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7Luglio 1962

i fatti di Piazza Statuto (Torino)

operai contro...


Ringraziamo i compagni comunisti internazionalisti milanesi per averci inviato un loro autonomo contributo di analisi stilato dal loro gruppo politico sui fatti che  tanto influirono sull'evoluzione della componente operaista all'interno dei movimenti anticapitalisti ed extraistituzionali in Italia. Come ricordato altre volte la Redazione pubblica testi simili senza censura alcuna, senza che questo significhi identità di vedute, ed invita chiunque abbia materiali di analisi storica dei movimenti di inviarceli e noi li pubblicheremo

La redazione dell'Archivio storico Benedetto Petrone


             EVVIVA I TEPPISTI DELLA GUERRA DI CLASSE!

Analisi dei     Comunisti Internazionalisti 10 giorni dopo gli avvenimenti di piazza statuto del 7Luglio 1962
                             

Fonte:  "Il programma comunista" n. 14 del 17 luglio 1962
 Abbasso gli adoratori dell'ordine costituito!





Non è
mai avvenuto, nella storia del movimento operaio, nemmeno nei periodi di più
vile opportunismo di partiti e sindacati, che gli operai che insorgono contro
le sopraffazioni del capitale e dei suoi lacchè, e che, ricorrendo all'arma
dello sciopero, non dimenticano che questo è appunto un'arma, un'arma di guerra
sociale, fossero bollati come "teppisti" e come "provocatori" da quelli che
sconciamente pretendono di rappresentarli.

I peggiori riformisti potevano
deplorare gli "eccessi" ai quali, secondo loro, gli scioperanti si
abbandonavano; ma era prassi corrente, alla quale essi stessi si inchinavano,
che lo sciopero fosse non già l'innocua manifestazione aziendale, simile a una
festa di parrocchia, alla quale oggi lo si vorrebbe ridurre, ma una franca e
decisa battaglia dilagante dalle fabbriche nelle vie e nelle piazze, mentre per
i comunisti che portavano questo nome non per forza di inerzia storica ma per
milizia vissuta, il dilagare dello sciopero dai limiti aziendali e il suo
scontrarsi come episodio della guerra di classe nelle forze dell'ordine non
solo erano scontato, ma salutato con entusiasmo come un fatto sociale fecondo,
perché spezzava le barriere delle convenzioni e delle gerarchie stabilite e
poneva anche la più modesta battaglia rivendicativa al centro di un più vasto
gioco di azioni e reazioni sociali, in cui non una singola categoria operaia ma
l'insieMe dei proletari erano inevitabilmente travolti e recitavano, volenti o
nolenti, il ruolo di protagonisti, scrollando dal sonno i dormienti, abbattendo
i confini fra settore e settore, opponendo in forma netta e irrevocabile classe
contro classe.

Era il risveglio della "santa canaglia", e canaglia era un
titolo onorifico, così come oggi teppismo è un titolo di disprezzo; e i
combattenti oscuri di queste battaglie aperte erano esaltati e contrapposti al
marciume dei crumiri e dei "lavoratori in colletto duro", così come oggi si
pretenderebbe che i proletari fossero tutti in colletto duro, crumiri anche
quando scioperano, per distinguersi dalla "teppa" dei veri, autentici
scioperanti.

Torino proletaria, che i partiti del più sconcio tradimento si
sono precipitati a battezzare "teppista" con un servilismo di fronte al quale i
vecchi arnesi del riformismo diventano rispettabili, ha fatto né più né meno
quello che una tradizione non imbelle insegnava: ridestatasi dal lungo sonno
del paternalismo vallettiano e del costituzionalismo e legalitarismo sindacale
e politico dei partiti della convivenza pacifica, della democrazia, e imboccata
la via dello sciopero, essa è balzata d'un salto - come gia negli episodi della
Lancia e della Michelin - al disopra di un trentennio di pacifismo sociale, ha
ridato sangue e vita al motto marxista che lo sciopero è la "scuola di guerra"
del proletariato, non una festa patronale o una celebrazione patriottica.


Violenza? Certo: non era stata violenza la firma, da parte di due sconce
organizzazioni cosiddette operaie, di un contratto separato forcaiolo? Non è e
non continua ad essere violenza lo sfruttamento al quale sono sottoposte le
masse che affluiscono nel grande centro industriale dalle campagne e dal Sud,
tallonate da una miseria che lo stamburamento degli "aiuti alle aree depresse"
e de1le Casse del Mezzogiorno rende ancora più amara, per un salario miserabile
e duramente sudato da consumare nelle bidonvilles del neo-capitalismo, fra il
disprezzo venato di razzismo dei borghesi locali (torinesi o milanesi)
"evoluti" e degli incipriati figli di papà?

