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associazione marx XXI

17 maggio 2010 - ore 18.00

via Borrelli 32 Bari

(di fronte al Piccolo Teatro, a pochi minuti dalla stazione e dal parcheggio della ex caserma Rossani in c.so B. Croce)

 

dibattito

La trappola del federalismo

Relaziona

Salvatore d’Albergo

docente di diritto costituzionale, Università di Pisa

 

Intervengono

Gaetano Bucci

docente di Diritto pubblico dell'economia, Università di Bari

 

Giovanni Chiellini

Comitato per la difesa della Costituzione, Firenze

 

Coordina

Andrea Catone, direttore de l’ernesto

 


 

BARI 27 aprile 2010 - ore 18.30

Antonio Gramsci militante comunista


 Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.

Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo.

Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza.

(L'Ordine Nuovo, anno I, n. 1, 1° maggio 1919)

 

A 63 anni dall’assassinio fascista del grande intellettuale rivoluzionario

 

Nel primo pomeriggio una delegazione si reca al carcere di Turi per rendere omaggio alla memoria del militante comunista

 

27 aprile 2010 - ore 18.30

via Borrelli 32 Bari

 

(di fronte al Piccolo Teatro, a pochi minuti dalla stazione e dal parcheggio della ex caserma Rossani)

 

Intervengono

 

Andrea Catone, direttore de l’ernesto

 

Paola Pellegrini, segretaria nazionale dell’Associazione Marx XXI

 

Pasquale Voza, fondatore del Centro interuniversitario di studi gramsciani

 

ore 20.30 - Proiezione:

Gramsci, film in forma di rosa (2005)

di Gabriele Morleo e discussione con l'autore

 





BARI Martedi 2 marzo 2010 - ore 17.00

c/o Centro culturale, via Borrelli 32
[quartiere Carrassi, a 6' dalla stazione, a 3' dal  parcheggio ex caserma Rossani]

La crisi del capitale e il ruolo dei comunisti
Presentazione dei due numeri speciali di Marxismo Oggi  realizzati in collaborazione con
l'ernesto, Essere comunisti, la Rinascita della sinistra

 


intervengono

 

Domenico Moro, economista (Roma)

Ghita Marzano, lavoratrice in lotta dell'Agile ex Eutelia, Bari

Donato Stefanelli, segretario generale regionale FIOM CGIL

Gaetano Bucci, docente di Diritto pubblico dell'economia, Universita di Bari

Luigi Marino, direttore del dipartimento economia del Pdci

Fosco Giannini, dir. naz. PRC, coordinatore naz. area de l'ernesto

 Coordina

Nico Perrone, docente di Storia dell'America, Universita di Bari


Dalla Carta costitutiva dell'associazione Marx XXI

"La crisi dei partiti comunisti e della sinistra in Italia affonda le sue ragioni, oltre che negli sconvolgimenti storici dell'89, anche in una vera e propria scissione tra la teoria e la prassi politica che ha prodotto, nel corso di almeno un decennio precedente a quegli eventi, la sottovalutazione e l'abbandono sia del pensiero di Marx e delle sue categorie di interpretazione della realta, sia di gran parte del patrimonio e delle successive acquisizioni teoriche e politiche del socialismo e del comunismo".

 

"La ricostruzione di un rinnovato partito comunista e un'esigenza, in primo luogo, delle masse popolari e di tutti coloro che sono interessati a contrastare i processi reazionari in corso. L'Associazione MARX XXI nasce dalla volonta di favorire questo nuovo processo di unita e autonomia teorica e politica dei comunisti in Italia, nella convinzione che esso non possa essere rinviato ulteriormente ne che esso possa avanzare solo con la pur giusta rivendicazione di un nome, di un simbolo, di una bandiera, ma solo con una rinnovata capacita di analisi della societa italiana e del contesto mondiale.

L'Associazione MARX XXI si pone statutariamente lo scopo di produrre elaborazioni, studi e programmi che, sul piano teorico e culturale, costituiscano le basi per il lavoro politico teso alla riunificazione in Italia delle forze che si richiamano al marxismo, al leninismo, per l'elaborazione politica e teorica dei comunisti del 21° secolo. Cio nel quadro di una volonta di confronto e discussione con il complesso delle tendenze culturali anticapitaliste, progressive e democratiche a livello nazionale ed internazionale".





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il testo integrale della carta costitutiva e dello statuto sono sul sito dell'ernesto, www.lernesto.it, dove si trova notizia anche delle altre iniziative dell'associazione in Italia, e sul sito del pdci, http://www.comunisti-italiani.it/. Gli interventi alla riunione di presentazione dell'associazione il 19 dicembre 2009 a Roma si possono vedere su pdcitv: http://www.pdcitv.it/search/?search_id=marx+xxi&search_type=search_videos&submit=+





In questo incontro, col quale presentiamo a Bari l'associazione nazionale Marx XXI, ci proponiamo di affrontare la questione della crisi e dell'elaborazione della linea politica dei comunisti non solo a livello generale, internazionale/nazionale, ma anche regionale, per un'analisi critica della struttura economica sociale della Puglia e l'individuazione di un 'programma minimo di classe'.

A tutti gli interessati proponiamo di dar vita ad un gruppo di studio sull'economia pugliese e la crisi, presso il centro studi di via Borrelli, dove vi e un biblioteca e un centro di documentazione del movimento operaio, e si puo creare una sezione ad hoc per raccogliere tutti i materiali in formato cartaceo o digitale.

Andrea Catone



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Per cominciare, riportiamo in calce 2 testi di due partecipanti all'incontro. Altri saranno disponibili in un successivo invio:



1. D. Moro,  La crisi non e finanziaria ma del capitale

2. G. Bucci, DIRITTO E POLITICA NELLA CRISI DELLA "GLOBALIZZAZIONE" (stralcio)



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1. Domenico Moro

La crisi non e finanziaria ma del capitale



[ Articolo pubblicato in Marxismo Oggi,n. 1/2009, numero speciale sul tema "La crisi del capitale e il ruolo dei

comunisti", promosso dalle riviste "Marxismo oggi", "l'Ernesto", "Essere comunisti", "La Rinascita della Sinistra". Il

numero preceduto da una presentazione a firma di Fosco Giannini, Guido Oldrini, Manuela Palermi, Bruno Steri.]



1. SOVRAPPRODUZIONE E CRISI

Secondo la maggior parte dei mass media, degli economisti e dei governi, quella attuale e una crisi

finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all'economia "reale". Con questo tipo di analisi si

coglie, pero, solo la forma in cui la crisi si e manifestata. Se ne ignora invece il contenuto, che

risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti, le crisi sono la modalita tipica in cui

emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale. La principale di queste contraddizioni e

quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese e produrre per fare profitti e per fare cio

riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine, cioe la differenza tra costi e

prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per la realizzazione di economie di

scala, cioe per la produzione di masse di merci sempre piu grandi nello stesso tempo di lavoro. A

questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre piu moderne al posto di lavoratori, e

aumentati ritmi e intensita del lavoro. Astrattamente si tratta di un fatto positivo, in quanto lo

sviluppo della produttivita mette a disposizione dei consumatori masse di merci piu grandi prodotte

in un tempo minore. Il problema e che la produzione capitalistica e diretta non verso semplici

consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato a raggiungere il profitto

atteso, cioe verso un mercato. Ebbene la questione e proprio questa: la produzione capitalistica e

una produzione che si estende progressivamente senza alcun riguardo per il mercato cioe per le

capacita di acquisto delle merci prodotte. Inoltre, visto che il profitto e dato dal lavoro non pagato

dei lavoratori, la riduzione proporzionale di questi ultimi sul capitale complessivo impiegato

provoca una caduta del saggio di profitto, che si cerca di compensare con l'aumento dello

sfruttamento e quindi producendo un numero maggiore di merci. Tutto questo implica che la

produzione tende sempre ad eccedere le capacita di assorbimento del mercato, determinando un

permanente squilibrio tra le capacita produttive e la limitatezza del mercato. Una limitatezza che

viene accentuata proprio dal meccanismo che sostituisce forza lavoro con macchinari e che

conseguentemente provoca l'espulsione di lavoratori dal processo produttivo. Secondo uno studio

della Banca dei regolamenti internazionali, dagli anni 80 ad oggi in tutti i principali paesi

industrializzati si e avuto uno spostamento del Pil dai salari ai profitti. In Italia la quota andata ai

profitti e aumentata dal 23,1% del 1993 al 31,3% del 2005. Si tratta dell'8% del Pil, equivalente a

120 miliardi di euro ossia a 7mila euro per ognuno dei 17 milioni di salariati italiani che

annualmente passano dai salari ai profitti. Ma la cosa piu interessante dello studio della Bri e che la

causa di questo fenomeno viene individuata, non nella concorrenza dei lavoratori dei paesi "in via

di sviluppo", ma nella introduzione di nuova tecnologia che, espellendo lavoratori e destrutturando

l'organizzazione del lavoro, riduce le capacita di resistenza e negoziazione dei lavoratori. In questo

modo, si e determinata la perdita di capacita d'acquisto dei salari ed i lavoratori si sono trovati

costretti al lavoro straordinario con l'effetto di ridurre ancora di piu la domanda di forza lavoro e di

aggravare la disoccupazione. Inoltre, avendo le nuove tecnologie una forte componente informatica,

che diventa obsoleta piu rapidamente, le ristrutturazioni sono divenute piu frequenti. Dunque,

mentre da una parte si moltiplica l'offerta di merci sul mercato, dall'altra parte si riduce la

domanda, che per la maggior parte e costituita da lavoratori salariati, o, nel caso migliore, non si

permette alla domanda di crescere in modo proporzionale all'offerta. Del resto, nella anarchia della

concorrenza, ancorche oligopolistica, che regna nel modo di produzione capitalistico, ogni singolo

2

capitale, per battere i concorrenti, tende a realizzare sempre maggiori economie di scala e a ridurre i

salari dei propri lavoratori, trattandoli come costi da ridurre e non come compratori. Si produce cosi

una tendenza alla sovrapproduzione di merci che, pero, ha alla sua base la sovrapproduzione di

capitale sotto forma di mezzi di produzione. Cio che e importante capire, pero, e che la

sovraccapacita produttiva e tale entro il modo di produzione capitalistico, che produce solo per il

profitto, e che la sovrapproduzione di merci si determina entro i limiti del mercato capitalistico.

