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è consentita la riproduzione a fini non di lucro
con l'obbligo di
riportarne la fonte
associazione marx XXI
17 maggio 2010 -
ore 18.00
via Borrelli 32 Bari
(di fronte al Piccolo Teatro, a
pochi minuti dalla stazione e dal parcheggio della ex caserma Rossani
in c.so B. Croce)
dibattito
La trappola del
federalismo
Relaziona
Salvatore d’Albergo
docente di diritto costituzionale,
Università di Pisa
Intervengono
Gaetano Bucci
docente di Diritto pubblico dell'economia,
Università di Bari
Giovanni Chiellini
Comitato per la difesa della Costituzione,
Firenze
Coordina
Andrea Catone,
direttore de l’ernesto
BARI
27 aprile
2010 - ore 18.30
Antonio Gramsci
militante comunista
Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra
intelligenza.
Agitatevi, perché
avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo.
Organizzatevi,
perché avremo bisogno di tutta la nostra forza.
(L'Ordine Nuovo,
anno I, n. 1, 1° maggio 1919)
A 63 anni dall’assassinio fascista del grande
intellettuale rivoluzionario
Nel primo pomeriggio una delegazione si reca al carcere
di Turi per rendere omaggio alla memoria del militante comunista
27 aprile 2010 - ore 18.30
via Borrelli 32 Bari
(di fronte al Piccolo Teatro, a pochi minuti dalla
stazione e dal parcheggio della ex caserma Rossani)
Intervengono
Andrea Catone, direttore de l’ernesto
Paola Pellegrini, segretaria nazionale dell’Associazione
Marx XXI
Pasquale Voza, fondatore del Centro
interuniversitario di studi gramsciani
ore 20.30 - Proiezione:
Gramsci, film in forma di
rosa (2005)
di Gabriele Morleo e
discussione con l'autore
BARI Martedi
2 marzo 2010 - ore 17.00
c/o Centro culturale, via Borrelli 32
[quartiere Carrassi, a 6' dalla stazione, a 3' dal parcheggio ex
caserma Rossani]
La crisi del capitale e il ruolo dei
comunisti
Presentazione dei due numeri speciali di Marxismo Oggi
realizzati in collaborazione con
l'ernesto, Essere comunisti, la Rinascita della sinistra
intervengono
Domenico Moro, economista (Roma)
Ghita Marzano, lavoratrice in lotta dell'Agile ex Eutelia, Bari
Donato Stefanelli, segretario generale regionale FIOM CGIL
Gaetano Bucci, docente di Diritto pubblico dell'economia, Universita
di Bari
Luigi Marino, direttore del dipartimento economia del Pdci
Fosco Giannini, dir. naz. PRC, coordinatore naz. area de l'ernesto
Coordina
Nico Perrone, docente di Storia dell'America, Universita di Bari
Dalla Carta costitutiva dell'associazione Marx XXI
"La crisi dei partiti comunisti e della sinistra in Italia
affonda le sue ragioni, oltre che negli sconvolgimenti storici
dell'89, anche in una vera e propria scissione tra la teoria e la
prassi politica che ha prodotto, nel corso di almeno un decennio
precedente a quegli eventi, la sottovalutazione e l'abbandono sia del
pensiero di Marx e delle sue categorie di interpretazione della realta,
sia di gran parte del patrimonio e delle successive acquisizioni
teoriche e politiche del socialismo e del comunismo".
"La ricostruzione di un rinnovato partito comunista e
un'esigenza, in primo luogo, delle masse popolari e di tutti coloro
che sono interessati a contrastare i processi reazionari in corso.
L'Associazione MARX XXI nasce dalla volonta di favorire questo nuovo
processo di unita e autonomia teorica e politica dei comunisti in
Italia, nella convinzione che esso non possa essere rinviato
ulteriormente ne che esso possa avanzare solo con la pur giusta
rivendicazione di un nome, di un simbolo, di una bandiera, ma solo con
una rinnovata capacita di analisi della societa italiana e del
contesto mondiale.
L'Associazione MARX XXI si pone statutariamente lo scopo di produrre
elaborazioni, studi e programmi che, sul piano teorico e culturale,
costituiscano le basi per il lavoro politico teso alla riunificazione
in Italia delle forze che si richiamano al marxismo, al leninismo, per
l'elaborazione politica e teorica dei comunisti del 21° secolo. Cio
nel quadro di una volonta di confronto e discussione con il complesso
delle tendenze culturali anticapitaliste, progressive e democratiche a
livello nazionale ed internazionale".
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il testo integrale della carta costitutiva e dello statuto sono sul
sito dell'ernesto, www.lernesto.it,
dove si trova notizia anche delle altre iniziative dell'associazione
in Italia, e sul sito del pdci, http://www.comunisti-italiani.it/.
Gli interventi alla riunione di presentazione dell'associazione il 19
dicembre 2009 a Roma si possono vedere su pdcitv: http://www.pdcitv.it/search/?search_id=marx+xxi&search_type=search_videos&submit=+
In questo incontro, col quale presentiamo a Bari l'associazione
nazionale Marx XXI, ci proponiamo di affrontare la questione della
crisi e dell'elaborazione della linea politica dei comunisti non solo
a livello generale, internazionale/nazionale, ma anche regionale, per
un'analisi critica della struttura economica sociale della Puglia e
l'individuazione di un 'programma minimo di classe'.
A tutti gli interessati proponiamo di dar vita ad un gruppo di studio
sull'economia pugliese e la crisi, presso il centro studi di via
Borrelli, dove vi e un biblioteca e un centro di documentazione del
movimento operaio, e si puo creare una sezione ad hoc per raccogliere
tutti i materiali in formato cartaceo o digitale.
Andrea Catone
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Per cominciare, riportiamo in calce 2 testi di due partecipanti
all'incontro. Altri saranno disponibili in un successivo invio:
1. D. Moro, La crisi non e finanziaria ma del capitale
2. G. Bucci, DIRITTO E POLITICA NELLA CRISI DELLA "GLOBALIZZAZIONE"
(stralcio)
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1. Domenico Moro
La crisi non e finanziaria ma del capitale
[ Articolo pubblicato in Marxismo Oggi,n. 1/2009, numero speciale sul
tema "La crisi del capitale e il ruolo dei
comunisti", promosso dalle riviste "Marxismo oggi",
"l'Ernesto", "Essere comunisti", "La
Rinascita della Sinistra". Il
numero preceduto da una presentazione a firma di Fosco Giannini, Guido
Oldrini, Manuela Palermi, Bruno Steri.]
1. SOVRAPPRODUZIONE E CRISI
Secondo la maggior parte dei mass media, degli economisti e dei
governi, quella attuale e una crisi
finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all'economia
"reale". Con questo tipo di analisi si
coglie, pero, solo la forma in cui la crisi si e manifestata. Se ne
ignora invece il contenuto, che
risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti, le
crisi sono la modalita tipica in cui
emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale. La
principale di queste contraddizioni e
quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese e produrre per
fare profitti e per fare cio
riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine,
cioe la differenza tra costi e
prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per
la realizzazione di economie di
scala, cioe per la produzione di masse di merci sempre piu grandi
nello stesso tempo di lavoro. A
questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre piu
moderne al posto di lavoratori, e
aumentati ritmi e intensita del lavoro. Astrattamente si tratta di un
fatto positivo, in quanto lo
sviluppo della produttivita mette a disposizione dei consumatori masse
di merci piu grandi prodotte
in un tempo minore. Il problema e che la produzione capitalistica e
diretta non verso semplici
consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato
a raggiungere il profitto
atteso, cioe verso un mercato. Ebbene la questione e proprio questa:
la produzione capitalistica e
una produzione che si estende progressivamente senza alcun riguardo
per il mercato cioe per le
capacita di acquisto delle merci prodotte. Inoltre, visto che il
profitto e dato dal lavoro non pagato
dei lavoratori, la riduzione proporzionale di questi ultimi sul
capitale complessivo impiegato
provoca una caduta del saggio di profitto, che si cerca di compensare
con l'aumento dello
sfruttamento e quindi producendo un numero maggiore di merci. Tutto
questo implica che la
produzione tende sempre ad eccedere le capacita di assorbimento del
mercato, determinando un
permanente squilibrio tra le capacita produttive e la limitatezza del
mercato. Una limitatezza che
viene accentuata proprio dal meccanismo che sostituisce forza lavoro
con macchinari e che
conseguentemente provoca l'espulsione di lavoratori dal processo
produttivo. Secondo uno studio
della Banca dei regolamenti internazionali, dagli anni 80 ad oggi in
tutti i principali paesi
industrializzati si e avuto uno spostamento del Pil dai salari ai
profitti. In Italia la quota andata ai
profitti e aumentata dal 23,1% del 1993 al 31,3% del 2005. Si tratta
dell'8% del Pil, equivalente a
120 miliardi di euro ossia a 7mila euro per ognuno dei 17 milioni di
salariati italiani che
annualmente passano dai salari ai profitti. Ma la cosa piu
interessante dello studio della Bri e che la
causa di questo fenomeno viene individuata, non nella concorrenza dei
lavoratori dei paesi "in via
di sviluppo", ma nella introduzione di nuova tecnologia che,
espellendo lavoratori e destrutturando
l'organizzazione del lavoro, riduce le capacita di resistenza e
negoziazione dei lavoratori. In questo
modo, si e determinata la perdita di capacita d'acquisto dei salari ed
i lavoratori si sono trovati
costretti al lavoro straordinario con l'effetto di ridurre ancora di
piu la domanda di forza lavoro e di
aggravare la disoccupazione. Inoltre, avendo le nuove tecnologie una
forte componente informatica,
che diventa obsoleta piu rapidamente, le ristrutturazioni sono
divenute piu frequenti. Dunque,
mentre da una parte si moltiplica l'offerta di merci sul mercato,
dall'altra parte si riduce la
domanda, che per la maggior parte e costituita da lavoratori
salariati, o, nel caso migliore, non si
permette alla domanda di crescere in modo proporzionale all'offerta.
