizzativa e teorica, indispensabile per
avviare e vincere definitivamente la battaglia per la conquista del
potere proletario. Questa imprescindibile e propedeutica caratterizzazione
di classe, deve sostanziare e si deve articolare in tutte le altre
rivendicazioni specifiche delle singole lotte (difesa del salario,
difesa della salute e della sicurezza del lavoratore, lotta contro la
crescente precarizzazione, lotta per la parità di trattamento e di
salario dei lavoratori immigrati, opposizione a ogni licenziamento,
palese o mascherato, opposizione a qualsiasi peggioramento della
qualità della vita sul posto di lavoro - ritmi, orari, pause, turni).
Inoltre si potrebbero appoggiare, a fini agitatori, anche alcune
proposte come il salario garantito, la riduzione dell’orario di
lavoro a parità di salario, e simili. Oltre l’antagonismo, per la rivoluzione.L’integrazione statuale dei sindacati
confederali ed il fallimento della scommessa sostitutiva dei sindacati
di base, fanno il paio con la verificata insufficienza della
strumentazione sindacale in sé, perché sempre più spesso le filiere
decisionali e di comando del padronato continentale divengono di
difficile individuazione e contrasto. Oggi anche una semplice ritirata
ordinata di classe di difesa normativo-salariale deve acquistare i
caratteri della lotta politica contro le leggi di stabilità
dell’Europa dei padroni. Oggi la lotta economica di classe, se
rimane esclusivamente tale senza porsi nella prospettiva del
superamento delle compatibilità e dei vincoli di sistema, è
destinata alla sconfitta. Se questa è la condizione concreta
degli odierni rapporti di classe, il nostro intervento deve essere
certo interno alla battaglia per la difesa dei diritti e delle
conquiste del lavoro, promuovendo e radicalizzando ogni forma di
autorganizzazione, come i coordinamenti di lotta autoconvocati\auto
organizzati, in modo che possano divenire, in un auspicabile
prossimo futuro, l’indispensabile ossatura del Partito dei comunisti
rivoluzionari. Il nostro intervento deve acquisire la
caratteristica di piano di lavoro organizzato, che sappia dare respiro
politico generale ad ogni specifica lotta. La storia e l’esperienza
del movimento operaio e comunista, ormai da più di un secolo e mezzo,
dimostrano la validità di due assunti-cardine del metodo marxista: 1.
La validità della “ragione” militante passa
necessariamente dalla verifica quotidiana offerta dal vivo dello
scontro di classe. Un efficace intervento politico delle avanguardie
di classe e dei militanti comunisti, nelle lotte e nei mille rivoli
della contraddizione di classe, può praticarsi solo a condizione di
conoscere a fondo, quindi sul campo, la materialità quotidiana
dello sfruttamento e le forme concrete del dominio capitalistico. 2.
La teoria rivoluzionaria si caratterizza come tale solo se è
capace di tradursi, a livello sia tattico che strategico, in una
valida “guida per l’azione” di migliaia di uomini e di
donne, in una griglia di strumenti analitici, interpretativi e
programmatici, espressione dell’avanzamento del movimento reale
che abolisce lo stato di cose presenti; quindi né un mero elenco
di petizioni di principio, né tantomeno una tavola dei desideri,
affermati idealisticamente ma privi di corrispondenza con la realtà
sociale e i suoi rapporti di produzione. Da questi due assunti, ne consegue che
i comunisti rivoluzionari debbono cercare di intervenire in ogni
singola lotta e vertenza parziale e territoriale, affinché
all’interno di queste ultime prevalgano prassi, parole d’ordine e
forme di lotta autonome dalle compatibilità padronali e dai loro
reggicoda riformisti, ed affinché da ogni lotta ed istanza parziale
emergano in maniera chiara il carattere prevalente del conflitto
capitale-lavoro, la nocività del sistema capitalistico e l’inconciliabilità
d’interessi tra le due classi in lotta. Siamo di fronte a una miriade di crisi
aziendali e ambientali, licenziamenti, casse integrazioni, in un
quadro già segnato da una disoccupazione che ha raggiunto livelli
oramai insostenibili e dalla netta caduta del potere d’acquisto dei
salari a causa dell’aumento delle tariffe dei beni pubblici
essenziali (luce, acqua, gas, trasporti, ecc.), dal caro-prezzi e dal
caro-mutui, e
a spesso
confuse risposte da parte dei lavoratori. Molti compagni, a
prescindere dalle sigle sindacali o politiche, già hanno creato
Comitati contro la crisi, consigli unitari ed autoconvocati di
lavoratori in lotta nei luoghi di lavoro, casse di resistenza utili a
sostenere le lotte e a fronteggiare gli effetti più nefasti della
crisi. Ma affinché quest’ultima produca non disperazione e senso
d’impotenza, bensì rabbia e volontà di riscatto, insubordinazione
ai diktat dei padroni, delle istituzioni e dei politicanti ad essi
asserviti, occorre un salto di qualità. I coordinamenti di lotta
autoconvocati\autoorganizzati rappresentano a nostro avviso lo