2. IL CASO EMBLEMATICO DELL'AUTOMOBILE

La crisi non e una cesura nel procedere normale dell'economia, e il modo violento in cui il capitale

tenta di risolvere le sue contraddizioni. Infatti, le crisi non solo bruciano miliardi di capitale fittizio

nei crolli borsistici, ma provocano distruzione di capitale reale attraverso la svalorizzazione delle

merci, che giacciono invendute nei depositi o sono vendute sottocosto (negli Usa si e arrivati al

prendi due automobili ne paghi una), e dei mezzi di produzione, che rimangono inattivi o

sottoutilizzati. Le crisi, poi, distruggono forza lavoro attraverso i licenziamenti e, provocando la

morte delle aziende piu deboli ed il loro assorbimento da parte di quelle piu forti, determinano la

concentrazione della produzione in sempre meno mani. Soltanto a questo prezzo si generano le

condizioni affinche la produzione sia di nuovo profittevole e possa riprendere, riproducendo pero le

condizioni per replicare la crisi successivamente e su una base piu ampia. Il caso dell'auto e

emblematico. Si tratta di un settore con le caratteristiche tipiche della grande industria: una

progressiva grande concentrazione, e un sempre piu forte aumento della componente tecnologica in

rapporto ai lavoratori impiegati. Un settore nel quale, secondo le parole dell'amministratore

delegato della Fiat, Marchionne, "la sovraccapacita produttiva e un problema generale". Negli Usa,

infatti, la produzione del 2009 sara di appena il 45% dell'output potenziale, pari 5 milioni di auto in

meno rispetto al 2007. Secondo CSM Wolrdwide, l'utilizzazione degli impianti delle prime dodici

case produttrici mondiali, scesa al 72,2% gia nel 2008, si ridurra nel 2009 al 64,7%. Le

conseguenze saranno pesanti persino per le case leader tedesche e giapponesi: in Germania sono gia

stati licenziati i lavoratori precari (4500 quelli della Volkswagen), mentre l'orario settimanale di

lavoro (ed il salario) e stato ridotto per i due terzi dei lavoratori stabili della Volkswagen e a

febbraio e marzo per 26mila della Bmw, in Giappone, invece, la Nissan ha pianificato 20mila

licenziamenti. Ancora peggiore la situazione delle case Usa, tra le quali GM e Chrysler sarebbe gia

fallite senza i 14 miliardi di dollari stanziati dal governo. GM, in particolare, prevede la chiusura di

quattro dei ventidue impianti statunitensi e 31mila licenziamenti. Eppure tutto questo si realizza alla

fine di un processo in cui le tre major di Detroit avevano migliorato la loro produttivita. Secondo

l'Harbour report, le major di Detroit hanno ridotto il divario con gli stabilimenti giapponesi in

America in termini di tempo necessario alla produzione di un veicolo dalle 10,51 ore del 2003 alle

3,50 ore del 2007. Del resto, ad essere preceduta da un forte aumento della produttivita fu anche la

crisi del '29, sebbene, come quella odierna, fosse stata innescata da un crollo finanziario. Infatti, fu

proprio negli anni 20 che, col fordismo, si introdusse la catena di montaggio. A partire dagli anni

80, il fordismo si e aggiornato, divenendo tojotismo, che, flessibilizzando i processi, avrebbe dovuto

sanare la contraddizione tra mercato e produzione. Il bel risultato e stato che le auto invendute, solo

nei piazzali degli stabilimenti Usa, hanno raggiunto a fine gennaio 2009 quasi i tre milioni,

equivalenti a 116 giorni di vendita agli attuali livelli. Prova questa che, entro i limiti dei rapporti di

produzione capitalistici, per sanare la contraddizione tra produzione e mercato non c'e tecnica

manageriale che tenga. Quali sono allora le risposte che si prospettano alla sovrapproduzione? Il

caso statunitense e ancora una volta emblematico. Oltre ai licenziamenti ed alla settimana corta di 4

giorni (working sharing), si prospetta un allineamento di tutte le case americane alle peggiorative

condizioni salariali e assistenziali in vigore presso gli stabilimenti giapponesi negli Usa. In secondo

luogo, anche questa crisi, come e piu di altre, data la sua gravita, vorra le sue vittime e sara il volano

3

per ulteriori fusioni ed acquisizioni. Sempre secondo Marchionne, nel mercato mondiale dell'auto ci

sarebbe posto solo per cinque o sei produttori che riescano a raggiungere l'economia di scala

minima di cinque milioni di vetture. Ed e proprio la Fiat a distinguersi per il suo attivismo,

muovendosi in varie direzioni, dalle joint ventures con la Tata indiana, che e entrata anche nel

capitale Fiat, alla possibile acquisizione della Chrysler, fino alla ventilata fusione con Peugeot. La

crisi fornira poi un ulteriore stimolo alla internazionalizzazione della produzione, per ridurre i costi

e avvicinarsi ai nuovi mercati di sbocco. Gia oggi, Ford e GM producono negli Usa meno del 32%

del loro output complessivo, mentre Fiat, Renault e Volkswagen producono nei paesi d'origine

rispettivamente appena il 34,9%, il 34,7% ed il 33,6% della loro produzione totale. A pagare

saranno, comunque, sempre i lavoratori con la perdita del posto di lavoro e con la riduzione dei

salari.

3. IL NESSO TRA SOVRAPPRODUZIONE E FINANZA

Contrapporre, in ambito capitalistico, economia "finanziaria" e "reale" non ha senso ed e

fuorviante. L'enorme sviluppo del credito e dei mercati finanziari ha alla sua base l'affermazione

della grande industria, che ha bisogno di capitali monetari sempre piu grandi da investire. La

mondializzazione della concorrenza, le fusioni e le acquisizioni, il gigantismo delle imprese,

necessario ad economie di scala sempre maggiori, determinano una richiesta di credito sempre

maggiore e banche sempre piu grandi. Sebbene le crisi non siano causate dal credito e dalla finanza,

esiste un nesso molto stretto tra crisi e credito. Tale nesso sta nel fatto che il credito favorisce ed

accelera la tendenza alla sovrapproduzione di capitale e di merci. Il credito, infatti, permette

l'allargamento della produzione in un modo che altrimenti non sarebbe possibile. Nello stesso

tempo le banche, concentrando in poche mani il risparmio della societa e trasformandolo in

investimento, fanno assumere al capitale stesso una forma "sociale", favorendo la separazione tra

direzione e proprieta. Si crea cosi una produzione privata senza proprieta privata e una nuova

aristocrazia finanziaria e di top manager, superpagata, indifferente ai limiti del mercato, e incline ad

investimenti spericolati, parassitismo e speculazione. In questo modo si sviluppa la tendenza ai

monopoli e alla sovrapproduzione cronica generale. L'industria contemporanea versa da decenni in

una situazione di sovrapproduzione, cui si e risposto favorendo il credito facile e quindi

l'indebitamento, sia dal lato dell'offerta, cioe dal lato delle aziende, sia da quello della domanda,

cioe dei consumatori-compratori. Per anni, con il beneplacito dei governi Usa, la Fed ha mantenuto

un bassissimo costo del denaro, spingendo le banche a prestare oltre ogni ragionevole garanzia. In

particolare e stato incentivato l'acquisto delle case, perche la proprieta immobiliare garantiva

sull'acquisto a credito di beni di consumo come l'auto. Sono stati concessi mutui fino al 100%, ed

anche a chi non aveva ne lavoro ne altre proprieta, i cosiddetti mutui subprime. La spirale

dell'indebitamento si e autoalimentata, grazie alla liberalizzazione dei mercati finanziari e alla

abolizione degli steccati e delle regole introdotte dopo la crisi del '29, ed i mutui sono stati

cartolarizzati in titoli - i cosiddetti derivati - venduti alle banche di tutto il mondo. La speculazione

si e estesa anche alla cartolarizzazione delle assicurazioni sui derivati dei mutui, i credit default

swaps (Cds), che hanno raggiunto la cifra astronomica di 45mila miliardi. Inoltre, sono state

introdotte altre forme di incentivazione all'indebitamento come le carte di credito revolving. In

sostanza la domanda di beni di consumo e stata drogata, fondando su basi d'argilla l'espansione

economica seguente alla crisi del 2001. Negli Usa e nel Regno Unito il debito delle famiglie nel

2007 aveva raggiunto il 100% del Pil. Intanto la leva finanziaria delle banche era cresciuta a

dismisura: le banche europee per ogni euro di capitale posseduto avevano dato in prestito 40 euro,

quelle Usa ancora di piu. Tutto questo non poteva reggere ed infatti non ha retto. Quando la bolla

immobiliare ha raggiunto il suo picco e nel 2007 e scoppiata, le abitazioni hanno perso fino al 40%

del valore ed i loro proprietari non sono piu riusciti a far fronte ai mutui. Il sistema finanziario

4

internazionale si e cosi reso conto di avere in pancia miliardi di titoli col valore della carta straccia,

cui si aggiungeva la massa dei Cds, che avrebbero potuto portarlo al collasso. Numerose banche,

costrette a iscrivere le perdite a bilancio, sono fallite, sono state acquisite o salvate dallo Stato, e

centinaia di miliardi di capitalizzazione di borsa sono stati bruciati. Inoltre, l'incertezza sulla

solvibilita delle banche ha portato alla paralisi del mercato interbancario ed al restringimento del

credito, con conseguenze devastanti per le aziende, gia pesantemente indebitate ed alle prese con le

necessita della internazionalizzazione, della riorganizzazione produttiva e del finanziamento del

credito al consumo.