Del resto, nella anarchia della
concorrenza, ancorche oligopolistica, che regna nel modo di produzione
capitalistico, ogni singolo
2
capitale, per battere i concorrenti, tende a realizzare sempre
maggiori economie di scala e a ridurre i
salari dei propri lavoratori, trattandoli come costi da ridurre e non
come compratori. Si produce cosi
una tendenza alla sovrapproduzione di merci che, pero, ha alla sua
base la sovrapproduzione di
capitale sotto forma di mezzi di produzione. Cio che e importante
capire, pero, e che la
sovraccapacita produttiva e tale entro il modo di produzione
capitalistico, che produce solo per il
profitto, e che la sovrapproduzione di merci si determina entro i
limiti del mercato capitalistico.
2. IL CASO EMBLEMATICO DELL'AUTOMOBILE
La crisi non e una cesura nel procedere normale dell'economia, e il
modo violento in cui il capitale
tenta di risolvere le sue contraddizioni. Infatti, le crisi non solo
bruciano miliardi di capitale fittizio
nei crolli borsistici, ma provocano distruzione di capitale reale
attraverso la svalorizzazione delle
merci, che giacciono invendute nei depositi o sono vendute sottocosto
(negli Usa si e arrivati al
prendi due automobili ne paghi una), e dei mezzi di produzione, che
rimangono inattivi o
sottoutilizzati. Le crisi, poi, distruggono forza lavoro attraverso i
licenziamenti e, provocando la
morte delle aziende piu deboli ed il loro assorbimento da parte di
quelle piu forti, determinano la
concentrazione della produzione in sempre meno mani. Soltanto a questo
prezzo si generano le
condizioni affinche la produzione sia di nuovo profittevole e possa
riprendere, riproducendo pero le
condizioni per replicare la crisi successivamente e su una base piu
ampia. Il caso dell'auto e
emblematico. Si tratta di un settore con le caratteristiche tipiche
della grande industria: una
progressiva grande concentrazione, e un sempre piu forte aumento della
componente tecnologica in
rapporto ai lavoratori impiegati. Un settore nel quale, secondo le
parole dell'amministratore
delegato della Fiat, Marchionne, "la sovraccapacita produttiva e
un problema generale". Negli Usa,
infatti, la produzione del 2009 sara di appena il 45% dell'output
potenziale, pari 5 milioni di auto in
meno rispetto al 2007. Secondo CSM Wolrdwide, l'utilizzazione degli
impianti delle prime dodici
case produttrici mondiali, scesa al 72,2% gia nel 2008, si ridurra nel
2009 al 64,7%. Le
conseguenze saranno pesanti persino per le case leader tedesche e
giapponesi: in Germania sono gia
stati licenziati i lavoratori precari (4500 quelli della Volkswagen),
mentre l'orario settimanale di
lavoro (ed il salario) e stato ridotto per i due terzi dei lavoratori
stabili della Volkswagen e a
febbraio e marzo per 26mila della Bmw, in Giappone, invece, la Nissan
ha pianificato 20mila
licenziamenti. Ancora peggiore la situazione delle case Usa, tra le
quali GM e Chrysler sarebbe gia
fallite senza i 14 miliardi di dollari stanziati dal governo. GM, in
particolare, prevede la chiusura di
quattro dei ventidue impianti statunitensi e 31mila licenziamenti.
Eppure tutto questo si realizza alla
fine di un processo in cui le tre major di Detroit avevano migliorato
la loro produttivita. Secondo
l'Harbour report, le major di Detroit hanno ridotto il divario con gli
stabilimenti giapponesi in
America in termini di tempo necessario alla produzione di un veicolo
dalle 10,51 ore del 2003 alle
3,50 ore del 2007. Del resto, ad essere preceduta da un forte aumento
della produttivita fu anche la
crisi del '29, sebbene, come quella odierna, fosse stata innescata da
un crollo finanziario. Infatti, fu
proprio negli anni 20 che, col fordismo, si introdusse la catena di
montaggio. A partire dagli anni
80, il fordismo si e aggiornato, divenendo tojotismo, che,
flessibilizzando i processi, avrebbe dovuto
sanare la contraddizione tra mercato e produzione. Il bel risultato e
stato che le auto invendute, solo
nei piazzali degli stabilimenti Usa, hanno raggiunto a fine gennaio
2009 quasi i tre milioni,
equivalenti a 116 giorni di vendita agli attuali livelli. Prova questa
che, entro i limiti dei rapporti di
produzione capitalistici, per sanare la contraddizione tra produzione
e mercato non c'e tecnica
manageriale che tenga. Quali sono allora le risposte che si
prospettano alla sovrapproduzione? Il
caso statunitense e ancora una volta emblematico. Oltre ai
licenziamenti ed alla settimana corta di 4
giorni (working sharing), si prospetta un allineamento di tutte le
case americane alle peggiorative
condizioni salariali e assistenziali in vigore presso gli stabilimenti
giapponesi negli Usa. In secondo
luogo, anche questa crisi, come e piu di altre, data la sua gravita,
vorra le sue vittime e sara il volano
3
per ulteriori fusioni ed acquisizioni. Sempre secondo Marchionne, nel
mercato mondiale dell'auto ci
sarebbe posto solo per cinque o sei produttori che riescano a
raggiungere l'economia di scala
minima di cinque milioni di vetture. Ed e proprio la Fiat a
distinguersi per il suo attivismo,
muovendosi in varie direzioni, dalle joint ventures con la Tata
indiana, che e entrata anche nel
capitale Fiat, alla possibile acquisizione della Chrysler, fino alla
ventilata fusione con Peugeot. La
crisi fornira poi un ulteriore stimolo alla internazionalizzazione
della produzione, per ridurre i costi
e avvicinarsi ai nuovi mercati di sbocco. Gia oggi, Ford e GM
producono negli Usa meno del 32%
del loro output complessivo, mentre Fiat, Renault e Volkswagen
producono nei paesi d'origine
rispettivamente appena il 34,9%, il 34,7% ed il 33,6% della loro
produzione totale. A pagare
saranno, comunque, sempre i lavoratori con la perdita del posto di
lavoro e con la riduzione dei
salari.
3. IL NESSO TRA SOVRAPPRODUZIONE E FINANZA
Contrapporre, in ambito capitalistico, economia
"finanziaria" e "reale" non ha senso ed e
fuorviante. L'enorme sviluppo del credito e dei mercati finanziari ha
alla sua base l'affermazione
della grande industria, che ha bisogno di capitali monetari sempre piu
grandi da investire. La
mondializzazione della concorrenza, le fusioni e le acquisizioni, il
gigantismo delle imprese,
necessario ad economie di scala sempre maggiori, determinano una
richiesta di credito sempre
maggiore e banche sempre piu grandi. Sebbene le crisi non siano
causate dal credito e dalla finanza,
esiste un nesso molto stretto tra crisi e credito. Tale nesso sta nel
fatto che il credito favorisce ed
accelera la tendenza alla sovrapproduzione di capitale e di merci. Il
credito, infatti, permette
l'allargamento della produzione in un modo che altrimenti non sarebbe
possibile. Nello stesso
tempo le banche, concentrando in poche mani il risparmio della societa
e trasformandolo in
investimento, fanno assumere al capitale stesso una forma
"sociale", favorendo la separazione tra
direzione e proprieta. Si crea cosi una produzione privata senza
proprieta privata e una nuova
aristocrazia finanziaria e di top manager, superpagata, indifferente
ai limiti del mercato, e incline ad
investimenti spericolati, parassitismo e speculazione. In questo modo
si sviluppa la tendenza ai
monopoli e alla sovrapproduzione cronica generale. L'industria
contemporanea versa da decenni in
una situazione di sovrapproduzione, cui si e risposto favorendo il
credito facile e quindi
l'indebitamento, sia dal lato dell'offerta, cioe dal lato delle
aziende, sia da quello della domanda,
cioe dei consumatori-compratori. Per anni, con il beneplacito dei
governi Usa, la Fed ha mantenuto
un bassissimo costo del denaro, spingendo le banche a prestare oltre
ogni ragionevole garanzia. In
particolare e stato incentivato l'acquisto delle case, perche la
proprieta immobiliare garantiva
sull'acquisto a credito di beni di consumo come l'auto. Sono stati
concessi mutui fino al 100%, ed
anche a chi non aveva ne lavoro ne altre proprieta, i cosiddetti mutui
subprime. La spirale
dell'indebitamento si e autoalimentata, grazie alla liberalizzazione
dei mercati finanziari e alla
abolizione degli steccati e delle regole introdotte dopo la crisi del
'29, ed i mutui sono stati
cartolarizzati in titoli - i cosiddetti derivati - venduti alle banche
di tutto il mondo. La speculazione
si e estesa anche alla cartolarizzazione delle assicurazioni sui
derivati dei mutui, i credit default
swaps (Cds), che hanno raggiunto la cifra astronomica di 45mila
miliardi. Inoltre, sono state
introdotte altre forme di incentivazione all'indebitamento come le
carte di credito revolving. In
sostanza la domanda di beni di consumo e stata drogata, fondando su
basi d'argilla l'espansione
economica seguente alla crisi del 2001. Negli Usa e nel Regno Unito il
debito delle famiglie nel
2007 aveva raggiunto il 100% del Pil. Intanto la leva finanziaria
delle banche era cresciuta a
dismisura: le banche europee per ogni euro di capitale posseduto
avevano dato in prestito 40 euro,
quelle Usa ancora di piu. Tutto questo non poteva reggere ed infatti
non ha retto. Quando la bolla
immobiliare ha raggiunto il suo picco e nel 2007 e scoppiata, le
abitazioni hanno perso fino al 40%
del valore ed i loro proprietari non sono piu riusciti a far fronte ai
mutui. Il sistema finanziario
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internazionale si e cosi reso conto di avere in pancia miliardi di
titoli col valore della carta straccia,
cui si aggiungeva la massa dei Cds, che avrebbero potuto portarlo al
collasso. Numerose banche,
costrette a iscrivere le perdite a bilancio, sono fallite, sono state
acquisite o salvate dallo Stato, e
centinaia di miliardi di capitalizzazione di borsa sono stati
bruciati. Inoltre, l'incertezza sulla
solvibilita delle banche ha portato alla paralisi del mercato
interbancario ed al restringimento del
credito, con conseguenze devastanti per le aziende, gia pesantemente
indebitate ed alle prese con le
necessita della internazionalizzazione, della riorganizzazione
produttiva e del finanziamento del
credito al consumo.
