articolo inviatoci dal
CIRCOLO
DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO
VIA
STOPPANI,15 -21052 BUSTO ARSIZIO -VA-
(Quart.
Sant´Anna dietro la piazza principale)
e-mail:
circ.pro.g.landonio@tiscali.it
Armistizio
tra Italia ed Austria - 1° guerra mondiale 1915-1918 -
CAPITALISMO
È GUERRA
È
universalmente noto che le guerre non sono un fenomeno tipico,
esclusivo soltanto della nostra epoca storica. Le guerre vi sono state
anche prima dell'avvento del capitalismo e hanno contrassegnato più o
meno profondamente altre epoche, molto lontane dalla presente.
Non è
nostro intento svolgere qui l'analisi storica delle guerre in
generale. Vogliamo soltanto accennare alle guerre che nascono nel
regime capitalistico di produzione. Vogliamo, particolarmente, mettere
in luce le radici economiche profonde, che le generano, con lo scopo
eminente di svergognare il pacifismo gesuitico dei falsi
"comunisti" e di ribadire nel contempo la necessità
assoluta di distruggere il capitalismo per ottenere la pace nel mondo.
L'attuale
sistema è basato sull'ineguale sviluppo economico. Un profondo
divario marca produzione e consumo e singoli settori della produzione
fra di loro; ai singoli rami; fino a toccare le unità elementari del
sistema, le aziende singole fra di loro.
Quando
questo divario raggiunge un grado elevato esplode la crisi
nell'industria e la guerra nella politica. Accumulazione,
sovrapproduzione, crisi, guerra, sono fasi essenziali e cruciali del
processo di produzione capitalistico. La guerra è una di queste fasi:
un elemento inseparabile del processo d'insieme del capitalismo; una
sua manifestazione tipica, ineliminabile.
Non è
perciò disdegnando moralisticamente la guerra o predicando
sentimentalisticamente la pace, che le guerre possono essere evitate o
superate.
Ai
giorni nostri i signori "comunisti" pacifisti fanno un
chiasso assordante contro la guerra, come se si trattasse di
"soffocarla" col baccano. E sventolano la bandiera più
falsa e ipocrita, che ci sia, sulla quale hanno scritto: "Il
movimento operaio e comunista internazionale è sempre stato per la
pace e contro la guerra".
Questi
imbroglioni che tutto mescolano e tutto confondono (Gesù Cristo con
Carlo Marx, la democrazia con la rivoluzione, il capitalismo con il
comunismo); questi emeriti imbroglioni capovolgono e mistificano ogni
più semplice e chiaro concetto comunista! Che significa dire che i
comunisti sono stati sempre per la pace contro la guerra? Che razza di
affermazione è mai questa? I comunisti degni in questo nome
respingono in modo categorico una simile panzana, una simile frode.
I
comunisti sono per il comunismo. Non sono per la pace e contro la
guerra, che in sé e per sé non rappresentano né un obbiettivo, né
tanto meno uno scopo. E ciò per la semplicissima ragione che tanto
l'una quanto l'altra non hanno rilievo autonomo, ma dipendono
strettamente dal dato sistema economico e sociale. E' una clamorosa
bugia l'affermazione che il "movimento comunista internazionale
è stato sempre per la pace e contro la guerra". Il Partito
rivoluzionario del proletariato invece, da quando è nato fino a oggi,
non è mai stato e non sarà mai, per principio, contro la guerra, a
favore della pace sempre e dovunque.
I
"comunisti" pacifisti anche se storcono cinicamente le cose
e le presentano capovolte e in modo da carpire il sentimento spontaneo
di repulsa alla guerra, non possono sfuggire lo stesso al marchio
disonorante di rinnegati e di venduti alla borghesia.
Il
comunista autentico è nell'attuale regime un antipacifista per
eccellenza.
Primo.
Esso è per la guerra sociale, per il rovesciamento del capitalismo.
Secondo.
Il comunista vero distingue tra guerra e guerra. Vi sono infatti
guerre rivoluzionarie e vi sono guerre conservatrici. Le prime sono
utili e giuste. Si debbono appoggiare e fare. Le seconde invece sono
reazionarie. Si debbono avversare e sabotare. Facciamo un esempio.
Prendiamo le guerre di indipendenza che l'Italia dovette fare nel
secolo scorso prima di costituirsi in Stato unitario, per potersi
liberare dal giogo della dominazione austriaca. O ciò che è lo
stesso, prendiamo le guerre di liberazione che i paesi coloniali e
oppressi combattono in questo secolo contro le potenze imperialiste.