4. FALLIMENTO DEL MERCATO E INTERVENTO DELLO STATO

La sovrapproduzione che attanaglia l'economia e ormai generale. Infatti, secondo la Banca

mondiale, al calo, per la prima volta dal 1945, del Pil mondiale si e associato il maggiore declino

del commercio mondiale degli ultimi 80 anni, ovvero dalla grande Depressione degli anni 30.

L'International labour organization prevede dai 18 ai 30 milioni di disoccupati in piu, 50 nella

previsione peggiore. La crisi ha cosi dimostrato nel modo piu plateale il fallimento delle capacita

regolatrici del mercato. Significativa e stata la rapidita della sterzata verso l'intervento dello Stato a

partire proprio dai due paesi leader della "rivoluzione" neoliberista, Usa e Gran Bretagna, e la

consistenza dell'intervento, soprattutto a favore del credito. Negli Usa il programma di aiuto

federale, il Tarp, ha gia utilizzato 294,9 miliardi, di cui 250 per la ricapitalizzazione delle banche,

su uno stanziamento totale di 700 miliardi, e Obama ha in progetto un ulteriore stanziamento di

2mila miliardi. In gran Bretagna lo stato ha acquisito la Bearn Stearns, il 60% della Royal Bank of

Scotland e il 40% di Lloyds-Hbos, mentre la Germania, che ha gia dato 90 miliardi alla Hypo e ha

acquistato il 25% della Commerzbank, ha varato una legge che consente l'esproprio statale delle

banche in difficolta. Ma, visto che queste misure non sono bastate a rimettere in moto il mercato

interbancario ed il prestito ad imprese e famiglie, lo Stato ha assunto il ruolo di finanziatore diretto,

piu o meno a fondo perduto, delle aziende. In Giappone lo Stato ha stanziato 13 miliardi di euro con

cui entrera eventualmente anche nel capitale delle aziende. In particolare, si e svolta una corsa al

soccorso dei produttori nazionali di auto, dai 14 miliardi di dollari dati a GM e Chrysler ai 7

miliardi di euro stanziati per Renault e Psa, di cui una parte andra alle branche di queste societa che

finanziano gli acquisti a credito. Tutte scelte che, insieme alla riduzione praticamente a zero dei

tassi di interesse praticati da molte banche centrali come la Fed, dimostrano che la soluzione alla

crisi viene ricercata in direzioni vecchie e sbagliate, come l'indebitamento e il protezionismo,

ritornato prepotentemente in auge con il buy american. L'insieme delle risorse messe sul piatto

dagli Usa raggiungono gli 8000 miliardi, pari al 54% del loro Pil. Se pensiamo che gli Usa in tutta

la Seconda guerra mondiale spesero 3600 miliardi e che nel 1944 la spesa bellica fu il 36% del Pil,

abbiamo una idea della partita in atto. L'aumento della spesa statale fara esplodere il deficit

pubblico, che negli Usa arrivera quest'anno al 10% e nel Regno Unito al 6-8%, mentre la virtuosa

Germania portera il disavanzo pubblico ai massimi dal 1945. L'ingigantirsi dei debiti pubblici, gia

gravati come negli Usa da decenni di sussidi alle imprese e di spese militari, condurra

all'inasprimento della tassazione, mentre l'aumento dell'emissione dei titoli di Stato, unico

investimento rifugio rimasto, sta gia conducendo al calo dei rendimenti per milioni di piccoli

risparmiatori. Al contempo il prezzo dei credit default swaps sui titoli pubblici si e alzato, segno dei

timori del mercato sulla solvibilita di molti stati. Mentre gli Usa, grazie al dollaro cercano di

continuare a scaricare il finanziamento del loro enorme debito sull'estero, molti paesi periferici,

soprattutto nell'Europa dell'est, presi dalle difficolta della recessione, rischiano una bancarotta che

avrebbe pesanti contraccolpi sulle banche europee e sull'euro.

5

5. CONCLUSIONI: PIANIFICAZIONE E RIDUZIONE DELL'ORARIO DI LAVORO

Se il fallimento del mercato e ormai evidente a tutti, meno evidente e l'altrettanto grande fallimento

della proprieta e della produzione privata. In Italia ad esempio assistiamo all'apparente paradosso di

chi, Confindustria in testa, chiede e ottiene l'intervento statale sotto forma di aiuti e continua a

rivendicare le privatizzazioni, ad esempio delle utility. In effetti e proprio nei momenti di difficolta

che il capitale si rifugia di piu nelle rendite di monopolio, fuori dalla concorrenza. In ogni paese, la

premessa a tutti gli aiuti pubblici e che lo Stato, anche nel caso in cui entrasse in una banca o in una

azienda con quote di maggioranza, rimanga rigorosamente fuori dalla sua gestione, magari

comprando azioni senza diritto di voto. Gia l'espansione del credito aveva messo a disposizione del

privato il capitale sociale (il risparmio della collettivita), rendendo la produzione privata una

produzione senza proprieta privata. Oggi che lo Stato finanzia le banche private o eroga

direttamente alle imprese il capitale impiegato, la proprieta acquista ancora di piu un carattere

sociale. Si accresce quindi la contraddizione tra il carattere sempre piu sociale della produzione e

della proprieta e l'appropriazione privata del prodotto di quella produzione, che si concentra in

sempre meno mani. Del resto, con sole cinque case automobilistiche a dividersi il mercato

mondiale, come prevede Marchionne, si puo ancora parlare di proprieta privata? Si tratta di una

produzione in realta gia quasi socializzata. Abbiamo invece una produzione privata senza proprieta

privata, e che si sottomette lo Stato come erogatore concentrato del capitale della societa. La crisi

non si risolve con gli aiuti agli imprenditori privati o gettando masse di denaro nel pozzo senza

fondo dell'insolvenza di banche che continuano a non prestare. La crisi si risolve solo andando alla

sua radice, che certo non sta negli stipendi dei supermanager. In primo luogo, non ha senso

mantenere la produzione privata, quando i capitali sono pubblici. Permarrebbero, a spese dei

lavoratori-contribuenti, l'anarchia irrazionale della concorrenza e lo squilibrio permanente tra

produzione e circolazione delle merci. Tali contraddizioni possono essere risolte solo mediante il

coordinamento complessivo, la pianificazione dell'economia da parte delle collettivita, secondo le

priorita della societa e dell'ambiente, e cominciando con la ripubblicizzazione delle banche e dei

servizi di pubblica utilita. In secondo luogo, va affrontata la contraddizione tra sviluppo delle forze

produttive e rapporti di produzione. Le scoperte tecnologiche e l'enorme aumento della produttivita

che negli ultimi decenni ne e derivato possono liberare tempo vitale invece di essere fonte di

disoccupazione. Ma questo e possibile a farsi solo se l'orario di lavoro viene ridotto a parita di

salario, liberando bisogni e la possibilita di soddisfarli, ed allargando cosi i limiti del mercato. Se e

vero che la crisi libera i mostri della xenofobia e dell'autoritarismo e che la depressione del '29 apri

la strada ai fascismi, quella stessa crisi ebbe anche risposte a sinistra. Negli Usa nel 1932 il senatore

Black, in opposizione al working sharing, che redistribuiva solo la poverta e non l'occupazione,

propose una legge per la riduzione dell'orario a 30 ore, che fu sconfitta solo di misura per

l'opposizione di Roosvelt e degli imprenditori. Fu invece in Francia che nel 1936, in piena crisi, fu

approvata una legge per le 40 ore, che porto, a parita di salario, l'orario di lavoro annuale da 2496 a

2000 ore. La differenza tra Francia e Usa e che, all'epoca, in Francia era al governo quel grande

esempio di protagonismo politico dei lavoratori che fu il Fronte popolare. Un esperimento politico

su cui, mutatis mutandis, forse varrebbe la pena di riflettere. Oggi, in conclusione, di fronte ad una

crisi eccezionale che evidenzia il fallimento di un intero modo di produzione ritorna d'attualita

proprio il fantasma che si e voluto esorcizzare negli ultimi venti anni, il socialismo. La possibilita di

rispondere alla crisi economica e alla crisi politica della sinistra passa cosi per la capacita di

prospettare una organizzazione alternativa della societa e dell'economia.

(9 aprile 2009)



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Gaetano Bucci

 

 

DIRITTO E POLITICA NELLA CRISI DELLA "GLOBALIZZAZIONE"

[il saggio sara pubblicato sul prossimo numero (2/2009) di 'Democrazia e Diritto. Ne riproduciamo il 10° capitolo sull'intervento pubblico in economia]

 


 

Sommario: 1. Le interdipendenze fra la crisi del capitalismo finanziario e la crisi del capitalismo industriale - 2. La genesi "reale" delle crisi finanziarie e la crisi attuale - 3. La crisi attuale come "crisi generale" - 4. Le risposte di salvataggio - 5. Le misure statunitensi - 6. L'insufficienza delle risposte - 7. Gli interventi sovranazionali ed internazionali - 8. Le misure italiane - 9. Il senso degli interventi - 10. L'"intervento pubblico nell'economia" fra modelli dirigisti e prospettiva democratico-sociale.