4. FALLIMENTO DEL MERCATO E INTERVENTO DELLO STATO
La sovrapproduzione che attanaglia l'economia e ormai generale.
Infatti, secondo la Banca
mondiale, al calo, per la prima volta dal 1945, del Pil mondiale si e
associato il maggiore declino
del commercio mondiale degli ultimi 80 anni, ovvero dalla grande
Depressione degli anni 30.
L'International labour organization prevede dai 18 ai 30 milioni di
disoccupati in piu, 50 nella
previsione peggiore. La crisi ha cosi dimostrato nel modo piu plateale
il fallimento delle capacita
regolatrici del mercato. Significativa e stata la rapidita della
sterzata verso l'intervento dello Stato a
partire proprio dai due paesi leader della "rivoluzione"
neoliberista, Usa e Gran Bretagna, e la
consistenza dell'intervento, soprattutto a favore del credito. Negli
Usa il programma di aiuto
federale, il Tarp, ha gia utilizzato 294,9 miliardi, di cui 250 per la
ricapitalizzazione delle banche,
su uno stanziamento totale di 700 miliardi, e Obama ha in progetto un
ulteriore stanziamento di
2mila miliardi. In gran Bretagna lo stato ha acquisito la Bearn
Stearns, il 60% della Royal Bank of
Scotland e il 40% di Lloyds-Hbos, mentre la Germania, che ha gia dato
90 miliardi alla Hypo e ha
acquistato il 25% della Commerzbank, ha varato una legge che consente
l'esproprio statale delle
banche in difficolta. Ma, visto che queste misure non sono bastate a
rimettere in moto il mercato
interbancario ed il prestito ad imprese e famiglie, lo Stato ha
assunto il ruolo di finanziatore diretto,
piu o meno a fondo perduto, delle aziende. In Giappone lo Stato ha
stanziato 13 miliardi di euro con
cui entrera eventualmente anche nel capitale delle aziende. In
particolare, si e svolta una corsa al
soccorso dei produttori nazionali di auto, dai 14 miliardi di dollari
dati a GM e Chrysler ai 7
miliardi di euro stanziati per Renault e Psa, di cui una parte andra
alle branche di queste societa che
finanziano gli acquisti a credito. Tutte scelte che, insieme alla
riduzione praticamente a zero dei
tassi di interesse praticati da molte banche centrali come la Fed,
dimostrano che la soluzione alla
crisi viene ricercata in direzioni vecchie e sbagliate, come
l'indebitamento e il protezionismo,
ritornato prepotentemente in auge con il buy american. L'insieme delle
risorse messe sul piatto
dagli Usa raggiungono gli 8000 miliardi, pari al 54% del loro Pil. Se
pensiamo che gli Usa in tutta
la Seconda guerra mondiale spesero 3600 miliardi e che nel 1944 la
spesa bellica fu il 36% del Pil,
abbiamo una idea della partita in atto. L'aumento della spesa statale
fara esplodere il deficit
pubblico, che negli Usa arrivera quest'anno al 10% e nel Regno Unito
al 6-8%, mentre la virtuosa
Germania portera il disavanzo pubblico ai massimi dal 1945.
L'ingigantirsi dei debiti pubblici, gia
gravati come negli Usa da decenni di sussidi alle imprese e di spese
militari, condurra
all'inasprimento della tassazione, mentre l'aumento dell'emissione dei
titoli di Stato, unico
investimento rifugio rimasto, sta gia conducendo al calo dei
rendimenti per milioni di piccoli
risparmiatori. Al contempo il prezzo dei credit default swaps sui
titoli pubblici si e alzato, segno dei
timori del mercato sulla solvibilita di molti stati. Mentre gli Usa,
grazie al dollaro cercano di
continuare a scaricare il finanziamento del loro enorme debito
sull'estero, molti paesi periferici,
soprattutto nell'Europa dell'est, presi dalle difficolta della
recessione, rischiano una bancarotta che
avrebbe pesanti contraccolpi sulle banche europee e sull'euro.
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5. CONCLUSIONI: PIANIFICAZIONE E RIDUZIONE DELL'ORARIO DI LAVORO
Se il fallimento del mercato e ormai evidente a tutti, meno evidente e
l'altrettanto grande fallimento
della proprieta e della produzione privata. In Italia ad esempio
assistiamo all'apparente paradosso di
chi, Confindustria in testa, chiede e ottiene l'intervento statale
sotto forma di aiuti e continua a
rivendicare le privatizzazioni, ad esempio delle utility. In effetti e
proprio nei momenti di difficolta
che il capitale si rifugia di piu nelle rendite di monopolio, fuori
dalla concorrenza. In ogni paese, la
premessa a tutti gli aiuti pubblici e che lo Stato, anche nel caso in
cui entrasse in una banca o in una
azienda con quote di maggioranza, rimanga rigorosamente fuori dalla
sua gestione, magari
comprando azioni senza diritto di voto. Gia l'espansione del credito
aveva messo a disposizione del
privato il capitale sociale (il risparmio della collettivita),
rendendo la produzione privata una
produzione senza proprieta privata. Oggi che lo Stato finanzia le
banche private o eroga
direttamente alle imprese il capitale impiegato, la proprieta acquista
ancora di piu un carattere
sociale. Si accresce quindi la contraddizione tra il carattere sempre
piu sociale della produzione e
della proprieta e l'appropriazione privata del prodotto di quella
produzione, che si concentra in
sempre meno mani. Del resto, con sole cinque case automobilistiche a
dividersi il mercato
mondiale, come prevede Marchionne, si puo ancora parlare di proprieta
privata? Si tratta di una
produzione in realta gia quasi socializzata. Abbiamo invece una
produzione privata senza proprieta
privata, e che si sottomette lo Stato come erogatore concentrato del
capitale della societa. La crisi
non si risolve con gli aiuti agli imprenditori privati o gettando
masse di denaro nel pozzo senza
fondo dell'insolvenza di banche che continuano a non prestare. La
crisi si risolve solo andando alla
sua radice, che certo non sta negli stipendi dei supermanager. In
primo luogo, non ha senso
mantenere la produzione privata, quando i capitali sono pubblici.
Permarrebbero, a spese dei
lavoratori-contribuenti, l'anarchia irrazionale della concorrenza e lo
squilibrio permanente tra
produzione e circolazione delle merci. Tali contraddizioni possono
essere risolte solo mediante il
coordinamento complessivo, la pianificazione dell'economia da parte
delle collettivita, secondo le
priorita della societa e dell'ambiente, e cominciando con la
ripubblicizzazione delle banche e dei
servizi di pubblica utilita. In secondo luogo, va affrontata la
contraddizione tra sviluppo delle forze
produttive e rapporti di produzione. Le scoperte tecnologiche e
l'enorme aumento della produttivita
che negli ultimi decenni ne e derivato possono liberare tempo vitale
invece di essere fonte di
disoccupazione. Ma questo e possibile a farsi solo se l'orario di
lavoro viene ridotto a parita di
salario, liberando bisogni e la possibilita di soddisfarli, ed
allargando cosi i limiti del mercato. Se e
vero che la crisi libera i mostri della xenofobia e dell'autoritarismo
e che la depressione del '29 apri
la strada ai fascismi, quella stessa crisi ebbe anche risposte a
sinistra. Negli Usa nel 1932 il senatore
Black, in opposizione al working sharing, che redistribuiva solo la
poverta e non l'occupazione,
propose una legge per la riduzione dell'orario a 30 ore, che fu
sconfitta solo di misura per
l'opposizione di Roosvelt e degli imprenditori. Fu invece in Francia
che nel 1936, in piena crisi, fu
approvata una legge per le 40 ore, che porto, a parita di salario,
l'orario di lavoro annuale da 2496 a
2000 ore. La differenza tra Francia e Usa e che, all'epoca, in Francia
era al governo quel grande
esempio di protagonismo politico dei lavoratori che fu il Fronte
popolare. Un esperimento politico
su cui, mutatis mutandis, forse varrebbe la pena di riflettere. Oggi,
in conclusione, di fronte ad una
crisi eccezionale che evidenzia il fallimento di un intero modo di
produzione ritorna d'attualita
proprio il fantasma che si e voluto esorcizzare negli ultimi venti
anni, il socialismo. La possibilita di
rispondere alla crisi economica e alla crisi politica della sinistra
passa cosi per la capacita di
prospettare una organizzazione alternativa della societa e
dell'economia.
(9 aprile 2009)
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Gaetano Bucci
DIRITTO E POLITICA NELLA CRISI DELLA "GLOBALIZZAZIONE"
[il saggio sara pubblicato sul prossimo numero (2/2009) di 'Democrazia
e Diritto. Ne riproduciamo il 10° capitolo sull'intervento pubblico
in economia]
Sommario: 1. Le interdipendenze fra la crisi del capitalismo
finanziario e la crisi del capitalismo industriale - 2. La genesi
"reale" delle crisi finanziarie e la crisi attuale - 3. La
crisi attuale come "crisi generale" - 4. Le risposte di
salvataggio - 5. Le misure statunitensi - 6. L'insufficienza delle
risposte - 7. Gli interventi sovranazionali ed internazionali - 8. Le
misure italiane - 9. Il senso degli interventi - 10.
L'"intervento pubblico nell'economia" fra modelli dirigisti
e prospettiva democratico-sociale.