E' vano il tentativo, nel quale la
stampa e i partiti della costellazione democratica si lanciano concordi, di
separare come due fatti diversi e contrastanti lo sciopero della Fiat e gli
"incidenti" di Piazza Statuto: il primo sedicentemente pacifico, rispettoso
della legalità, in frac e sparato bianco, manifestazione di "coscienza
democratica" e di rispetto della legge: il secondo sconciamente piazzaiolo
(secondo la versione ufficiale proclamata da tutti) e teppista. I proletari
torinesi - è il loro vanto - si sono mossi dal primo fino all'ultimo momento su
un terreno di guerra di classe, davanti alla fabbrica e fuori: lungi dal
mendicare il riconoscimento del "diritto di sciopero", se lo sono preso, questo
diritto, con la forza, e lo hanno affermato come dovere! I cronisti, arrivati
buoni ultimi e d'altronde consapevoli delle 1eggi del mestiere, si sono
sbizzarriti a dipingere i fatti di piazza Statuto: nessuno ha descritto
l'atmosfera di tempesta davanti ai cancelli della Fiat; nessuno ha parlato
degli operai di altre fabbriche che accorrevano per una solidarietà istintiva
non solo ad aiutare i fratelli finalmente in lotta, non solo a rincuorarli, ma
a premere perché entrassero in lotta e poi non mollassero, né dello
schieramento dei proletari decisi a picchettare gli stabilimenti gettando
intorno ad essi una rete di corpi umani attraverso la quale nessun "colletto
duro" potesse filtrare; nessuno ha fotografato l'immagine in carne ed ossa
della divisione della società in classi inconciliabili nei viali alberati del
paradiso neo-capitalistico di Valletta, una marea di proletari coi pugni
serrati da una parte, le forze d'ordine e i pompieri sindacali, gli uni e le
altre impotenti, dall'altra.

Non c'era il "dialogo", non c'era la "pacifica
discussione di problemi di categoria", c'era battaglia, muta ed imperiosa. Non
c'era divisione fra proletari "interessati alla vertenza" ed "estranei": erano
proletari senza etichetta di dipendenza da nessun padrone, con la sola e
gLoriosa qualifica di sfruttati in lotta aperta contro gli sfruttatori. Per la
morale e la convenzione borghese erano, certo, dei teppisti: chi si rifiuta di
subìre servilmente i soprusi di una società che è una provocazione continua è,
per definizione, il rappresentante della feccia. Per noi, alla Mirafiori o alla
Lingotto come a Piazza Statuto, erano la santa canaglia. Sorprese,
disorientate, le forze dell'ordine si affidavano ai buoni uffici dei pompieri e
dei conciliatori, quelli che per somma ironia si chiamano gli "attivisti" del
PCI, del PSI, della CGIL, della CISL: sembrava loro che tutto dovesse finire
lì, sul posto e in una rapida sfuriata, certo deplorevole ma inevitabile e
forse salutare, come un febbrone che prelude al ritorno della normalità fisica
e psichica.

Non fu così. La furia dilagò nelle strade e nelle piazze e,
com'era nella sua logica di fatto sociale creativo, trascinò con sé i proletari
di tutte le categorie, gli sfruttati di tutte le denominazioni, gli schiavi del
miracolo economico, i beffati e gli irrisi della convivenza pacifica. Per
un'inconsapevole ironia, essi si concentrarono in Piazza dello Statuto: certo
involontariamente, scelsero a teatro della loro collera un "campo di battaglia"
intitolato alla prima costituzione borghese italiana madre della più recente,
quella che essi avrebbero dovuto e dovrebbero rispettare con affetto filiale,
secondo le direttive della CGIL, con "unità e disciplina democratica"
(comunicato della Camera confederale del 7 luglio, dopo gli avvenimenti). E
qui, a sentire la stampa borghese, sarebbe avvenuto qualcosa come 1'apocalissi,
il giorno del giudizio, il diluvio universale.

Santa ipocrisia borghese! I
popolani delle Cinque Giornate milanesi sradicarono ben altro che cubetti di
porfido e gli equivalenti di allora dei paletti segnaletici di oggi, infransero
ben altro che vetri e cristalli, usarono ben altro che temperini o bastoni;
fecero le barricate: per l'ideologia corrente, trattandosi di una battaglia
risoltasi a favore della nazione e della nascente borghesia italiana, furono
degli eroi. I proletari torinesi che si battevano contro il nemico nazionale di
classe sono dei teppisti; essi che - troppo miti, troppo generosi - non
tentarono nemmeno di erigere una barricata. Nel '48 nazionale e borghese la
"teppa" è salutata, blandita e coccolata, fin che fa comodo e salvo le
successive repressioni: nel '62 proletario diviene, logicamente, il mostro che
leva la sua testa immonda!