1        10. L'"intervento pubblico nell'economia" fra modelli dirigisti e prospettiva democratico-sociale

 

L'ambigua formula dell' "intervento pubblico nell'economia" viene utilizzata, dalle opinioni liberiste, proclivi a falsificare la natura dei rapporti reali tra economia e politica, per occultare le differenze strutturali che intercorrono fra gli interessi all'accumulazione della ricchezza e gli interessi sociali. Con la suddetta formula si cerca, insomma, di nascondere la realta dei rapporti di potere e dei conflitti di classe[1].

Occorre, invece, osservare come gli avvicendamenti tra "liberismo" ed  "interventismo" provocati dai processi ricorrenti di "crisi", comprovino la necessita oggettiva del ricorso al potere dello stato che, sia nelle forme della "regolazione", sia nelle forme del "capitalismo di stato", svolge la funzione di  soddisfare le esigenze mutevoli  del capitale finanziario e industriale[2].

Nella fase attuale, gli "interventi pubblici" sono realizzati per fornire una  risposta alle convulsioni congiunturali in atto, che sarebbero, oggettivamente, incontenibili con le forme della "regolazione"[3], cui si e fatto ricorso nella fase dell' "economia di mercato aperta e in libera concorrenza".

Si conferma, pertanto, il ruolo ausiliare che le varie forme di intervento pubblico svolgono per fronteggiare il carattere ciclico delle contraddizioni ingenerate dal modo di produzione capitalistico e per garantire gli interessi organici del capitale finanziario e industriale[4].

Una parte significativa dell'orientamento neoliberista, sfavorevole al ritorno di forme di intervento pubblico nell'economia[5] differenti dalla ormai fallita "regolazione", paventano il rischio che gli "interventi anti-crisi" possano riaprire la strada al "socialismo di stato".

Il panico diffusosi nelle file liberiste, a causa dell'invocato e, al tempo stesso, temuto "intervento pubblico", ha provocato l'insorgere di salti logici e la diffusione di luoghi comuni che annullano la memoria storica.

Nel dibattito in corso sulla stampa, divulgativa e specialistica, si assiste alla indebita sovrapposizione tra le forme di intervento pubblico nello stato capitalistico e le forme di intervento pubblico nello stato socialista[6] e all'occultamento <delle differenze tra liberismo e capitalismo di stato>, nonche <delle differenze tra capitalismo di stato nel sistema di capitalismo monopolistico privato e capitalismo di stato nella concezione del socialismo>[7].

Non appare, tuttavia, plausibile ascrivere, nella generica categoria del cd. "interventismo statale", le differenti risposte che le forze politiche, ispirate alle visioni del liberalismo, del socialismo, del corporativismo fascista e di quello democratico, fornirono alla crisi economica della prima meta degli anni trenta.

Una crisi capitalistica aggravata dall'avvento della societa di massa e, quindi, dall'emergere di nuovi interessi organizzati, che rivendicavano bisogni sociali mai riconosciuti dai sistemi politici liberali.

Le strategie realizzate per il superamento della crisi furono differenti per i contenuti espressi e per le finalita perseguite.

Gli interventi che gli stati e le istituzioni sovranazionali stanno effettuando per gestire i problemi suscitati dalla crisi attuale, non possono suscitare, parimenti, semplicistiche analogie con le vicende del "capitalismo di stato nella transizione al socialismo", ma rientrano nel solco delle vicende del "capitalismo di stato liberista" e devono essere annoverati, pertanto, nella categoria del "capitalismo organizzato", ossia nella categoria che fu elaborata nel periodo della crisi del '29 e riutilizzata, nel corso degli anni settanta, dagli storici e dagli studiosi di scienze sociali[8].

Sarebbe, pertanto, opportuno avviare, nell'ambito di un' interpretazione del passato finalizzata alla comprensione del presente ed all'individuazione di soluzioni per il futuro, una  chiarificazione sulle <implicazioni dei percorsi del "capitalismo organizzato"> e, quindi, una riflessione sulle varie forme di interventi che sono stati, storicamente, realizzati per fronteggiare la crisi del capitalismo privato (quali, ad esempio, l' "irizzazione" fascista, realizzata in parallelo al corporativismo istituzionale, ed il  new deal statunitense)[9].

I gruppi dirigenti del sistema capitalistico italiano tedesco e statunitense reagirono alla "grande crisi", creando apparati di stato "paralleli" (le cd. "amministrazioni parallele") a quelli burocratici di "repressione". Ai primi furono affidati compiti di sostegno degli interessi delle grandi imprese, mentre i secondi continuarono ad esercitare funzioni di "oppressione" del pluralismo sociale.

Nel caso del fascismo e del nazismo queste funzioni divennero, tuttavia, piu pervasive, perche furono introdotti  meccanismi di "governo dall'alto" diretti a trasformare le classi sociali  in "masse amorfe e  passive[10].

Il regime fascista reagi alla crisi economica e al conflitto sociale[11] mediante l'inserimento coattivo delle masse nello stato e realizzando un' integrazione piena fra la  dittatura e le politiche di sostegno al capitalismo finanziario[12].

Le concezioni corporativiste trovarono espressione sia nelle forme dittatoriali del regime fascista e nazista, sia in quelle autoritarie del presidenzialismo americano[13].

Il fascismo esercito il controllo capillare sulla societa integrando il partito unico e il sindacato nelle strutture governative dello stato, ma introdusse una normativa economico-sociale inedita che garanti la continuita del processo di accumulazione capitalistica.

Il carattere innovativo del sistema giuridico creato dal fascismo puo essere colto considerando la normativa che ha disciplinato <le attivita economiche private> e delineato <un nuovo tipo di struttura del potere pubblico>.

Gli enti pubblici economici costituirono le nuove strutture portanti dell'intervento pubblico nell'economia e svolsero, prevalentemente, funzioni "sussidiarie" nei confronti dell'iniziativa privata[14].

Un altro carattere peculiare del modello organizzativo, introdotto dal fascismo, puo essere individuato nella creazione delle "corporazioni", ossia di forme istituzionali funzionali all'inquadramento coattivo delle organizzazioni di massa  nello stato[15].

Il fine principale perseguito dalla strategia corporativa fu quello di <delegittimare la lotta di classe sul versante del movimento operaio> e di rafforzare, <in nome della "collaborazione" tra le classi, il versante padronale dell'organizzazione produttiva>.

L'interclassismo, condiviso dalla cultura socialdemocratica e da quella cattolica, fu utilizzato come strumento di un totalitarismo che esaltava lo "stato" reputandolo sintesi di ogni valore, sosteneva la "proprieta" e l' "impresa" ed assumeva la "gerarchia" come asse dei rapporti sociali in sede civile, politica ed economica.

La Carta del lavoro integro lo "Statuto albertino" e, in un tale contesto, si realizzo <il rovesciamento della concezione dei "diritti sociali" proclamati dalle forze democratiche antifasciste>.

Il regime fascista supero i limiti del "neutralismo liberale"[16] e riconobbe la societa di massa, ma in una posizione di "subalternita" e non di "sovranita" rispetto al sistema delle imprese private[17].

Il suddetto riconoscimento avvenne in un modo del tutto peculiare perche il regime fascista, lungi dal realizzare il <regno della pace sociale e dell'armonia tra le classi>[18], persegui, con una "radicalita" non raggiunta da alcuna altra dottrina, l'obiettivo di smantellare <le forme di rappresentanza elaborate nel processo di costruzione dello stato liberale> e, quindi, di abolire la <sfera politica democratica>[19].

L'abolizione radicale di ogni spazio democratico determino il primato della vita economica, sicche il "capitalismo organizzato" nei diversi settori dell'industria fini con l'assorbire l'intera societa[20].

Lo stesso corporativismo fascista, nonostante il significato implicito in formule quali "terza via" o "via mediana", non si presento, a differenza della sociadelmocrazia e del pensiero sociale cattolico, come un apparato di mediazione fra il socialismo marxista ed il liberal-capitalismo, bensi come un superamento di entrambi e svolse la funzione di un'armatura sovraimpressa ad una societa liberal-capitalista, finalizzata a garantirne la sopravvivenza[21].

Il corporativismo non persegui l'obiettivo della fuoriuscita, sia pur tendenziale, dal capitalismo, ma si inseri, piuttosto, <nell'alveo del "capitalismo organizzato" (e rafforzato)>, anche se non sottovaluto le cause che avevano provocato la crisi del sistema liberale e le ragioni che avevano determinato la nascita del movimento operaio organizzato e l'insorgere del conflitto di classe.

La ricerca di una "terza via" tra capitalismo e socialismo[22] ha accomunato, quindi, culture politiche diverse[23]. Sussistono, in effetti, numerose assonanze tra le prospettive del corporativismo fascista e quelle del "nuovo corso" americano[24].

Nell'ambito di ambedue le esperienze furono configurati modelli di regolazione che possono essere, astrattamente, inclusi nella categoria del cd. "interventismo statale" e nella stessa prospettiva possono essere comprese anche le esperienze del corporativismo socialdemocratico e dell'interclassismo cattolico.

Il fascismo adotto, invero, una marcata strategia classista e giunse ad abolire la democrazia formale pur di ripristinare l'accumulazione capitalistica compromessa dagli effetti della crisi del '29 e del conflitto sociale, ma unitamente agli indirizzi cattolici e socialdemocratici prefiguro, in nome dell'interclassismo concertativo, nuove forme di organizzazione economica e sociale, sconosciute dal sistema liberale.