1 10. L'"intervento
pubblico nell'economia" fra modelli dirigisti e prospettiva
democratico-sociale
L'ambigua formula dell' "intervento pubblico nell'economia"
viene utilizzata, dalle opinioni liberiste, proclivi a falsificare la
natura dei rapporti reali tra economia e politica, per occultare le
differenze strutturali che intercorrono fra gli interessi
all'accumulazione della ricchezza e gli interessi sociali. Con la
suddetta formula si cerca, insomma, di nascondere la realta dei
rapporti di potere e dei conflitti di classe[1].
Occorre, invece, osservare come gli avvicendamenti tra
"liberismo" ed "interventismo" provocati dai
processi ricorrenti di "crisi", comprovino la necessita
oggettiva del ricorso al potere dello stato che, sia nelle forme della
"regolazione", sia nelle forme del "capitalismo di
stato", svolge la funzione di soddisfare le esigenze
mutevoli del capitale finanziario e industriale[2].
Nella fase attuale, gli "interventi pubblici" sono
realizzati per fornire una risposta alle convulsioni
congiunturali in atto, che sarebbero, oggettivamente, incontenibili
con le forme della "regolazione"[3], cui si e fatto ricorso
nella fase dell' "economia di mercato aperta e in libera
concorrenza".
Si conferma, pertanto, il ruolo ausiliare che le varie forme di
intervento pubblico svolgono per fronteggiare il carattere ciclico
delle contraddizioni ingenerate dal modo di produzione capitalistico e
per garantire gli interessi organici del capitale finanziario e
industriale[4].
Una parte significativa dell'orientamento neoliberista, sfavorevole al
ritorno di forme di intervento pubblico nell'economia[5] differenti
dalla ormai fallita "regolazione", paventano il rischio che
gli "interventi anti-crisi" possano riaprire la strada al
"socialismo di stato".
Il panico diffusosi nelle file liberiste, a causa dell'invocato e, al
tempo stesso, temuto "intervento pubblico", ha provocato
l'insorgere di salti logici e la diffusione di luoghi comuni che
annullano la memoria storica.
Nel dibattito in corso sulla stampa, divulgativa e specialistica, si
assiste alla indebita sovrapposizione tra le forme di intervento
pubblico nello stato capitalistico e le forme di intervento pubblico
nello stato socialista[6] e all'occultamento <delle differenze tra
liberismo e capitalismo di stato>, nonche <delle differenze tra
capitalismo di stato nel sistema di capitalismo monopolistico privato
e capitalismo di stato nella concezione del socialismo>[7].
Non appare, tuttavia, plausibile ascrivere, nella generica categoria
del cd. "interventismo statale", le differenti risposte che
le forze politiche, ispirate alle visioni del liberalismo, del
socialismo, del corporativismo fascista e di quello democratico,
fornirono alla crisi economica della prima meta degli anni trenta.
Una crisi capitalistica aggravata dall'avvento della societa di massa
e, quindi, dall'emergere di nuovi interessi organizzati, che
rivendicavano bisogni sociali mai riconosciuti dai sistemi politici
liberali.
Le strategie realizzate per il superamento della crisi furono
differenti per i contenuti espressi e per le finalita perseguite.
Gli interventi che gli stati e le istituzioni sovranazionali stanno
effettuando per gestire i problemi suscitati dalla crisi attuale, non
possono suscitare, parimenti, semplicistiche analogie con le vicende
del "capitalismo di stato nella transizione al socialismo",
ma rientrano nel solco delle vicende del "capitalismo di stato
liberista" e devono essere annoverati, pertanto, nella categoria
del "capitalismo organizzato", ossia nella categoria che fu
elaborata nel periodo della crisi del '29 e riutilizzata, nel corso
degli anni settanta, dagli storici e dagli studiosi di scienze
sociali[8].
Sarebbe, pertanto, opportuno avviare, nell'ambito di un'
interpretazione del passato finalizzata alla comprensione del presente
ed all'individuazione di soluzioni per il futuro, una
chiarificazione sulle <implicazioni dei percorsi del
"capitalismo organizzato"> e, quindi, una riflessione
sulle varie forme di interventi che sono stati, storicamente,
realizzati per fronteggiare la crisi del capitalismo privato (quali,
ad esempio, l' "irizzazione" fascista, realizzata in
parallelo al corporativismo istituzionale, ed il new deal
statunitense)[9].
I gruppi dirigenti del sistema capitalistico italiano tedesco e
statunitense reagirono alla "grande crisi", creando apparati
di stato "paralleli" (le cd. "amministrazioni
parallele") a quelli burocratici di "repressione". Ai
primi furono affidati compiti di sostegno degli interessi delle grandi
imprese, mentre i secondi continuarono ad esercitare funzioni di
"oppressione" del pluralismo sociale.
Nel caso del fascismo e del nazismo queste funzioni divennero,
tuttavia, piu pervasive, perche furono introdotti meccanismi di
"governo dall'alto" diretti a trasformare le classi sociali
in "masse amorfe e passive[10].
Il regime fascista reagi alla crisi economica e al conflitto
sociale[11] mediante l'inserimento coattivo delle masse nello stato e
realizzando un' integrazione piena fra la dittatura e le
politiche di sostegno al capitalismo finanziario[12].
Le concezioni corporativiste trovarono espressione sia nelle forme
dittatoriali del regime fascista e nazista, sia in quelle autoritarie
del presidenzialismo americano[13].
Il fascismo esercito il controllo capillare sulla societa integrando
il partito unico e il sindacato nelle strutture governative dello
stato, ma introdusse una normativa economico-sociale inedita che
garanti la continuita del processo di accumulazione capitalistica.
Il carattere innovativo del sistema giuridico creato dal fascismo puo
essere colto considerando la normativa che ha disciplinato <le
attivita economiche private> e delineato <un nuovo tipo di
struttura del potere pubblico>.
Gli enti pubblici economici costituirono le nuove strutture portanti
dell'intervento pubblico nell'economia e svolsero, prevalentemente,
funzioni "sussidiarie" nei confronti dell'iniziativa
privata[14].
Un altro carattere peculiare del modello organizzativo, introdotto dal
fascismo, puo essere individuato nella creazione delle
"corporazioni", ossia di forme istituzionali funzionali
all'inquadramento coattivo delle organizzazioni di massa nello
stato[15].
Il fine principale perseguito dalla strategia corporativa fu quello di
<delegittimare la lotta di classe sul versante del movimento
operaio> e di rafforzare, <in nome della
"collaborazione" tra le classi, il versante padronale
dell'organizzazione produttiva>.
L'interclassismo, condiviso dalla cultura socialdemocratica e da
quella cattolica, fu utilizzato come strumento di un totalitarismo che
esaltava lo "stato" reputandolo sintesi di ogni valore,
sosteneva la "proprieta" e l' "impresa" ed
assumeva la "gerarchia" come asse dei rapporti sociali in
sede civile, politica ed economica.
La Carta del lavoro integro lo "Statuto albertino" e, in un
tale contesto, si realizzo <il rovesciamento della concezione dei
"diritti sociali" proclamati dalle forze democratiche
antifasciste>.
Il regime fascista supero i limiti del "neutralismo
liberale"[16] e riconobbe la societa di massa, ma in una
posizione di "subalternita" e non di "sovranita"
rispetto al sistema delle imprese private[17].
Il suddetto riconoscimento avvenne in un modo del tutto peculiare
perche il regime fascista, lungi dal realizzare il <regno della
pace sociale e dell'armonia tra le classi>[18], persegui, con una
"radicalita" non raggiunta da alcuna altra dottrina,
l'obiettivo di smantellare <le forme di rappresentanza elaborate
nel processo di costruzione dello stato liberale> e, quindi, di
abolire la <sfera politica democratica>[19].
L'abolizione radicale di ogni spazio democratico determino il primato
della vita economica, sicche il "capitalismo organizzato"
nei diversi settori dell'industria fini con l'assorbire l'intera
societa[20].
Lo stesso corporativismo fascista, nonostante il significato implicito
in formule quali "terza via" o "via mediana", non
si presento, a differenza della sociadelmocrazia e del pensiero
sociale cattolico, come un apparato di mediazione fra il socialismo
marxista ed il liberal-capitalismo, bensi come un superamento di
entrambi e svolse la funzione di un'armatura sovraimpressa ad una
societa liberal-capitalista, finalizzata a garantirne la
sopravvivenza[21].
Il corporativismo non persegui l'obiettivo della fuoriuscita, sia pur
tendenziale, dal capitalismo, ma si inseri, piuttosto, <nell'alveo
del "capitalismo organizzato" (e rafforzato)>, anche se
non sottovaluto le cause che avevano provocato la crisi del sistema
liberale e le ragioni che avevano determinato la nascita del movimento
operaio organizzato e l'insorgere del conflitto di classe.
La ricerca di una "terza via" tra capitalismo e
socialismo[22] ha accomunato, quindi, culture politiche diverse[23].
Sussistono, in effetti, numerose assonanze tra le prospettive del
corporativismo fascista e quelle del "nuovo corso"
americano[24].
Nell'ambito di ambedue le esperienze furono configurati modelli di
regolazione che possono essere, astrattamente, inclusi nella categoria
del cd. "interventismo statale" e nella stessa prospettiva
possono essere comprese anche le esperienze del corporativismo
socialdemocratico e dell'interclassismo cattolico.
Il fascismo adotto, invero, una marcata strategia classista e giunse
ad abolire la democrazia formale pur di ripristinare l'accumulazione
capitalistica compromessa dagli effetti della crisi del '29 e del
conflitto sociale, ma unitamente agli indirizzi cattolici e
socialdemocratici prefiguro, in nome dell'interclassismo concertativo,
nuove forme di organizzazione economica e sociale, sconosciute dal
sistema liberale.
Il punto di convergenza fra le diverse prospettive puo essere
individuato, comunque, nell' intento di scongiurare il rischio che gli
effetti della crisi e la pressione delle domande sociali
potessero provocare eventi simili a quelli della rivoluzione
sovietica[25].
La prospettiva dell'abolizione del capitalismo privato era
ritenuta, del resto, praticabile, specie dopo l'esperienza
fallimentare della democrazia weimariana, contrassegnata da vistose
contraddizioni politiche e sociali.