E giù fiumi di retorica scandalizzata. "I più non
erano metallurgici": come se i proletari non metallurgici non soffrissero sotto
lo stesso giogo degli altri! "La manifestazione doveva essere semplicemente
sindacale": come se esistesse lotta sindacale che non fosse lotta politica!
"C'erano in mezzo dei pregiudicati": come se l'enorme maggioranza degli
sfruttati non avesse conosciuto la giustizia almeno per... un furto di gallina,
e come se l'enorme maggioranza degli agghindati osservatori borghesi avesse la
fedina pulita o almeno (poiché la fedina è elastica come la giustizia di
classe) la coscienza netta! "Erano giovani": come se non toccasse appunto ai
giovani di dare ai vecchi le braccia muscolose e il cuore intatto, ch'essi più
non hanno! Sotto sotto, corre pure una vena sprezzante di razzismo nuovo
modello: "i soliti terroni"; figurarsi, non sanno nemmeno fare la loro firma e
al processo è tanto se mostrano di sapere il loro nome e luogo di nascita, come
chi dicesse "i soliti negri", che poi nella stampa "d'alto livello" diventano
gli incolti, gli ineducati, quelli che non hanno avuto la fortuna di andare a
scuola, i non ancora castrati dalla cultura ufficiale e dal galateo, gli uomini
dalla fronte bassa e dal coltello a serramanico.

Dopo la retorica, i processi
per direttissima e le condanne di proletari che non solo i cosiddetti
rappresentanti operai non hanno difeso, ma hanno ignobilmente sconfessato.


Erano, ecco tutto, dei proletari autentici, dei senza riserve. Chi li aveva
"organizzati"? Si erano organizzati da sé. La "coscienza borghese" non potrà
ammettere mai che gli incolti, i diseredati, gli straccioni, sappiano
difendersi e sappiano attaccare con una loro strategia istintiva, fatta di una
solidarietà che lo stesso sistema di produzione borghese, contro voglia e
contro ogni suo desiderio, crea e cementa in loro: non possono accettare l'idea
che come per un improvviso fenomeno di liberazione di una forza compressa che
trova la sua strada per erompere, quel fenomeno sul quale i grandi militanti
rivoluzionari - i Lenin, i Trotskij, la Luxemburg - costruirono non soltanto
gigantesche teorie; quell' "assalto al cielo" che Marx esaltò e che è la grande
forza della storia e, che è la stessa cosa, della rivoluzione. I proletari
scoprano dentro di sé quelle risorse incorrotte di combattività organizzata, di
solidarismo istintivo, di abilità e perfino di astuzia nel dirigersi, che hanno
sempre fatto la croce delle classi dirigenti e che sono sempre stata la grande
forza, la sola forza, degli oppressi, sotto qualunque regime di classe. Per i
borghesi, i proletari possono soltanto muoversi come un gregge: se il loro
movimento ubbidisce a una logica, a un metodo, perfino ad una strategia,
bisogna che ci sia in mezzo a loro qualcuno, e il "qualcuno" per gli idealisti
borghesi può essere soltanto l'organizzatore uscito dalle scuole di partito, il
provocatore formatosi all'alta accademia della polizia, magari il gesuita
travestito. Chi aveva "organizzato", per restare negli esempi della storia
borghese, i popolani e le popolane del 14 luglio francese? Chi - per passare
agli esempi nostri - aveva organizzato i proletari del quartiere di Vyborg o di
Cronstadt nel 1905 e nel febbraio 1917? O la gloriosa canaglia della Comune
parigina o berlinese?

Nessuno li aveva organizzati: appunto perciò si erano
organizzati da sé. Nessuno era disposto a proteggerli: perciò si difesero.
Nessuno ordinava loro di attaccare: ordinarono a se stessi di farlo. C'erano,
al contrario, Coloro che, come si vanta la famosa "federazione giovanile
torinese del PSI)) descritta come... estremista, "tentavano di porre ordine
invitando alla calma" mentre la polizia caricava: li picchiarono, come sempre,
in un secolo e più di battaglie di classe, si sono trattati i cani da guardia
del padrone.