Il punto di convergenza fra le diverse prospettive puo essere individuato, comunque, nell' intento di scongiurare il rischio che gli effetti della crisi e  la pressione delle domande sociali potessero provocare eventi simili a quelli della rivoluzione sovietica[25].

La prospettiva dell'abolizione del capitalismo privato era  ritenuta, del resto,  praticabile, specie dopo l'esperienza fallimentare della democrazia weimariana, contrassegnata da vistose contraddizioni politiche e sociali.

Le considerazioni precedenti consentono, pertanto, di evidenziare l'erroneita delle opinioni che attribuiscono alle sole forze <di impostazione marxista> o a quelle di <sinistra riformista o rivoluzionaria>, l'espressione di un orientamento favorevole all'intervento dello stato nell'economia[26].

Gli attuali interventi pubblici finalizzati a fronteggiare gli effetti della crisi devono essere annoverati nella categoria del "capitalismo di stato borghese" e non in quella del "capitalismo di stato" (o socialismo di stato), usata per connotare la cd. "fase di transizione al socialismo" nelle vicende dell'Unione sovietica.

Ad una differente conclusione si giunge se si opera  una generica assimilazione tra le forme istituzionali utilizzate nelle varie esperienze del cd. "capitalismo di stato", senza valutare le finalita antitetiche che le forme medesime hanno perseguito nell'ambito del modello capitalista e di quello socialista.

Ambedue i modelli sono contraddistinti dalla presenza del "capitalismo monopolistico di stato" e, quindi, dall'uso di "forme" di controllo pubblico della produzione e della finanza. Mentre, pero, gli apparati del "soviettismo", muovendo dalla concezione materialista intesa come "teoria sociale generale", puntarono a fare dello stato uno strumento di <emancipazione dei soggetti "deboli">[27], gli apparati dell'ordinamento statunitense e di quello fascista perseguirono il fine di consolidare il dominio del capitalismo in crisi.

Nell'analizzare le incompatibili esperienze  del "socialismo" e del "capitalismo" risulta, quindi, essenziale valutare lo specifico nesso tra "forme" e "contenuti" che caratterizza i diversi modelli di "capitalismo di stato".

Questa valutazione risulta essenziale per evitare di alimentare una confusione ulteriore in cui si potrebbe incorrere quando, sempre per ragioni di tipo "esteriore" e "formale", si pongono sullo stesso piano gli <apparati di stato del cd. "governo dell'economia"> e gli <apparati di stato del cd. welfare state>, facendoli confluire nell'ambigua concezione dello "stato sociale".

Questa sovrapposizione concettuale appare fuorviante perche non consente di cogliere la differenza tra l'intervento pubblico che si limita a "gestire" le contraddizioni generate dall'intreccio tra il capitale finanziario e quello industriale  per restituire forza al capitalismo in crisi e l'intervento pubblico che persegue finalita redistributive e concede, sia pur nei limiti delle compatibilita (finanziarie) determinate dalla preminenza degli interessi capitalistici, <frammenti di "diritti sociali", tradizionalmente conculcati dai liberisti>[28].

I gruppi dirigenti, nel periodo della "grande crisi", hanno connesso le due tipologie di intervento e le hanno utilizzate per ripristinare le condizioni dell'accumulazione privata della ricchezza e per contenere la recrudescenza del conflitto sociale[29].

Per comprendere la natura degli ordinamenti sovietico, liberista, socialdemocratico, corporativo e democratico-sociale, nonche delle rispettive modalita di intervento pubblico nell'economia[30], occorre valutare, pertanto, il modo in cui e stato costruito il rapporto tra l' "economicita" e la "socialita e il sistema di valori costituzionali cui deve conformarsi[31].

   Occorre evidenziare, a questo proposito, che la Costituzione italiana, superando i  caratteri residuali della teoria del cd "stato sociale" ispirata alla costituzione weimariana, ha recepito un sistema di  "Principi fondamentali" che legittimano il primato della "socialita" su quello dell' "economicita", ossia su quel concetto che i gruppi di potere reputano essenziale per garantire la salvaguardia dei profitti delle imprese industriali e finanziarie.

   La Costituzione possiede un impianto organicamente  unitario fondato sullo stretto nesso fra i Principi fondamentali, la Parte Prima e la Parte Seconda. Un tale assetto ordinamentale non consente di utilizzare, come canone ermeneutico,  la  nozione di "costituzione economica", in quanto essa svolge la funzione di isolare il potere economico, garantendone una forza superiore di impatto sulla realta sociale complessiva[32].

   I "rapporti di produzione" e gli altri "rapporti sociali" sono disciplinati in modo interdipendente per garantire una realizzazione effettiva dei diritti sociali, che non sono stati aggiunti come appendici di un catalogo di diritti di matrice liberale, ma sono stati connessi con strumenti di potere (art. 41, 3° comma, Cost.) per evitare che la loro funzione fosse compatibile con una prospettiva di "liberismo compassionevole"[33].

I Principi fondamentali costituiscono l'espressione di un intreccio fra i valori della democrazia politica, della democrazia economica e della democrazia sociale, che legittima l'esercizio di un controllo sociale sull'attivita economica pubblica e privata finalizzato ad agevolare la costruzione di rapporti improntati all'eguaglianza  dei diritti e dei poteri[34].

     I Costituenti, muovendo da una concezione inedita del potere pubblico-sociale[35], hanno considerato la programmazione democratica dell'economia come uno strumento istituzionale che  consente una visione globale delle questioni economiche e sociali e rende, pertanto, possibile l'esercizio di una funzione unificante necessaria per risolvere i problemi della collettivita[36].

Nell'ambito della funzione generale del governo democratico dell'economia rientrano anche le attivita finanziarie dei soggetti pubblici e privati, che devono essere coordinate ed  indirizzate verso la realizzazione di fini sociali. Uno stretto legame sussiste tra l'art. 3, 2° comma, l'art. 41, 3° comma e l'art. 47 della Costituzione, sicche la politica monetaria costituisce un aspetto subordinato e servente rispetto alla politica economica che deve perseguire gli obiettivi della qualita della vita e della qualita del lavoro dei cittadini[37].

La Costituzione non persegue il fine di razionalizzare le contraddizioni intrinseche del processo di accumulazione, ma fornisce, in un'ottica piu avanzata ed autonoma, gli strumenti idonei a proteggere i lavoratori dalle dinamiche distruttive dei mercati finanziari e ad eliminare l'insicurezza dal loro futuro.

Si e stabilito, infatti, che la Repubblica deve disciplinare, coordinare e controllare l'esercizio del credito e promuovere e tutelare il risparmio popolare, orientandolo verso la realizzazione di finalita sociali (artt. 41, 47 Cost.) e, quindi, di investimenti produttivi capaci di accrescere la qualita dei rapporti sociali[38].

Il grado di civilta e di benessere di una comunita non e considerato nei termini riduttivi del PIL, ma in relazione al pieno sviluppo della persona umana, che puo esprimersi, soltanto, nell'ambito di un sistema economico e sociale improntato a garantire il soddisfacimento dei bisogni morali e materiali dei lavoratori (artt. 2 e 3, comma secondo,  Cost.).

Sulla base di questi principi, un vasto movimento di lavoratori ha intrapreso, nella seconda meta degli anni sessanta, un ciclo di lotte sociali per attuare il programma di trasformazione economico-sociale recepito dalla Costituzione. La funzionalizzazione del capitalismo monopolistico privato alle utilita sociali e la democratizzazione degli apparati del "capitalismo di stato", costituirono gli assi di una strategia  che puntava ad emancipare la societa dal giogo delle contraddizioni molteplici generate dal sistema capitalistico[39].

   La lunga stagione di lotte politiche e sociali fece conseguire, ai cittadini-lavoratori, alcune conquiste significative (introduzione delle Regioni; Statuto dei lavoratori; riforma sanitaria; riforma della Rai) ed ha lasciato, comunque, le <tracce di un disegno percorribile> di democratizzazione dello Stato e di socializzazione dell'economia[40].

La dottrina sensibile ai principi costituzionali ed alle rivendicazioni dei movimenti che ponevano esigenze di rinnovamento sociale anche nel campo finanziario sostenne, in coerenza con il disegno costituzionale e con la disciplina allora vigente, che le attivita finanziarie, dei soggetti pubblici e privati, dovessero essere inquadrate nell'ambito del governo democratico dell'economia (art. 41, comma 3°, Cost.), in vista delle finalita di giustizia sociale perseguite dalla Costituzione[41].

      Il processo di attuazione della Costituzione fu interrotto, tuttavia, da una serie di strategie che indussero  il movimento operaio a deviare dall' originaria impostazione strategica[42]. Proprio al culmine della stagione riformatrice venne sferrata, a livello nazionale ed internazionale, una controffensiva diretta ad arrestare lo sviluppo della democrazia-sociale.

    Le premesse per un attacco organico alla Costituzione possono essere rinvenute sia nel documento della Commissione trilaterale (1975), sia nel documento della Loggia massonica P. 2, che puntavano a diffondere l'ideologia della "governabilita" funzionale alle esigenze di "stabilita" del sistema capitalistico[43].

   La prospettiva dell'europeizzazione e stata assunta, inoltre, come motivazione per alterare il quadro dei principi relativi alla "forma di governo" contenuti nella "seconda parte" della Costituzione, anche se si perseguiva, in realta,  lo scopo di sostituire le norme della "prima parte" volte alla socializzazione della proprieta e dell'impresa, con altre improntate al primato dell' "economia" sulla "socialita".

   L' obiettivo finale era quello di dare <preminenza al ruolo della moneta e delle istituzioni che regolano il sistema dei rapporti finanziari internazionali e nazionali>, al fine di garantire uno sviluppo del sistema produttivo basato sulla autonomia incontrollata dell'impresa[44].