strumento principe capace oggi di promuovere, coordinare e
collegare le lotte a livello almeno nazionale: già in alcune città
esistono esperienze simili, seppure in stato ancora “embrionale”
(Milano, Bergamo, Torino, Roma, ecc.). I coordinamenti autoconvocati\autoorganizzati,
che parlano a qualsiasi lavoratore, disoccupato, cassintegrato,
immigrato, studente, ecc., non sono in concorrenza né con i sindacati
né con i comitati di lotta specifici (es. di quartiere, di occupanti
di case, di disoccupati, di immigrati, ecc.), ma attraversati dai
proletari interni a tali organizzazioni. Organismi di lotta dal basso,
infatti, non hanno discriminanti di tessera o di orientamento
politico, ma le hanno su come si vuole portare avanti la lotta, per
acuire, nel caso di formazioni prone agli interessi padronali, la
scollatura fra le varie basi e le dirigenze burocratiche. Le forme e
gli organismi di lotta, come ci insegnano storia ed esperienza
militante, non si inventano a tavolino. I Soviet prima sono stati
creati dal movimento, come risposta alle necessità di una lotta in
corso, poi sono stati teorizzati. I “coordinamenti di lotta
autoconvocati/autoorganizzati” sono, finora, quasi solamente
assemblee di militanti (quando non semplicemente intergruppi), non
organismi di massa, espressione, per capirci, degli operai che
scioperano. Ben vengano, però, questi coordinamenti, come passaggio
per strappare l’egemonia agli opportunisti legati ai partiti
borghesi o direttamente al padrone; la massa di chi lotta punta,
infatti, a un risultato concreto, contrattuale, ed è su quel terreno sindacale
che dobbiamo attrezzarci per battere politicamente l’opportunismo.
Quindi: coordinamenti territoriali più presenza nei
luoghi di lavoro, nelle lotte aziendali, di categoria, generali, e
negli organismi che le dirigono, siano essi istituzionalizzati o
spontanei, per dirigerli. L’unica altra alternativa è
ridursi a fare i grilli parlanti. Tali coordinamenti, per evitare ogni
possibile burocratizzazione, dovrebbero essere espressione
territoriale e permettere l’unificazione delle vertenze e delle
lotte sullo stesso territorio, in modo che queste non rimangano
confinate in un solo territorio o luogo di lavoro: espressioni
vertenziali antagoniste per accreditare la serietà e l’efficienza
della lotta. Ma, oltre a tali espressioni, occorre valorizzare e
mettere in collegamento tali tentativi, operando per costituire
insieme una comune direzione politica. Con la crisi attuale del capitale,
insomma, i nodi vengono al pettine, e lo spazio per la mera
contrattazione si assottiglia, diminuendo sempre più le potenzialità
di manovra per il riformismo, anche a livello contrattuale, e,
contemporaneamente, le aumenta per l’organizzazione autonoma di
classe (e le strutture in cui opera) che intende la lotta tattica,
immediata e rivendicativa inscindibile da quella strategica per il
Comunismo. Premesso che, oggi più di mai,
l’organizzazione partito dei comunisti non potrà non essere
internazionale, riteniamo tuttavia necessario partire dalla
considerazione che “il primo nemico dei lavoratori è nel proprio
paese” e, quindi, individuare il nostro paese come prima tappa
di un difficile e faticoso lavoro di ricostruzione
dell’organizzazione comunista. In questa fase preliminare, il compito
di una costituente dei comunisti rivoluzionari deve essere, al
tempo stesso, strategico e tattico: alla pratica dell’autonomia di
classe vanno infatti affiancate iniziative tese ad interpretare i
bisogni immediati espressi da quei settori di classe più
immediatamente disponibili alla lotta. I coordinamenti
autoconvocati\autoorganizzati sono lo strumento concreto di tale
iniziativa. Una nuova stagione di costituente
dei comunisti rivoluzionari si può e si deve aprire, con al
centro la riconquista della centralità del conflitto
capitale-lavoro, contro gli specialisti delle differenze sociologiste,
degli eclettici della politica, dei testimoni del dogma ideologico,
con al centro l’autorganizzazione e l’autodifesa
come precise discriminanti politiche, contro i meccanismi di delega e
di rappresentanza esterna del movimento di classe, con al
centro l’esigenza di dare intelligenza, organizzazione,
forza e direzione alla rabbia e alla frustrazione
generalizzate. Trasformare la protesta antagonista in
incompatibilità di sistema, in progetto rivoluzionario e concreta
azione, finalizzata alla conquista proletaria del potere, è oggi il
solo impegno caratterizzante ed efficace dei comunisti. A fronte di quelli che gettano a terra
la bandiera rossa con la falce ed il martello, siamo orgogliosi di
prendere nelle nostre mani i simboli della Comune di Parigi, della
Rivoluzione d’Ottobre e di oltre un secolo di lotte, di rivoluzioni
e di resistenze, PER IL COMUNISMO!
per info mai: fenix1893@hotmail.it |
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