Non erano soltanto metallurgici: certo, tutti i proletari avevano
capito che in quei giorni si giocava il comune destino di ogni sfruttato. Non
erano sempre in regola con la giustizia: per definizione, i proletari non sono
mai in regola con la giustizia, se non si lasciano pecorescamente sfruttare.
Erano straccioni: certo, li avete resi straccioni voi. Erano incolti: è proprio
il fatto che non abbiano digerito la vostra cultura da chierichetti e da
macellai che li rende la classe levatrice della storia, come rese tali i
sanculotti che voi esaltate solo perché vi prepararono, inconsciamente, la
tavola imbandita di due secoli di banchetti.

C'era un provocatore, in mezzo a
loro? Certo, ma questo provocatore si chiama la società borghese, il capitale e
i suoi sgherri, la vendita quotidiana di forza-lavoro, l'estorsione quotidiana
di lavoro non pagato, l'inganno della "libertà di lavoro" e della "libertà del
cittadino", la beffa dell'eguaglianza per tutti la menzogna della democrazia e
delle riforme, la realtà del miracolo economico che è, per i proletari,
sinonimo di lacrime, sudore e sangue. Tutto questo li ha spinti, giovani prima
e vecchi lietamente poi, meridionali e piemontesi infine uniti!

Falso che li
abbia mobilitati il PCI: esso sogna il pacifico viale che conduce non al
socialismo, ma alla più miserabile versione dei capitalismo in termini
economici, e della democrazia in termini politici. Sciocca, e peggio, infine
l'accusa che li abbia mobilitati Valletta: egli non paga nulla, egli si fa
pagare profumatamente l'appoggio al governo di centro-sinistra; intasca, non
sborsa. Contro costoro e contro tutto lo schieramento del conformismo
democratico, si sono battuti gli operai, e non ci fu neppure bisogno che gli
dessero l'imbeccata quei "quattro gatti" che sono i rappresentanti fisici di
correnti rivoluzionarie (oggi è venuto di moda tirar fuori ad ogni piè
sospinto, secondo come gira, o gli anarco-sindacalisti, o noi
internazionalisti, o tutti due insieme mescolati e confusi nella stupefacente
ignoranza dei coltissimi e degli intelligentissimi); bastò ad ispirarli, questo
sì - e bisogna gridarlo alto e con fierezza - la tradizione accumulata in più
di un secolo di lotta non codarda, di predicazione non vile, di battaglia
politica, ideologica e organizzativa a viso aperto, che ha come punto di
partenza il Manifesto e faro più vicino ma non ultimo l'Ottobre Rosso. Se
questa tradizione viva nella memoria subconscia non degli individui ma della
classe, e richiamata alla coscienza dalla lotta aperta e dalla sofferenza; se
questa tradizione è teppista, è un retaggio da teddy-boy, ebbene, noi siamo
pronti a dire con fierezza: viva i teppisti, viva i teddy-boy! Se noi che
battiamo quotidianamente sul chiodo di un metodo di lotta che gli operai, nella
grandi svolte ritrovano da sé, siamo "provocatori", ebbene; siamo pronti a
gridare: viva i provocatori! Se poi, oggi, questa furia "teppista" possiamo
solo esaltarla contro tutti, non dubitate: ci prepariamo a dirigerla!

La
collera proletaria si è scatenata a Torino (e si è scatenata in una misura che
è solo, pur-troppo, un millesimo di episodi gloriosi del passato, perfino del
passato torinese: 1917! 1920!); per tutta risposta, i partiti e le
organizzazioni che si dicono operaie hanno gridato, con una precipitazione
degna soltanto di lacchè gallonati, allo scandalo. Apriamo le pagine del
vecchio Marx nell'Indirizzo 1850 del Comitato Centrale della Lega dei
Comunisti:

"Ben lungi dall'opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta
popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro
che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne
deve prendere in mano la direzione".

I cosiddetti comunisti e socialisti di
oggi non solo non ne hanno preso in mano la direzione (il che era escluso in
partenza), ma si sono opposti agli "eccessi" perfino quando erano modesti
sfoghi di collera santa - e li hanno sconciamente deplorati: pochi giorni dopo
sedevano al tavolo delle trattative con la stessa UIL e con lo stesso padronato
contro i quali si era diretta la furia proletaria. Cada sui "deploratori", sui
costituzionalisti, sugli esperti in denunzie alla polizia e alla giustizia, il
disprezzo e la maledizione di tutti gli sfruttati.
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mercoledì, 06 luglio 2005....reprint. luglio 2009
dal blog:  http://lotteoperaie.splinder.com/    contro la schiavitù salariale

La rivolta operaia di piazza Statuto del 1962


 
 
  
 

 
Torino: il 7 luglio 1962,
la Fiom e la Fim cittadine proclamano uno sciopero di tutti i
metalmeccanici torinesi, a sostegno della lotta alla Fiat, iniziata a
giugno.