    I gruppi dirigenti del centrodestra e del centrosinistra, astretti dal cemento del revisionismo ideologico, puntano, oggi, a formalizzare, mediante il processo di revisione costituzionale, un accordo perverso finalizzato a vulnerare i fondamenti della forma di stato di democrazia-sociale ed a rendere irreversibile quel sistema di rapporti politici "bipolari" che, sin dagli anni ottanta,  e stato utilizzato per alterare la portata dei costituzionali "sostanziali" contenuti nella "prima parte" delle Costituzione e per stabilire il primato del "mercato", del "Pil", della "moneta" e delle privatizzazioni". La strategia controriformatrice non mira a cancellare le funzioni dello stato nell'economia, ma a restituire allo stato <il ruolo di strumento degli interessi atavici del capitalismo>[45].

    Il loro obiettivo e quello di realizzare il "bipolarismo" o il "bipartitismo" per omologare il modello costituzionale italiano a quello degli altri Stati europei nei quali i sistemi politici sono organizzati intorno a due schieramenti ("conservatore" e "progressista") che, pur confliggendo per la "gestione" del potere, perseguono, in nome del binomio "stabilita economica/stabilita di governo", il medesimo fine di garantire la continuita del modo di produzione capitalistico.

    La cosiddetta sinistra "post-comunista" e "post-socialdemocratica", rinunziando ad assumere una posizione netta nella dialettica capitale-lavoro e facendo propria la concezione del bipolarismo funzionale alla conservazione del sistema capitalistico, ha abbandonato i lavoratori nelle spire di un assistenzialismo subalterno agli imperativi del bilancio statale gestito con i criteri privatistici della grande impresa[46]. 

   Nella fase attuale, contrassegnata dagli effetti devastanti della crisi globale, la risposta efficace ai problemi posti dalla "stabilita destabilizzante" del modo di produzione capitalistico non puo provenire, tuttavia, da un debole keynesismo[47], ossia da un tipo di soluzione che si inserisce nella prospettiva ambigua  dell'"economia sociale di mercato".

Le contraddizioni strutturali del modo di produzione capitalistico non possono essere risolte con la "regolamentazione" dei mercati finanziari o con l'elaborazione di codici "etici" per l'esercizio dell'impresa, ne con la nazionalizzazione temporanea delle banche e delle assicurazioni.

Un generico intervento pubblico nell'economia non e mai mancato nelle fasi di espansione e in quelle di crisi del processo di accumulazione, ma si e sempre  rivelato subalterno ai piani strategici dei potentati economici ispirati alla filosofia della "socializzazione delle perdite e della privatizzazione degli utili".

Si dovrebbe affrontare, invece, la questione fondamentale relativa alla natura, alla qualita ed ai fini dell'intervento pubblico nell'economia e cercare di prefigurare il modello futuro di societa che  si vuole realizzare. Una indicazione feconda proviene, come s'e detto, dalla Costituzione italiana che, attribuendo un ruolo determinante ai poteri pubblico-sociali finalizzati al controllo del sistema produttivo, delinea una concezione avanzata dei rapporti economico-sociali.

Occorrerebbe riprendere, dunque, il filo di un discorso interrotto[48] per rilanciare un processo di democratizzazione delle istituzioni nazionali e sovranazionali e ripristinare un controllo politico e sociale sui centri di potere economico che impongono un unico pensiero ed un univoco modello di sviluppo.



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[1] Sulle ragioni per cui il (neo) liberismo, occultando le connessioni tra lo stato e il sistema economico, si presenta come espressione dei "meccanismi spontanei del mercato", cfr. A. Burgio,  Senza democrazia, cit., p. 95.

[2] F. Gabriele, Processi di decisione multilivello e governo dell'economia: alla ricerca della sovranita economica, in AA.VV, Governance dell'economia e integrazione europea. Processi di decisione politica e sovranita economica, vol. I, a cura di F. Gabriele e M. A. Cabiddu, Giuffre, Milano, 2008, p. 4, dopo aver rilevato che l'espressione "governo dell'economia" non puo considerarsi ideologicamente "neutra" ma "orientata", osserva come lo Stato non si sia mai astenuto del tutto e come anche l' "astensione" costituisca una forma di intervento, <specialmente a favore dei soggetti piu forti>. Sul punto, cfr., altresi, C. P. Guarini, Contributo allo studio della regolazione "indipendente" del mercato, Cacucci, Bari, 2005, pp. 48, 49. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, cit., pp. 24, 25, evidenzia come la simbiosi tra Stato e mercato costituisca, nel sistema capitalistico, la regola. Le politiche dello stato capitalista "dittatoriale" o "democratico" vengono costruite e condotte <nell'interesse, non contro l' interesse dei mercati> e il loro effetto principale e quello di <avallare/consentire/garantire la sicurezza e la longevita del dominio del mercato>.

[3] S. d'Albergo, Economicita e socialita nel diritto, in AA.VV., Il governo dell'economia tra "crisi dello stato" e "crisi del mercato", a cura di F. Gabriele, Cacucci, Bari, 2005, p. 219, critica le sofisticazioni culturali che, nell'ultimo ventennio, sono state utilizzate per legittimare l'adozione di soluzioni normative dirette a fare del potere pubblico il luogo di una "regolazione" dei rapporti economico-sociali e ritiene che queste concezioni "neoliberiste" ripropongono la propensione tradizionale alla protezione degli interessi economico-privati.

[4] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti vecchi e nuovi, cit., pp. 9-11.

[5] E. Galli Della Loggia, Le elites in pericolo, cit., rileva come, specie negli USA, si sia manifestato un indirizzo liberista fondamentalista contrario al ritorno dell'intervento pubblico nell'economia, sia pur finalizzato alla "socializzazione delle perdite".

[6] Sul punto, cfr. F. Lordon, Il giorno in cui Wall Street divento socialista, in Le Monde diplomatique, n. 10, ottobre 2008.

[7] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti vecchi e nuovi, cit., p. 11;  R.Rossanda, Ma quale Marx, in il manifesto, 8 marzo 2009.   

[8] Cfr. E. Alvater, Il capitalismo si organizza: il dibattito marxista dalla guerra mondiale alla crisi del '29, in AA. VV., Storia del marxismo, vol. III, t. I, Einaudi, Torino, 1980, pp. 850 ss.; W. Schivelbusch, 3 New Deal, Tropea, Milano, 2008, pp. 165 ss., evidenzia come i governi  degli Stati Uniti di Roosevelt, dell' Italia di Mussolini e della Germania di Hitler realizzarono, a prescindere dai diversi livelli di repressione politica, un cambiamento storico di portata epocale, ossia il passaggio dal "capitalismo liberale" al "capitalismo di stato", con i suoi elementi di assistenzialismo, pianificazione e direzione della societa.  

[9] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti vecchi e nuovi, cit., p. 12.

[10] Per un'analisi ancora attuale del totalitarismo, cfr. E. Lederer, Lo Stato delle masse. La minaccia della societa senza classi, (1940), a cura di M. Salvati, Bruno Mondadori, Milano, 2004. L'Autore definisce la "dittatura moderna" come "stato delle masse", ossia come un sistema politico imperniato sulla figura del leader, sul partito, sulla milizia, sulle organizzazioni di massa e su un potente sistema di propaganda, ossia su tutte le istituzioni e le tecniche capaci di trasformare l'intero popolo in massa "amorfa" e "istituzionalizzata" (pp. 20 ss.). Sulla base di questo forte controllo della societa si sono dispiegate anche le politiche economiche dello "stato-massa".

[11] Per un'acuta ricostruzione della crisi dello stato liberale e della svolta totalitaria e dirigista, come risposta alla crisi, cfr. D. Chirico, Profili dei rapporti tra potere politico e potere economico nelle dinamiche dell'ordinamento costituzionale italiano, Bonomo editrice, Bologna, 2008, pp. 108 ss.   

[12] Per una puntuale ricostruzione dei passaggi di fase della complessa strategia politica, giuridica ed istituzionale, che consenti al regime fascista di garantire la sostanziale continuita con l'ordinamento liberale e di porre l'impresa capitalistica al <centro di ogni valore della vita sociale>, cfr. S. d'Albergo, Prefazione, in Documenti del corporativismo fascista. Da Palazzo Vidoni alla Carta del Lavoro, Laboratorio politico, Napoli, 1995, pp. 5, 6, 7. Per un'analisi critica di queste vicende, cfr. F. De Felice, Lo Stato fascista, in AA.VV., Matrici culturali del fascismo, Tipolitografia Mare S.n.c., Bari, 1977, pp. 35 ss.

[13] Sulle anologie e le differenze fra le forme giuridiche e le strutture economiche degli "Stati d'eccezione" (nazionalsocialismo tedesco; fascismo italiano) e quelle degli "Stati interventisti" (Repubblica di Weimar; Stati Uniti di Roosevelt), cfr. S. De Brunhoff, Stato e capitale, cit., p. 78. N. Poulantzas, Fascismo e dittatura, Jaca Book, Milano, 1978,  p. 337. Per una comparazione tra il "corporativismo fascista", il "corporativismo democratico rooseveltiano" e l'odierno neocorporativismo che continua ad essere caratterizzato dall'interclassismo, dalla "collaborazione", dalla  "cogestione" e dalla subalternita alle strategie egemoniche del capitale monopolistico finanziario transnazionale, cfr. G. Pala, Le forme del corporativismo. Il neocorporativismo nelle diverse fasi della crisi, in La Contraddizione, n. 10, 2004, pp. 41 ss. Sulla nozione di corporativismo e sulle sue diverse accezioni, cfr. L. Ornaghi, Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo, Giuffre, Milano, 1994.