Le considerazioni precedenti consentono, pertanto, di evidenziare l'erroneita
delle opinioni che attribuiscono alle sole forze <di impostazione
marxista> o a quelle di <sinistra riformista o
rivoluzionaria>, l'espressione di un orientamento favorevole
all'intervento dello stato nell'economia[26].
Gli attuali interventi pubblici finalizzati a fronteggiare gli effetti
della crisi devono essere annoverati nella categoria del
"capitalismo di stato borghese" e non in quella del
"capitalismo di stato" (o socialismo di stato), usata per
connotare la cd. "fase di transizione al socialismo" nelle
vicende dell'Unione sovietica.
Ad una differente conclusione si giunge se si opera una generica
assimilazione tra le forme istituzionali utilizzate nelle varie
esperienze del cd. "capitalismo di stato", senza valutare le
finalita antitetiche che le forme medesime hanno perseguito
nell'ambito del modello capitalista e di quello socialista.
Ambedue i modelli sono contraddistinti dalla presenza del
"capitalismo monopolistico di stato" e, quindi, dall'uso di
"forme" di controllo pubblico della produzione e della
finanza. Mentre, pero, gli apparati del "soviettismo",
muovendo dalla concezione materialista intesa come "teoria
sociale generale", puntarono a fare dello stato uno strumento di
<emancipazione dei soggetti "deboli">[27], gli
apparati dell'ordinamento statunitense e di quello fascista
perseguirono il fine di consolidare il dominio del capitalismo in
crisi.
Nell'analizzare le incompatibili esperienze del
"socialismo" e del "capitalismo" risulta, quindi,
essenziale valutare lo specifico nesso tra "forme" e
"contenuti" che caratterizza i diversi modelli di
"capitalismo di stato".
Questa valutazione risulta essenziale per evitare di alimentare una
confusione ulteriore in cui si potrebbe incorrere quando, sempre per
ragioni di tipo "esteriore" e "formale", si
pongono sullo stesso piano gli <apparati di stato del cd.
"governo dell'economia"> e gli <apparati di stato del
cd. welfare state>, facendoli confluire nell'ambigua concezione
dello "stato sociale".
Questa sovrapposizione concettuale appare fuorviante perche non
consente di cogliere la differenza tra l'intervento pubblico che si
limita a "gestire" le contraddizioni generate dall'intreccio
tra il capitale finanziario e quello industriale per restituire
forza al capitalismo in crisi e l'intervento pubblico che persegue
finalita redistributive e concede, sia pur nei limiti delle
compatibilita (finanziarie) determinate dalla preminenza degli
interessi capitalistici, <frammenti di "diritti sociali",
tradizionalmente conculcati dai liberisti>[28].
I gruppi dirigenti, nel periodo della "grande crisi", hanno
connesso le due tipologie di intervento e le hanno utilizzate per
ripristinare le condizioni dell'accumulazione privata della ricchezza
e per contenere la recrudescenza del conflitto sociale[29].
Per comprendere la natura degli ordinamenti sovietico, liberista,
socialdemocratico, corporativo e democratico-sociale, nonche delle
rispettive modalita di intervento pubblico nell'economia[30], occorre
valutare, pertanto, il modo in cui e stato costruito il rapporto tra
l' "economicita" e la "socialita e il sistema di valori
costituzionali cui deve conformarsi[31].
Occorre evidenziare, a questo proposito, che la
Costituzione italiana, superando i caratteri residuali della
teoria del cd "stato sociale" ispirata alla costituzione
weimariana, ha recepito un sistema di "Principi
fondamentali" che legittimano il primato della "socialita"
su quello dell' "economicita", ossia su quel concetto che i
gruppi di potere reputano essenziale per garantire la salvaguardia dei
profitti delle imprese industriali e finanziarie.
La Costituzione possiede un impianto organicamente
unitario fondato sullo stretto nesso fra i Principi fondamentali, la
Parte Prima e la Parte Seconda. Un tale assetto ordinamentale non
consente di utilizzare, come canone ermeneutico, la
nozione di "costituzione economica", in quanto essa svolge
la funzione di isolare il potere economico, garantendone una forza
superiore di impatto sulla realta sociale complessiva[32].
I "rapporti di produzione" e gli altri
"rapporti sociali" sono disciplinati in modo interdipendente
per garantire una realizzazione effettiva dei diritti sociali, che non
sono stati aggiunti come appendici di un catalogo di diritti di
matrice liberale, ma sono stati connessi con strumenti di potere (art.
41, 3° comma, Cost.) per evitare che la loro funzione fosse
compatibile con una prospettiva di "liberismo
compassionevole"[33].
I Principi fondamentali costituiscono l'espressione di un intreccio
fra i valori della democrazia politica, della democrazia economica e
della democrazia sociale, che legittima l'esercizio di un controllo
sociale sull'attivita economica pubblica e privata finalizzato ad
agevolare la costruzione di rapporti improntati all'eguaglianza
dei diritti e dei poteri[34].
I Costituenti, muovendo da una concezione
inedita del potere pubblico-sociale[35], hanno considerato la
programmazione democratica dell'economia come uno strumento
istituzionale che consente una visione globale delle questioni
economiche e sociali e rende, pertanto, possibile l'esercizio di una
funzione unificante necessaria per risolvere i problemi della
collettivita[36].
Nell'ambito della funzione generale del governo democratico
dell'economia rientrano anche le attivita finanziarie dei soggetti
pubblici e privati, che devono essere coordinate ed indirizzate
verso la realizzazione di fini sociali. Uno stretto legame sussiste
tra l'art. 3, 2° comma, l'art. 41, 3° comma e l'art. 47 della
Costituzione, sicche la politica monetaria costituisce un aspetto
subordinato e servente rispetto alla politica economica che deve
perseguire gli obiettivi della qualita della vita e della qualita del
lavoro dei cittadini[37].
La Costituzione non persegue il fine di razionalizzare le
contraddizioni intrinseche del processo di accumulazione, ma fornisce,
in un'ottica piu avanzata ed autonoma, gli strumenti idonei a
proteggere i lavoratori dalle dinamiche distruttive dei mercati
finanziari e ad eliminare l'insicurezza dal loro futuro.
Si e stabilito, infatti, che la Repubblica deve disciplinare,
coordinare e controllare l'esercizio del credito e promuovere e
tutelare il risparmio popolare, orientandolo verso la realizzazione di
finalita sociali (artt. 41, 47 Cost.) e, quindi, di investimenti
produttivi capaci di accrescere la qualita dei rapporti sociali[38].
Il grado di civilta e di benessere di una comunita non e considerato
nei termini riduttivi del PIL, ma in relazione al pieno sviluppo della
persona umana, che puo esprimersi, soltanto, nell'ambito di un sistema
economico e sociale improntato a garantire il soddisfacimento dei
bisogni morali e materiali dei lavoratori (artt. 2 e 3, comma secondo,
Cost.).
Sulla base di questi principi, un vasto movimento di lavoratori ha
intrapreso, nella seconda meta degli anni sessanta, un ciclo di lotte
sociali per attuare il programma di trasformazione economico-sociale
recepito dalla Costituzione. La funzionalizzazione del capitalismo
monopolistico privato alle utilita sociali e la democratizzazione
degli apparati del "capitalismo di stato", costituirono gli
assi di una strategia che puntava ad emancipare la societa dal
giogo delle contraddizioni molteplici generate dal sistema
capitalistico[39].
La lunga stagione di lotte politiche e sociali fece
conseguire, ai cittadini-lavoratori, alcune conquiste significative
(introduzione delle Regioni; Statuto dei lavoratori; riforma
sanitaria; riforma della Rai) ed ha lasciato, comunque, le <tracce
di un disegno percorribile> di democratizzazione dello Stato e di
socializzazione dell'economia[40].
La dottrina sensibile ai principi costituzionali ed alle
rivendicazioni dei movimenti che ponevano esigenze di rinnovamento
sociale anche nel campo finanziario sostenne, in coerenza con il
disegno costituzionale e con la disciplina allora vigente, che le
attivita finanziarie, dei soggetti pubblici e privati, dovessero
essere inquadrate nell'ambito del governo democratico dell'economia
(art. 41, comma 3°, Cost.), in vista delle finalita di giustizia
sociale perseguite dalla Costituzione[41].
Il processo di attuazione della
Costituzione fu interrotto, tuttavia, da una serie di strategie che
indussero il movimento operaio a deviare dall' originaria
impostazione strategica[42]. Proprio al culmine della stagione
riformatrice venne sferrata, a livello nazionale ed internazionale,
una controffensiva diretta ad arrestare lo sviluppo della
democrazia-sociale.
Le premesse per un attacco organico alla
Costituzione possono essere rinvenute sia nel documento della
Commissione trilaterale (1975), sia nel documento della Loggia
massonica P. 2, che puntavano a diffondere l'ideologia della "governabilita"
funzionale alle esigenze di "stabilita" del sistema
capitalistico[43].
La prospettiva dell'europeizzazione e stata assunta,
inoltre, come motivazione per alterare il quadro dei principi relativi
alla "forma di governo" contenuti nella "seconda
parte" della Costituzione, anche se si perseguiva, in realta,
lo scopo di sostituire le norme della "prima parte" volte
alla socializzazione della proprieta e dell'impresa, con altre
improntate al primato dell' "economia" sulla "socialita".
L' obiettivo finale era quello di dare <preminenza al
ruolo della moneta e delle istituzioni che regolano il sistema dei
rapporti finanziari internazionali e nazionali>, al fine di
garantire uno sviluppo del sistema produttivo basato sulla autonomia
incontrollata dell'impresa[44].