Lo
sciopero riesce in pieno. "All´esterno di Mirafiori e di altre
fabbriche vi furono violenti scontri dopo che i picchetti, bloccate le
entrate, rovesciarono delle macchine e picchiarono alcuni dirigenti
senza che la polizia riuscisse a controllare la situazione. Nel corso
della mattinata si sparse la voce che la Uil e la Sida, il sindacato
"giallo" padronale, avevano raggiunto un accordo separato con la
direzione Fiat: in seguito a ciò 6-7.000 operai, esasperati da questa
notizia, si riunirono nel pomeriggio in piazza Statuto di fronte alla
sede della Uil. Per due giorni la piazza fu teatro di una straordinaria
serie di scontri tra dimostranti e polizia: i primi, armati di fionde,  bastoni,
e catene, ruppero vetrine e finestre, eressero rudimentali barricate,
caricarono più volte i cordoni della polizia; la seconda rispose
caricando le folle con le jeep, soffocando la piazza con i gas
lacrimogeni, e picchiando i dimostranti con i calci dei fucili. Gli
scontri si protrassero fino a tarda sera, sia sabato 7 che lunedì 9
luglio 1962. Dirigenti del Pci e della Cgil, tra i quali Pajetta e
Garavini, cercarono di convincere i manifestanti a disperdersi, ma
senza successo. Mille dimostranti furono arrestati e parecchi
denunciati. La maggior parte erano giovani operai, per lo più
meridionali.
Il Pci è
colto di sorpresa da questa radicalità che non riesce a controllare, e
l´Unità del 9 luglio definirà la rivolta "tentativi teppistici e
provocatori", ed i manifestanti "elementi incontrollati ed esasperati",
"piccoli gruppi di irresponsabili", "giovani scalmanati", "anarchici,
internazionalisti". I Quaderni Rossi (Panzieri, Tronti, Negri),
dal canto loro, giudicano gli scontri di piazza una "squallida
degenerazione" di una manifestazione di protesta operaia, ma si
guardano bene dal tacciare i manifestanti come "provocatori e
fascisti", così come li aveva presentati la sinistra ufficiale.


 La
rivolta di piazza Statuto segna per la prima volta l´emergere nella
lotta di classe dell´operaio massa, come risulterà al processo dove due
terzi degli imputati per le violenze di strada saranno giovani
immigrati meridionali. La figura dell´operaio-massa emerge in modo più
netto e preciso che durante la rivolta di Genova del `60, della quale
era stata protagonista un soggetto più genericamente giovanile, "i
giovani dalle magliette a strisce", e il nuovo soggetto operaio nato in
questi primi anni ´60 sarà una delle figure sociali protagoniste delle
lotte degli anni `70. A livello politico, la rivolta di piazza Statuto
segna sia il distacco definitivo tra i Quaderni Rossi e la Fiom e il
Pci, sia una divergenza all´interno dello stesso gruppo dei Quaderni
Rossi: da una parte chi vuole continuare il lavoro di analisi e lo
considera predominante rispetto al lavoro direttamente politico
(Panzieri), dall´altra chi (Tronti, Negri, Asor Rosa) vuole arrivare
immediatamente a soluzioni politiche e organizzative. Questi ultimi
daranno vita alla rivista Classe Operaia[1].
La rivolta operaia di Torino, provocherà, inoltre, nelle fila internazionaliste (Programma comunista)
una tensione crescente tra chi insisterà a restare aggrappato alla
"difesa e alla restaurazione del programma" e chi, invece, cercherà di
legarsi al movimento reale di lotta; tensione che sfocerà, nel novembre
1964, nella scissione di Rivoluzione comunista.
Vedi sopra. anche: EVVIVA I TEPPISTI DELLA GUERRA DI CLASSE!

Fonti:
-         D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Milano, 1979.
-         Il ghiaccio è rotto: cronaca dettagliata della lotta alla Fiat (estate 1962).




[1]
Nella rivista Classe Operaia l´analisi concreta delle condizioni di
vita e di lavoro della classe operaia e dei rapporti sociali in
fabbrica e nella società  viene trascurata, costruendo un´immagine
mitologica della classe operaia (la "rude razza pagana") come entità
immateriale e onnipotente, sempre sull´orlo di prendere il potere.