[14] Sul tema, cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere nell'ordinamento italiano, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 88, 90; D. Guerin, Fascismo e gran capitale, (1936), Erre emme, Roma, 1994, pp. 336 ss; P. Grifone, Il capitale finanziario, cit.

[15] F. De Felice, Lo Stato fascista, cit., pp. 46-47, valuta le corporazioni nel quadro piu generale dell'organizzazione e del controllo dell'intera societa in funzione dei settori dominanti. L'Autore evidenzia come la via capitalistica di uscita dalla crisi del '29 sia stata quella <di una riduzione della base produttiva e di un ampliamento dell'apparato pubblico>. Questo ampliamento non si tradusse soltanto in una maggiore accentuazione del ruolo dello Stato nell'economia (mediante l' IRI e l' IMI), ma persegui il fine piu ampio di estendere il controllo sull'intera societa per garantire che l'intero processo di accumulazione potesse svolgersi in funzione degli interessi dei gruppi dominanti della societa e dell'economia.

[16] G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma, 2006, p. 22, 24, osserva come, negli anni fra le due guerre, il corporativismo fascista conquisto una reale attualita perche riusci ad inserirsi sia nel solco di una cultura della collaborazione di classe e  della pace sociale che era all'ordine del giorno in Europa, sia nella crisi del sistema liberale provocata dagli effetti  della "grande crisi" economica, che rilancio la questione della ricerca di un quid medium  tra gli opposti estremi del liberismo e della collettivizzazione sovietica. Esso si prospetto come <"terza via" offerta all' Occidente, sconvolto dal crollo del vecchio mondo e dei vecchi valori>. Le ragioni del suo consolidamento sono, tuttavia,  impensabili <senza la crisi della societa liberale e l'obsolescenza della sua visione dei rapporti sociali>. Il grosso della pubblicistica corporativa si rivolse, del resto, contro l'ideologia liberale assai piu che contro il socialismo teorico o il "bolscevismo".

[17] Cfr. S. d'Albergo, Prefazione, in Documenti del corporativismo fascista, cit., pp. 5, 6. F. De Felice, Lo Stato fascista, cit., pp. 35, 43, evidenzia come lo Stato fascista intervenne, con radicalita, nel settore della disciplina dei rapporti di lavoro, perche in questo ambito si era espresso l'antagonismo sociale, che aveva costituito la ragione principale del crollo dello Stato liberale. Il modo in cui l'Italia fascista affronto la crisi mondiale del '29 e del '30 e i processi di ristrutturazione dell'economia, non sarebbe pensabile senza la distruzione delle  organizzazioni del movimento operaio e senza la disciplina dei rapporti di lavoro, che consenti all'economia fascista di svilupparsi con salari minimi.                

[18] G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., pp. 11, 47, 48 osserva come il corporativismo fascista, al di la delle vaghe promesse di "ibridazione" della rappresentanza, che avrebbero dovuto essere realizzate mediante l'innesto del mondo del lavoro nel mondo della produzione, assunse una forma autoritaria e, in seguito, totalitaria. La sua visione si tradusse, quindi,  nell'<esaltazione della pace sociale imposta con la forza> (cfr., op. cit., p. 33).

[19] Cfr. G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., pp. 22, 23. D. Guerin, Fascismo e gran capitale, cit., pp. 432, 435, definisce lo Stato fascista una <dittatura militare-poliziesca al servizio del grande capitale>, ma evidenzia come esso, pur piegando le masse, riusci ad estorcere, mediante l'uso di espedienti ingannatori, la loro adesione. Fra questi espedienti sono richiamati sia quelli di ordine idealistico (la "mistica fascista"; il mito del "capo"; l'educazione dei giovani), sia quelli di ordine materiale (il massiccio riassorbimento della disoccupazione nel settore delle opere pubbliche e degli armamenti;  il controllo dittatoriale sulle uscite di capitali e sul livello dei prezzi; le gigantesche "opere sociali" volte ad assicurare svaghi collettivi per i lavoratori).  

[20] K. Polanyi, La liberta in una societa complessa, (1935), a cura di A. Salsano, Bollati Boringheri, Torino, 1987, pp. 115, 116, rileva come, nell'ordine strutturale della societa fascista, gli esseri umani furono considerati <produttori e solo produttori>. I diversi settori  dell'industria - riconosciuti legalmente come corporazioni dotate del privilegio di trattare i problemi economici, finanziari, industriali e sociali - divennero <i depositari di quasi tutti i poteri appartenuti, in precedenza, allo Stato politico>.

[21] D. Guerin, Fascismo e gran capitale, cit., pp. 437, 438, riporta la definizione di Radek secondo cui la dittatura fascista puo essere paragonata a dei <cerchi di ferro> con i quali la borghesia tento di <consolidare la botte sfasciata del capitalismo>. La classe operaia, paralizzata dalle sue organizzazioni e dai suoi dirigenti, non fu in grado, nella fase della crisi dell'economia capitalistica, <di sostituire il socialismo al capitalismo morente>. In tale contesto, il fascismo, pur promettendo demagogicamente il riassorbimento della disoccupazione e la ripresa delle attivita economiche, persegui l'obiettivo di ritardare, con mezzi artificiali, <la caduta del saggio di profitto di un capitalismo divenuto parassitario> e  <di mantenere in vita un pugno di magnati monopolisti e di grandi agrari>. 

[22] G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., p. 10, osserva come il fascismo tento, mediante le soluzioni  corporative, di fornire risposte ad uno degli interrogativi piu drammatici del tempo, ossia quello che riguardava l'assetto complessivo di una societa che , da un lato, non poteva piu fare affidamento sugli automatismi della "mano libera" del mercato e, dall'altro, guardava con timore alla soluzione collettivistica che prendeva corpo, con risultati controversi ma sorprendenti, nell'Unione sovietica. 

[23] C. Giorgi, The Origins and Development of  the Welfare States : democracies and Totalitarianisms Compared from an Italian Point of View in Democracy and Social Rights in the Two Wests, Edited by Alice Kessler-Harris and Maurizio Vaudagna, Otto editore, Torino, 2009, (di prossima pubblicazione), pp. 1 ss. (del dattiloscritto), rileva come l'idea del corporativismo costitui il principale punto d'incontro tra le elaborazioni fasciste e quelle dell'America di Roosevelt. Nel dibattito dei primi anni trenta, il corporativismo fascista e il New Deal furono considerati come <due modi simili di affrontare la gravita della situazione creatasi con il crollo di Wall Street>. L'Autrice, richiamando la riflessione gramsciana, evidenzia come il regime fascista e il New Deal statunitense cercarono di rispondere alla crisi dello stato liberale mediante una gestione corporativa del conflitto, la programmazione dell'economia, la concentrazione economica, la cartellizzazione, l'intervento finanziario dello stato attraverso la creazione di nuovi enti, l'aumento della spesa pubblica ed il suo dirottamento verso le esigenze della produzione bellica   

[24] Cfr. G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., pp. 192, 208, 209, rileva come, nello stesso periodo storico si affermarono altre culture ed esperienze che, pur prive delle caratteristiche totalitarie ed imperialiste del fascismo, si posero nella prospettiva di una "terza via", concertativa ed anticlassista, finalizzata al  superamento del liberalismo e del socialismo. Basti pensare, in proposito,  alle dottrine di stampo medievaleggiante nate nell'ambito del pensiero sociale cattolico, agli indirizzi socialdemocratici e alle esperienze del New Deal statunitense.

        [25] Sul fascismo e l'americanismo come "rivoluzioni passive", cfr. A. Gramsci, Quad. 10 (XXXIII), 1932-1935,  (41), in Id. Quaderni del carcere, II, a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino, 1977, pp. 1324, 1325; Id., Quad. 10 (XXXIII), 1932-1935,  (9), in Id. Quaderni del carcere, II, cit., p. 1228; Id., Quad. 1 (XVI), 1929-1930,  (135), in Id. Quaderni del carcere, I,  a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino, 1977, p. 125; Id., , Quad. I (XVI), 1929-1930,  (60), cit., p. 72. Sul tema, cfr. C. N. Coutinho, L'epoca neoliberale: rivoluzione passiva o controriforma?, in www. gramscitalia.it, pp. 1, 2, 5; D. Guerin, Fascismo e gran capitale, cit., pp. 321-324.

[26] Cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere,  cit., p. 90.

[27] Cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere,  cit., pp. 93, 94.

[28] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti vecchi e nuovi, cit., pp. 12, 13. Gli interventi pubblici che, oltre ad aver mirato al sostegno dell'accumulazione capitalistica, hanno puntato a garantire un parziale soddisfacimento dei "diritti sociali", sono riferibili sia alle esperienze  del welfare state, sia alle esperienze del corporativismo fascista. Le basi concettuali delle esperienze del corporativismo fascista possono essere individuate nelle concezioni della cd. "sinistra fascista" e, in specie, nelle teorizzazioni del filosofo Ugo Spirito che, nel 1932, elaboro una singolare ipotesi di "corporazione proprietaria". Le elaborazioni della "sinistra fascista" riuscirono a trovare una pur fugace realizzazione nella "socializzazione" delle imprese effettuata, nel 1943, dalla "repubblica sociale italiana". Sugli esiti della problematica "corporativa" di Ugo Spirito e sulla radicalita "classista" di molte prese di posizione di Berto Ricci divenuto simbolo di una "sinistra fascista" confinante con l' "anticapitalismo", cfr. G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., pp. 12 ss. e 58 ss. Sull'inquietudine manifestata dal grande capitale tedesco per il possibile prevalere, nello Stato nazionalsocialista, di un indirizzo favorevole allo "statalismo socialisteggiante" e sulle esplicite rassicurazioni ricevute dai dirigenti del Terzo Reich, cfr. D. Guerin, Fascismo e gran capitale, cit., pp. 376 ss.  