I gruppi dirigenti del centrodestra e del
centrosinistra, astretti dal cemento del revisionismo ideologico,
puntano, oggi, a formalizzare, mediante il processo di revisione
costituzionale, un accordo perverso finalizzato a vulnerare i
fondamenti della forma di stato di democrazia-sociale ed a rendere
irreversibile quel sistema di rapporti politici "bipolari"
che, sin dagli anni ottanta, e stato utilizzato per alterare la
portata dei costituzionali "sostanziali" contenuti nella
"prima parte" delle Costituzione e per stabilire il primato
del "mercato", del "Pil", della "moneta"
e delle privatizzazioni". La strategia controriformatrice non
mira a cancellare le funzioni dello stato nell'economia, ma a
restituire allo stato <il ruolo di strumento degli interessi
atavici del capitalismo>[45].
Il loro obiettivo e quello di realizzare il
"bipolarismo" o il "bipartitismo" per omologare il
modello costituzionale italiano a quello degli altri Stati europei nei
quali i sistemi politici sono organizzati intorno a due schieramenti
("conservatore" e "progressista") che, pur
confliggendo per la "gestione" del potere, perseguono, in
nome del binomio "stabilita economica/stabilita di governo",
il medesimo fine di garantire la continuita del modo di produzione
capitalistico.
La cosiddetta sinistra "post-comunista" e
"post-socialdemocratica", rinunziando ad assumere una
posizione netta nella dialettica capitale-lavoro e facendo propria la
concezione del bipolarismo funzionale alla conservazione del sistema
capitalistico, ha abbandonato i lavoratori nelle spire di un
assistenzialismo subalterno agli imperativi del bilancio statale
gestito con i criteri privatistici della grande impresa[46].
Nella fase attuale, contrassegnata dagli effetti
devastanti della crisi globale, la risposta efficace ai problemi posti
dalla "stabilita destabilizzante" del modo di produzione
capitalistico non puo provenire, tuttavia, da un debole keynesismo[47],
ossia da un tipo di soluzione che si inserisce nella prospettiva
ambigua dell'"economia sociale di mercato".
Le contraddizioni strutturali del modo di produzione capitalistico non
possono essere risolte con la "regolamentazione" dei mercati
finanziari o con l'elaborazione di codici "etici" per
l'esercizio dell'impresa, ne con la nazionalizzazione temporanea delle
banche e delle assicurazioni.
Un generico intervento pubblico nell'economia non e mai mancato nelle
fasi di espansione e in quelle di crisi del processo di accumulazione,
ma si e sempre rivelato subalterno ai piani strategici dei
potentati economici ispirati alla filosofia della
"socializzazione delle perdite e della privatizzazione degli
utili".
Si dovrebbe affrontare, invece, la questione fondamentale relativa
alla natura, alla qualita ed ai fini dell'intervento pubblico
nell'economia e cercare di prefigurare il modello futuro di societa
che si vuole realizzare. Una indicazione feconda proviene, come
s'e detto, dalla Costituzione italiana che, attribuendo un ruolo
determinante ai poteri pubblico-sociali finalizzati al controllo del
sistema produttivo, delinea una concezione avanzata dei rapporti
economico-sociali.
Occorrerebbe riprendere, dunque, il filo di un discorso interrotto[48]
per rilanciare un processo di democratizzazione delle istituzioni
nazionali e sovranazionali e ripristinare un controllo politico e
sociale sui centri di potere economico che impongono un unico pensiero
ed un univoco modello di sviluppo.
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[1] Sulle ragioni per cui il (neo) liberismo, occultando le
connessioni tra lo stato e il sistema economico, si presenta come
espressione dei "meccanismi spontanei del mercato", cfr. A.
Burgio, Senza democrazia, cit., p. 95.
[2] F. Gabriele, Processi di decisione multilivello e governo
dell'economia: alla ricerca della sovranita economica, in AA.VV,
Governance dell'economia e integrazione europea. Processi di decisione
politica e sovranita economica, vol. I, a cura di F. Gabriele e M. A.
Cabiddu, Giuffre, Milano, 2008, p. 4, dopo aver rilevato che
l'espressione "governo dell'economia" non puo considerarsi
ideologicamente "neutra" ma "orientata", osserva
come lo Stato non si sia mai astenuto del tutto e come anche l'
"astensione" costituisca una forma di intervento,
<specialmente a favore dei soggetti piu forti>. Sul punto, cfr.,
altresi, C. P. Guarini, Contributo allo studio della regolazione
"indipendente" del mercato, Cacucci, Bari, 2005, pp. 48, 49.
Z. Bauman, Capitalismo parassitario, cit., pp. 24, 25, evidenzia come
la simbiosi tra Stato e mercato costituisca, nel sistema
capitalistico, la regola. Le politiche dello stato capitalista
"dittatoriale" o "democratico" vengono costruite e
condotte <nell'interesse, non contro l' interesse dei mercati> e
il loro effetto principale e quello di <avallare/consentire/garantire
la sicurezza e la longevita del dominio del mercato>.
[3] S. d'Albergo, Economicita e socialita nel diritto, in AA.VV., Il
governo dell'economia tra "crisi dello stato" e "crisi
del mercato", a cura di F. Gabriele, Cacucci, Bari, 2005, p. 219,
critica le sofisticazioni culturali che, nell'ultimo ventennio, sono
state utilizzate per legittimare l'adozione di soluzioni normative
dirette a fare del potere pubblico il luogo di una
"regolazione" dei rapporti economico-sociali e ritiene che
queste concezioni "neoliberiste" ripropongono la propensione
tradizionale alla protezione degli interessi economico-privati.
[4] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti
vecchi e nuovi, cit., pp. 9-11.
[5] E. Galli Della Loggia, Le elites in pericolo, cit., rileva come,
specie negli USA, si sia manifestato un indirizzo liberista
fondamentalista contrario al ritorno dell'intervento pubblico
nell'economia, sia pur finalizzato alla "socializzazione delle
perdite".
[6] Sul punto, cfr. F. Lordon, Il giorno in cui Wall Street divento
socialista, in Le Monde diplomatique, n. 10, ottobre 2008.
[7] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti
vecchi e nuovi, cit., p. 11; R.Rossanda, Ma quale Marx, in il
manifesto, 8 marzo 2009.
[8] Cfr. E. Alvater, Il capitalismo si organizza: il dibattito
marxista dalla guerra mondiale alla crisi del '29, in AA. VV., Storia
del marxismo, vol. III, t. I, Einaudi, Torino, 1980, pp. 850 ss.; W.
Schivelbusch, 3 New Deal, Tropea, Milano, 2008, pp. 165 ss., evidenzia
come i governi degli Stati Uniti di Roosevelt, dell' Italia di
Mussolini e della Germania di Hitler realizzarono, a prescindere dai
diversi livelli di repressione politica, un cambiamento storico di
portata epocale, ossia il passaggio dal "capitalismo
liberale" al "capitalismo di stato", con i suoi
elementi di assistenzialismo, pianificazione e direzione della societa.
[9] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti
vecchi e nuovi, cit., p. 12.
[10] Per un'analisi ancora attuale del totalitarismo, cfr. E. Lederer,
Lo Stato delle masse. La minaccia della societa senza classi, (1940),
a cura di M. Salvati, Bruno Mondadori, Milano, 2004. L'Autore
definisce la "dittatura moderna" come "stato delle
masse", ossia come un sistema politico imperniato sulla figura
del leader, sul partito, sulla milizia, sulle organizzazioni di massa
e su un potente sistema di propaganda, ossia su tutte le istituzioni e
le tecniche capaci di trasformare l'intero popolo in massa
"amorfa" e "istituzionalizzata" (pp. 20 ss.).
Sulla base di questo forte controllo della societa si sono dispiegate
anche le politiche economiche dello "stato-massa".
[11] Per un'acuta ricostruzione della crisi dello stato liberale e
della svolta totalitaria e dirigista, come risposta alla crisi, cfr.
D. Chirico, Profili dei rapporti tra potere politico e potere
economico nelle dinamiche dell'ordinamento costituzionale italiano,
Bonomo editrice, Bologna, 2008, pp. 108 ss.
[12] Per una puntuale ricostruzione dei passaggi di fase della
complessa strategia politica, giuridica ed istituzionale, che consenti
al regime fascista di garantire la sostanziale continuita con
l'ordinamento liberale e di porre l'impresa capitalistica al
<centro di ogni valore della vita sociale>, cfr. S. d'Albergo,
Prefazione, in Documenti del corporativismo fascista. Da Palazzo
Vidoni alla Carta del Lavoro, Laboratorio politico, Napoli, 1995, pp.
5, 6, 7. Per un'analisi critica di queste vicende, cfr. F. De Felice,
Lo Stato fascista, in AA.VV., Matrici culturali del fascismo,
Tipolitografia Mare S.n.c., Bari, 1977, pp. 35 ss.
[13] Sulle anologie e le differenze fra le forme giuridiche e le
strutture economiche degli "Stati d'eccezione"
(nazionalsocialismo tedesco; fascismo italiano) e quelle degli
"Stati interventisti" (Repubblica di Weimar; Stati Uniti di
Roosevelt), cfr. S. De Brunhoff, Stato e capitale, cit., p. 78. N.
Poulantzas, Fascismo e dittatura, Jaca Book, Milano, 1978, p.
337. Per una comparazione tra il "corporativismo fascista",
il "corporativismo democratico rooseveltiano" e l'odierno
neocorporativismo che continua ad essere caratterizzato
dall'interclassismo, dalla "collaborazione", dalla
"cogestione" e dalla subalternita alle strategie egemoniche
del capitale monopolistico finanziario transnazionale, cfr. G. Pala,
Le forme del corporativismo. Il neocorporativismo nelle diverse fasi
della crisi, in La Contraddizione, n. 10, 2004, pp. 41 ss. Sulla
nozione di corporativismo e sulle sue diverse accezioni, cfr. L.
Ornaghi, Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del
sistema politico contemporaneo, Giuffre, Milano, 1994.
[14] Sul tema, cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del
potere nell'ordinamento italiano, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 88,
90; D. Guerin, Fascismo e gran capitale, (1936), Erre emme, Roma,
1994, pp. 336 ss; P. Grifone, Il capitale finanziario, cit.