        [29] L. Villari, La roulette del capitalismo, Einaudi, Torino, 1995, pp. 125, 128, evidenzia come lo "stato sociale" possieda <anche motivazioni conservatrici che si esprimono sia negli esiti politici delle politiche keynesiane, sia nelle forme estreme di intervento dello Stato, come la pianificazione nazista>.

[30] I riflessi delle questioni che sono state, precedentemente, prospettate a proposito del costituzionalismo weimariano, del  "corporativismo fascista" e del dirigismo statunitense, sono identificabili, nel diritto amministrativo italiano, attraverso l'enucleazione del concetto di "diritto pubblico dell'economia" risalente al contributo di Massimo Severo Giannini. Una prospettiva teorica segnata, in modo centrale, dalla questione della natura giuridica degli "enti pubblici economici" e dal fenomeno delle "partecipazioni statali" come forma di societa per azioni incardinate in "enti pubblici di comando". Su questa problematica, cfr. G. Miele, La distinzione tra ente pubblico e privato, in Riv. dir. comm., 1942; G. Arena, Le societa commerciali pubbliche, Giuffre, Milano 1942;  M. S. Giannini, L'impresa pubblica in Italia, in Riv. delle soc., 1958; Id., Diritto pubblico dell'economia, il Mulino, Bologna, 1985; G. Guarino, La programmazione economica e le imprese pubbliche. Il sistema italiano delle PP. SS. in Scritti di diritto pubblico dell'economia, II, Giuffre Milano, 1970; S.Cassese, Partecipazioni statali ed enti di gestione, Comunita, Milano, 1962; S. d'Albergo, Le partecipazioni statali, Giuffre Milano, 1960, Id.  Il sistema positivo degli enti pubblici nell'ordinamento italiano, Giuffre, Milano, 1969; Id., Impresa pubblica, (voce), in Noviss. Dig., vol. VIII,  Utet, Torino, 1982 ; G. Amato, Il governo dell'industria in Italia, il Mulino, Bologna, 1972; F. Gabriele, In tema di nazionalizzazione e di altre forme di intervento pubblico nell' economia in Foro amm., (parte III), 1972.

[31] Cfr. S. d'Albergo, Economicita e socialita nel diritto, cit., p. 216.

[32] Sulla struttura contraddittoria della Costituzione di Weimar e sull'inidoneita delle sue parti a realizzare una superiore unita, cfr. C. Mortati, La Costituzione di Weimar, Sansoni, Firenze, 1946. Per una interpretazione critica della nozione di "costituzione economica", cfr. G. Azzariti, L'ordine giuridico del mercato, in Id., Forme e soggetti della democrazia pluralista, Giappichelli, Torino, 2000, p. 155; F. Cocozza, Riflessioni sulla nozione di <costituzione economica>, in Dir. dell'econ., n. 1, 1992, p. 82;  M. Luciani, Economia nel diritto costituzionale, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. V, Utet, Torino, 1990, p. 378.

[33] Cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere nell'ordinamento italiano, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 321, 322.

[34]  Cfr. U. Carabelli,  Europa dei mercati e conflitto sociale, Cacucci, Bari, 2009, pp. 163 ss.

        [35] Cfr. S. d'Albergo, La democrazia politica economica e sociale tra potere e <globalizzazione dell'economia>, in Fenomenologia e societa, n. 3, 1997, p. 23.

[36] Cfr. S. d'Albergo, Economia e diritto nella dinamica delle istituzioni, in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Guarino, vol. I, Cedam, Padova, 1998, pp. 805, 80; Id., Costituzione e organizzazione del potere nell'ordinamento italiano, cit.,  pp. 321, 322.

[37] Cfr. U. Allegretti, Il governo della finanza pubblica, Cedam, Padova, 1971, p. 80.

[38] Cfr. L. Vasapollo, La crisi del capitale, cit., pp. 367, 368, 369.

[39] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti vecchi e nuovi, cit., pp. 9, 13.; L. Cavallaro, Come nacque e come mori il conflitto di classe in Italia, in Alternative per il socialismo, n. 7, ottobre-dicembre, 2008, pp. 147, 148, 149.

          [40] Cfr. S. d'Albergo, Economia e diritto nella dinamica delle istituzioni, in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, vol. I, Cedam, Padova, 1998, p. 807.

        [41] U. Allegretti, Il governo della finanza pubblica, cit., 17, 244-245.

 [42] Sul vasto movimento che, nel periodo 1968-1977, ha rivendicato l'attuazione del programma di trasformazione economico-sociale recepito dalla Costituzione, nonche sulle forze che hanno operato per deviarlo dalla sua originaria impostazione strategica, cfr.  S. d' Albergo, Economia e diritto nella dinamica delle istituzioni, cit., pp. 795 ss.; G. Ferrara, Istituzioni, lotta per l'egemonia e sistema politico, in Id., L'altra riforma nella Costituzione, manifestolibri, Roma, 2002, p. 119.

       [43] Cfr., sul tema, S. d'Albergo, La Costituzione del 1948 tra revisionismo storico e revisionismo giuridico, in La Contraddizione, n. 106, 2005, pp. 21 ss; G. Ferrara, La mutazione del regime politico italiano, in Costituzionalismo.it, 3/2008; Id., Lo <Stato pluriclasse>: un protagonista del <secolo breve>, in AA. VV., Dallo Stato monoclasse alla globalizzazione, a cura di S. Cassese, G. Guarino, Giuffre, Milano, 2000, p. 98.

       [44] Cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere,  cit., pp. 324, 325.

      [45]  Cfr. S. d'Albergo, Verso il baratro. Dalla "transizione" alla "repubblica monarchica", in La Contraddizione, n. 121, 2007, p. 21.

      [46] Cfr. S. d'Albergo, La democrazia sociale tra rilancio e delegittimazione, in S. d'Albergo, A. Catone, Lotte di classe e Costituzione. Diagnosi dell'Italia repubblicana, La citta del sole, Napoli, 2008, pp. 151, 174, 177; Id., La debacle del liberismo, in La Contraddizione, n. 125, 2008, p. 14;  G. Bucci, Stato democratico-sociale e <bonapartismo mercatista>, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, cit.,  vol. V,   pp. 1828, 1845.

[47] L. Villari, La roulette del capitalismo, cit., p. 128, rileva come la teoria scientifica keynesiana e le sue forme storiche <contengano la perennita del capitalismo e "la riconquista dei vantaggi tradizionali dell'individualismo">. J. Halevi, Stagnazione e crisi: USA, Asia Nippo-Americana e Cina, in AA. VV., Lavoro contro Capitale, Jaca Book, Milano, 2005, p. 196, sostiene che e insensato propugnare, nell'epoca attuale, il ritorno a Keynes per fronteggiare la  <stagnazione mondiale>. Le classi dirigenti dei paesi capitalistici accettarono alcuni aspetti del keynesismo, <fintantoche i maggiori gruppi economici puntarono a realizzare uno sviluppo nazionale>, mentre, a partire dalla fine del sistema monetario internazionale postbellico, il keynesismo si e manifestato, esclusivamente, in modo bellico e sotto la direzione degli USA. Specie da Reagan in poi, <il keynesismo militare USA> si e basato <sull'accentuazione dei conflitti intercapitalistici>, sicche lo spazio per politiche keynesiane globali appare inesistente. M. Donato, Questo non e un titolo tossico, cit., p. 36, rammenta come la crisi degli anni '30  sia stata superata con la seconda guerra mondiale e non con <il keynesismo di Roosevelt> e come il capitalismo, nella fase imperialista, abbia superato le crisi soprattutto mediante la guerra. Sul tema cfr., anche, A. Burgio, Senza democrazia, cit., pp. 91 ss., 159 ss. Sull'aumento della spesa militare mondiale e sulla corsa agli armamenti nell'attuale fase di crisi economica, cfr. M. Dinucci, Corsa al riarmo. Al primo posto USA e Nato. Ma anche l'Italia:, in il manifesto,18 marzo 2009; A. Dakli, La vera misura anticrisi di Medvedev: il riarmo, in il manifesto, 18 marzo 2009; G. Marcon, M. Paolicelli, Il riarmo per uscire dalla recessione, in il manifesto, 25 marzo 2009; J. Feffer, Battaglia nel pacifico. Una sfida per il dominio sul "lago americano", in il manifesto, 27 marzo 2009; S. Pieranni, Il riarmo cinese allarma il Pentagono, in il manifesto, 27 marzo 2009.

[48] U. Allegretti, Il governo della finanza pubblica, cit.; U. Mattei, Piccole apocalissi, cit., evidenzia la necessita di rilanciare la prospettiva del "governo democratico dell'economia" sperimentato, in Italia, negli anni settanta. La via di uscita dalla crisi viene individuata nella elaborazione di un piano finalizzato a ripristinare il primato del sociale rispetto alle strategie predatorie dei grandi gruppi di imprese finanziarie ed industriali. Sulla necessita di ricostruire gli strumenti di politica economica collettiva smantellati in trent'anni di privatizzazione economica e istituzionale, cfr. A. Burgio, Senza democrazia, cit., p. 261. Sulla necessita di rilanciare i grandi obiettivi dell'autogoverno dei produttori e della pianificazione dell'economia, cfr. V. Giacche, Karl Marx e la crisi del XXI secolo, cit., p. 52; A. Minucci, La crisi generale tra economia e politica, cit., p. 26.   Sul punto, cfr., altresi, L. Michelini, La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Il Ponte Editore, Firenze, 2008, p. 75.  



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