[15] F. De Felice, Lo Stato fascista, cit., pp. 46-47, valuta le
corporazioni nel quadro piu generale dell'organizzazione e del
controllo dell'intera societa in funzione dei settori dominanti.
L'Autore evidenzia come la via capitalistica di uscita dalla crisi del
'29 sia stata quella <di una riduzione della base produttiva e di
un ampliamento dell'apparato pubblico>. Questo ampliamento non si
tradusse soltanto in una maggiore accentuazione del ruolo dello Stato
nell'economia (mediante l' IRI e l' IMI), ma persegui il fine piu
ampio di estendere il controllo sull'intera societa per garantire che
l'intero processo di accumulazione potesse svolgersi in funzione degli
interessi dei gruppi dominanti della societa e dell'economia.
[16] G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del
corporativismo, Carocci, Roma, 2006, p. 22, 24, osserva come, negli
anni fra le due guerre, il corporativismo fascista conquisto una reale
attualita perche riusci ad inserirsi sia nel solco di una cultura
della collaborazione di classe e della pace sociale che era
all'ordine del giorno in Europa, sia nella crisi del sistema liberale
provocata dagli effetti della "grande crisi"
economica, che rilancio la questione della ricerca di un quid medium
tra gli opposti estremi del liberismo e della collettivizzazione
sovietica. Esso si prospetto come <"terza via" offerta
all' Occidente, sconvolto dal crollo del vecchio mondo e dei vecchi
valori>. Le ragioni del suo consolidamento sono, tuttavia,
impensabili <senza la crisi della societa liberale e l'obsolescenza
della sua visione dei rapporti sociali>. Il grosso della
pubblicistica corporativa si rivolse, del resto, contro l'ideologia
liberale assai piu che contro il socialismo teorico o il
"bolscevismo".
[17] Cfr. S. d'Albergo, Prefazione, in Documenti del corporativismo
fascista, cit., pp. 5, 6. F. De Felice, Lo Stato fascista, cit., pp.
35, 43, evidenzia come lo Stato fascista intervenne, con radicalita,
nel settore della disciplina dei rapporti di lavoro, perche in questo
ambito si era espresso l'antagonismo sociale, che aveva costituito la
ragione principale del crollo dello Stato liberale. Il modo in cui
l'Italia fascista affronto la crisi mondiale del '29 e del '30 e i
processi di ristrutturazione dell'economia, non sarebbe pensabile
senza la distruzione delle organizzazioni del movimento operaio
e senza la disciplina dei rapporti di lavoro, che consenti
all'economia fascista di svilupparsi con salari minimi.
[18] G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., pp. 11, 47, 48
osserva come il corporativismo fascista, al di la delle vaghe promesse
di "ibridazione" della rappresentanza, che avrebbero dovuto
essere realizzate mediante l'innesto del mondo del lavoro nel mondo
della produzione, assunse una forma autoritaria e, in seguito,
totalitaria. La sua visione si tradusse, quindi, nell'<esaltazione
della pace sociale imposta con la forza> (cfr., op. cit., p. 33).
[19] Cfr. G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., pp. 22, 23. D.
Guerin, Fascismo e gran capitale, cit., pp. 432, 435, definisce lo
Stato fascista una <dittatura militare-poliziesca al servizio del
grande capitale>, ma evidenzia come esso, pur piegando le masse,
riusci ad estorcere, mediante l'uso di espedienti ingannatori, la loro
adesione. Fra questi espedienti sono richiamati sia quelli di ordine
idealistico (la "mistica fascista"; il mito del
"capo"; l'educazione dei giovani), sia quelli di ordine
materiale (il massiccio riassorbimento della disoccupazione nel
settore delle opere pubbliche e degli armamenti; il controllo
dittatoriale sulle uscite di capitali e sul livello dei prezzi; le
gigantesche "opere sociali" volte ad assicurare svaghi
collettivi per i lavoratori).
[20] K. Polanyi, La liberta in una societa complessa, (1935), a cura
di A. Salsano, Bollati Boringheri, Torino, 1987, pp. 115, 116, rileva
come, nell'ordine strutturale della societa fascista, gli esseri umani
furono considerati <produttori e solo produttori>. I diversi
settori dell'industria - riconosciuti legalmente come
corporazioni dotate del privilegio di trattare i problemi economici,
finanziari, industriali e sociali - divennero <i depositari di
quasi tutti i poteri appartenuti, in precedenza, allo Stato
politico>.
[21] D. Guerin, Fascismo e gran capitale, cit., pp. 437, 438, riporta
la definizione di Radek secondo cui la dittatura fascista puo essere
paragonata a dei <cerchi di ferro> con i quali la borghesia
tento di <consolidare la botte sfasciata del capitalismo>. La
classe operaia, paralizzata dalle sue organizzazioni e dai suoi
dirigenti, non fu in grado, nella fase della crisi dell'economia
capitalistica, <di sostituire il socialismo al capitalismo
morente>. In tale contesto, il fascismo, pur promettendo
demagogicamente il riassorbimento della disoccupazione e la ripresa
delle attivita economiche, persegui l'obiettivo di ritardare, con
mezzi artificiali, <la caduta del saggio di profitto di un
capitalismo divenuto parassitario> e <di mantenere in vita
un pugno di magnati monopolisti e di grandi agrari>.
[22] G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., p. 10, osserva come
il fascismo tento, mediante le soluzioni corporative, di fornire
risposte ad uno degli interrogativi piu drammatici del tempo, ossia
quello che riguardava l'assetto complessivo di una societa che , da un
lato, non poteva piu fare affidamento sugli automatismi della
"mano libera" del mercato e, dall'altro, guardava con timore
alla soluzione collettivistica che prendeva corpo, con risultati
controversi ma sorprendenti, nell'Unione sovietica.
[23] C. Giorgi, The Origins and Development of the Welfare
States : democracies and Totalitarianisms Compared from an Italian
Point of View in Democracy and Social Rights in the Two Wests, Edited
by Alice Kessler-Harris and Maurizio Vaudagna, Otto editore, Torino,
2009, (di prossima pubblicazione), pp. 1 ss. (del dattiloscritto),
rileva come l'idea del corporativismo costitui il principale punto
d'incontro tra le elaborazioni fasciste e quelle dell'America di
Roosevelt. Nel dibattito dei primi anni trenta, il corporativismo
fascista e il New Deal furono considerati come <due modi simili di
affrontare la gravita della situazione creatasi con il crollo di Wall
Street>. L'Autrice, richiamando la riflessione gramsciana,
evidenzia come il regime fascista e il New Deal statunitense cercarono
di rispondere alla crisi dello stato liberale mediante una gestione
corporativa del conflitto, la programmazione dell'economia, la
concentrazione economica, la cartellizzazione, l'intervento
finanziario dello stato attraverso la creazione di nuovi enti,
l'aumento della spesa pubblica ed il suo dirottamento verso le
esigenze della produzione bellica
[24] Cfr. G. Santomassimo, La terza via fascista, cit., pp. 192, 208,
209, rileva come, nello stesso periodo storico si affermarono altre
culture ed esperienze che, pur prive delle caratteristiche totalitarie
ed imperialiste del fascismo, si posero nella prospettiva di una
"terza via", concertativa ed anticlassista, finalizzata al
superamento del liberalismo e del socialismo. Basti pensare, in
proposito, alle dottrine di stampo medievaleggiante nate
nell'ambito del pensiero sociale cattolico, agli indirizzi
socialdemocratici e alle esperienze del New Deal statunitense.
[25] Sul fascismo e
l'americanismo come "rivoluzioni passive", cfr. A. Gramsci,
Quad. 10 (XXXIII), 1932-1935, (41), in Id. Quaderni del carcere,
II, a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino, 1977, pp. 1324, 1325; Id.,
Quad. 10 (XXXIII), 1932-1935, (9), in Id. Quaderni del carcere,
II, cit., p. 1228; Id., Quad. 1 (XVI), 1929-1930, (135), in Id.
Quaderni del carcere, I, a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino,
1977, p. 125; Id., , Quad. I (XVI), 1929-1930, (60), cit., p.
72. Sul tema, cfr. C. N. Coutinho, L'epoca neoliberale: rivoluzione
passiva o controriforma?, in www. gramscitalia.it, pp. 1, 2, 5; D.
Guerin, Fascismo e gran capitale, cit., pp. 321-324.
[26] Cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere,
cit., p. 90.
[27] Cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere,
cit., pp. 93, 94.
[28] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti
vecchi e nuovi, cit., pp. 12, 13. Gli interventi pubblici che, oltre
ad aver mirato al sostegno dell'accumulazione capitalistica, hanno
puntato a garantire un parziale soddisfacimento dei "diritti
sociali", sono riferibili sia alle esperienze del welfare
state, sia alle esperienze del corporativismo fascista. Le basi
concettuali delle esperienze del corporativismo fascista possono
essere individuate nelle concezioni della cd. "sinistra
fascista" e, in specie, nelle teorizzazioni del filosofo Ugo
Spirito che, nel 1932, elaboro una singolare ipotesi di
"corporazione proprietaria". Le elaborazioni della
"sinistra fascista" riuscirono a trovare una pur fugace
realizzazione nella "socializzazione" delle imprese
effettuata, nel 1943, dalla "repubblica sociale italiana".
Sugli esiti della problematica "corporativa" di Ugo Spirito
e sulla radicalita "classista" di molte prese di posizione
di Berto Ricci divenuto simbolo di una "sinistra fascista"
confinante con l' "anticapitalismo", cfr. G. Santomassimo,
La terza via fascista, cit., pp. 12 ss. e 58 ss. Sull'inquietudine
manifestata dal grande capitale tedesco per il possibile prevalere,
nello Stato nazionalsocialista, di un indirizzo favorevole allo
"statalismo socialisteggiante" e sulle esplicite
rassicurazioni ricevute dai dirigenti del Terzo Reich, cfr. D. Guerin,
Fascismo e gran capitale, cit., pp. 376 ss.
[29] L. Villari, La
roulette del capitalismo, Einaudi, Torino, 1995, pp. 125, 128,
evidenzia come lo "stato sociale" possieda <anche
motivazioni conservatrici che si esprimono sia negli esiti politici
delle politiche keynesiane, sia nelle forme estreme di intervento
dello Stato, come la pianificazione nazista>.
[30] I riflessi delle questioni che sono state, precedentemente,
prospettate a proposito del costituzionalismo weimariano, del
"corporativismo fascista" e del dirigismo statunitense, sono
identificabili, nel diritto amministrativo italiano, attraverso
l'enucleazione del concetto di "diritto pubblico
dell'economia" risalente al contributo di Massimo Severo Giannini.
Una prospettiva teorica segnata, in modo centrale, dalla questione
della natura giuridica degli "enti pubblici economici" e dal
fenomeno delle "partecipazioni statali" come forma di
societa per azioni incardinate in "enti pubblici di
comando". Su questa problematica, cfr. G. Miele, La distinzione
tra ente pubblico e privato, in Riv. dir. comm., 1942; G. Arena, Le
societa commerciali pubbliche, Giuffre, Milano 1942; M. S.
Giannini, L'impresa pubblica in Italia, in Riv. delle soc., 1958; Id.,
Diritto pubblico dell'economia, il Mulino, Bologna, 1985; G. Guarino,
La programmazione economica e le imprese pubbliche. Il sistema
italiano delle PP. SS. in Scritti di diritto pubblico dell'economia,
II, Giuffre Milano, 1970; S.Cassese, Partecipazioni statali ed enti di
gestione, Comunita, Milano, 1962; S. d'Albergo, Le partecipazioni
statali, Giuffre Milano, 1960, Id. Il sistema positivo degli
enti pubblici nell'ordinamento italiano, Giuffre, Milano, 1969; Id.,
Impresa pubblica, (voce), in Noviss. Dig., vol. VIII, Utet,
Torino, 1982 ; G. Amato, Il governo dell'industria in Italia, il
Mulino, Bologna, 1972; F. Gabriele, In tema di nazionalizzazione e di
altre forme di intervento pubblico nell' economia in Foro amm., (parte
III), 1972.
[31] Cfr. S. d'Albergo, Economicita e socialita nel diritto, cit., p.
216.
[32] Sulla struttura contraddittoria della Costituzione di Weimar e
sull'inidoneita delle sue parti a realizzare una superiore unita, cfr.
C. Mortati, La Costituzione di Weimar, Sansoni, Firenze, 1946. Per una
interpretazione critica della nozione di "costituzione
economica", cfr. G. Azzariti, L'ordine giuridico del mercato, in
Id., Forme e soggetti della democrazia pluralista, Giappichelli,
Torino, 2000, p. 155; F. Cocozza, Riflessioni sulla nozione di
<costituzione economica>, in Dir. dell'econ., n. 1, 1992, p. 82;
M. Luciani, Economia nel diritto costituzionale, in Digesto delle
discipline pubblicistiche, vol. V, Utet, Torino, 1990, p. 378.
[33] Cfr. S. d'Albergo, Costituzione e organizzazione del potere
nell'ordinamento italiano, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 321, 322.
[34] Cfr. U. Carabelli, Europa dei mercati e conflitto
sociale, Cacucci, Bari, 2009, pp. 163 ss.
[35] Cfr. S. d'Albergo, La
democrazia politica economica e sociale tra potere e
<globalizzazione dell'economia>, in Fenomenologia e societa, n.
3, 1997, p. 23.
[36] Cfr. S. d'Albergo, Economia e diritto nella dinamica delle
istituzioni, in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Guarino, vol. I,
Cedam, Padova, 1998, pp. 805, 80; Id., Costituzione e organizzazione
del potere nell'ordinamento italiano, cit., pp. 321, 322.
[37] Cfr. U. Allegretti, Il governo della finanza pubblica, Cedam,
Padova, 1971, p. 80.
[38] Cfr. L. Vasapollo, La crisi del capitale, cit., pp. 367, 368,
369.
[39] Cfr. S. d'Albergo, La debacle del liberismo, dopo gli apologeti
vecchi e nuovi, cit., pp. 9, 13.; L. Cavallaro, Come nacque e come
mori il conflitto di classe in Italia, in Alternative per il
socialismo, n. 7, ottobre-dicembre, 2008, pp. 147, 148, 149.
[40] Cfr. S.
d'Albergo, Economia e diritto nella dinamica delle istituzioni, in
Scritti in onore di Giuseppe Guarino, vol. I, Cedam, Padova, 1998, p.
807.
[41] U. Allegretti, Il
governo della finanza pubblica, cit., 17, 244-245.
[42] Sul vasto movimento che, nel periodo 1968-1977, ha
rivendicato l'attuazione del programma di trasformazione
economico-sociale recepito dalla Costituzione, nonche sulle forze che
hanno operato per deviarlo dalla sua originaria impostazione
strategica, cfr. S. d' Albergo, Economia e diritto nella
dinamica delle istituzioni, cit., pp. 795 ss.; G. Ferrara,
Istituzioni, lotta per l'egemonia e sistema politico, in Id., L'altra
riforma nella Costituzione, manifestolibri, Roma, 2002, p. 119.
[43] Cfr., sul tema, S.
d'Albergo, La Costituzione del 1948 tra revisionismo storico e
revisionismo giuridico, in La Contraddizione, n. 106, 2005, pp. 21 ss;
G. Ferrara, La mutazione del regime politico italiano, in
Costituzionalismo.it, 3/2008; Id., Lo <Stato pluriclasse>: un
protagonista del <secolo breve>, in AA. VV., Dallo Stato
monoclasse alla globalizzazione, a cura di S. Cassese, G. Guarino,
Giuffre, Milano, 2000, p. 98.
[44] Cfr. S. d'Albergo,
Costituzione e organizzazione del potere, cit., pp. 324, 325.
[45] Cfr. S. d'Albergo, Verso il
baratro. Dalla "transizione" alla "repubblica
monarchica", in La Contraddizione, n. 121, 2007, p. 21.
[46] Cfr. S. d'Albergo, La democrazia
sociale tra rilancio e delegittimazione, in S. d'Albergo, A. Catone,
Lotte di classe e Costituzione. Diagnosi dell'Italia repubblicana, La
citta del sole, Napoli, 2008, pp. 151, 174, 177; Id., La debacle del
liberismo, in La Contraddizione, n. 125, 2008, p. 14; G. Bucci,
Stato democratico-sociale e <bonapartismo mercatista>, in
Scritti in onore di Lorenza Carlassare, cit., vol. V,
pp. 1828, 1845.
[47] L. Villari, La roulette del capitalismo, cit., p. 128, rileva
come la teoria scientifica keynesiana e le sue forme storiche
<contengano la perennita del capitalismo e "la riconquista dei
vantaggi tradizionali dell'individualismo">. J. Halevi,
Stagnazione e crisi: USA, Asia Nippo-Americana e Cina, in AA. VV.,
Lavoro contro Capitale, Jaca Book, Milano, 2005, p. 196, sostiene che
e insensato propugnare, nell'epoca attuale, il ritorno a Keynes per
fronteggiare la <stagnazione mondiale>. Le classi
dirigenti dei paesi capitalistici accettarono alcuni aspetti del
keynesismo, <fintantoche i maggiori gruppi economici puntarono a
realizzare uno sviluppo nazionale>, mentre, a partire dalla fine
del sistema monetario internazionale postbellico, il keynesismo si e
manifestato, esclusivamente, in modo bellico e sotto la direzione
degli USA. Specie da Reagan in poi, <il keynesismo militare USA>
si e basato <sull'accentuazione dei conflitti
intercapitalistici>, sicche lo spazio per politiche keynesiane
globali appare inesistente. M. Donato, Questo non e un titolo tossico,
cit., p. 36, rammenta come la crisi degli anni '30 sia stata
superata con la seconda guerra mondiale e non con <il keynesismo di
Roosevelt> e come il capitalismo, nella fase imperialista, abbia
superato le crisi soprattutto mediante la guerra. Sul tema cfr.,
anche, A. Burgio, Senza democrazia, cit., pp. 91 ss., 159 ss.
Sull'aumento della spesa militare mondiale e sulla corsa agli
armamenti nell'attuale fase di crisi economica, cfr. M. Dinucci, Corsa
al riarmo. Al primo posto USA e Nato. Ma anche l'Italia:, in il
manifesto,18 marzo 2009; A. Dakli, La vera misura anticrisi di
Medvedev: il riarmo, in il manifesto, 18 marzo 2009; G. Marcon, M.
Paolicelli, Il riarmo per uscire dalla recessione, in il manifesto, 25
marzo 2009; J. Feffer, Battaglia nel pacifico. Una sfida per il
dominio sul "lago americano", in il manifesto, 27 marzo
2009; S. Pieranni, Il riarmo cinese allarma il Pentagono, in il
manifesto, 27 marzo 2009.
[48] U. Allegretti, Il governo della finanza pubblica, cit.; U. Mattei,
Piccole apocalissi, cit., evidenzia la necessita di rilanciare la
prospettiva del "governo democratico dell'economia"
sperimentato, in Italia, negli anni settanta. La via di uscita dalla
crisi viene individuata nella elaborazione di un piano finalizzato a
ripristinare il primato del sociale rispetto alle strategie predatorie
dei grandi gruppi di imprese finanziarie ed industriali. Sulla
necessita di ricostruire gli strumenti di politica economica
collettiva smantellati in trent'anni di privatizzazione economica e
istituzionale, cfr. A. Burgio, Senza democrazia, cit., p. 261. Sulla
necessita di rilanciare i grandi obiettivi dell'autogoverno dei
produttori e della pianificazione dell'economia, cfr. V. Giacche, Karl
Marx e la crisi del XXI secolo, cit., p. 52; A. Minucci, La crisi
generale tra economia e politica, cit., p. 26. Sul punto,
cfr., altresi, L. Michelini, La fine del liberismo di sinistra,
1998-2008, Il Ponte Editore, Firenze, 2008, p. 75.
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