Ebbene queste guerre sono progressive. Sono giuste. Di fronte a esse
non si può essere per la pace, non si può essere pacifisti. Nessun
borghese, anche il più pacifista mette in dubbio il carattere giusto
delle guerre di indipendenza. Quelli che nel secolo scorso avversavano
la guerra di indipendenza in nome della pace sociale erano smaccati
sostenitori dei privilegi feudali e aristocratici, erano borghesi
reazionari. Prendiamo ora le due guerre di questo secolo, la prima e
la seconda guerra mondiale. Queste due guerre sono un esempio tipico
di guerre conservatrici. Sono state due guerre imperialiste, di
rapina, di spartizione del mondo e delle zone di influenza, da parte
dei maggiori lupi capitalistici. Il Partito Comunista è proprio
contro questo tipo di guerre. Le avversa e le combatte. Ma qui è
un'altra caratteristica essenziale che distingue il comunista vero dal
comunista a parole. Come le avversa, come le combatte? Non certamente
belando pecorescamente la pace, come fanno ignobilmente i pacifisti,
ma al contrario sabotando col disfattismo rivoluzionario le guerre
stesse. Cioè incitando il proletariato alla lotta di classe contro la
borghesia con la chiara, semplice parola d'ordine: "ALLA GUERRA
DEGLI STATI, LA GUERRA DELLE CLASSI", che nel nostro secolo è
l'unica parola d'ordine veramente comunista, veramente rivoluzionaria,
veramente capace di contrastare la guerra, di vincerla, e di sradicare
le radici stesse, che la producono.
Terzo.
Il comunista rivoluzionario non sta a belare scioccamente la pace,
perché non ha senso invocare la pace se vige il regime capitalista.
Il comunista rivoluzionario sa che è un vile inganno, consumato
contro la classe operaia, predicare astrattamente la pace e ingenerare
l'illusione che essa possa essere mantenuta e conservata sotto la
schiavitù capitalistica del lavoro.
La pace
si può avere e si può indubbiamente ottenere. Questo è fuori di
ogni discussione e di ogni contestazione. E' nell'ordine dei fenomeni
sociali e quindi pienamente possibile. Ma questo risultato è soltanto
possibile e conseguibile quando e solo quando tutta l'umanità avrà
raggiunto il socialismo. Non prima di allora.
Alla
verità che il capitalismo è guerra, si deve scrivere e contrapporre
quest'altra sola e corrispondente verità: "La pace è figlia del
socialismo". E siccome per potere avere il socialismo, che dà
all'uomo la pace, è necessario prima di ogni altra cosa che il
proletariato si impadronisca del potere politico ovunque; per
"volere veramente" la pace, bisogna volere assolutamente
prima di tutto la guerra sociale, la rivoluzione comunista, la
instaurazione della dittatura comunista mondiale, che sono condizioni
indispensabili alla realizzazione del socialismo.
Così un
comunista autentico considera le guerre. Così tratta pressappoco, ma
sostanzialmente, la questione della pace e della guerra, che con tanta
impressionante apprensione attanaglia l'umanità. Così e soltanto così
debbono imparare ancora una volta a trattarla, a considerarla, i
proletari; liberandosi dai fumi della droga pacifista. Ecco come in
modo scheletrico, in parole povere, va messa la questione della guerra
e della pace, spoglia da tutte le parole fumose, piene di retorica e
di sentimentalismo, ma prive di sostanza e di valore. Ecco come
bisogna mettere la questione dal punto di vista della classe operaia,
dal lato dei suoi interessi, dal campo del comunismo.
I
sedicenti comunisti dei nostri tempi, pacifisti ad oltranza e senza
merito, fanno la più rancida propaganda astratta della pace. Illudono
ignobilmente il proletariato con la frottola dell'evitabilità delle
guerre, con la frottola della coesistenza pacifica.
Vale un
soldo falso che essi vengono oggi ad ammannire simili frottole con gli
"argomenti": a) che esiste un vasto campo cosiddetto
socialista, amante della pace; b) che esiste la bomba atomica, capace
di distruggere le basi stesse della vita.
Simili
"argomenti" non danno alcun sostegno a quelle frottole,
perché al pari di esse sono mendaci e fasulli. Sia il primo
"argomento", sia il secondo, sono completamente falsi.
Non
esiste innanzitutto un campo di paesi socialisti. Questa è la
colossale montatura dell'opportunismo staliniano e post-staliniano,
tenuta in piedi ancor oggi da quasi indistintamente tutti i partiti
comunisti ufficiali del mondo, filorussi e filo cinesi. Esiste
soltanto un mondo di paesi ormai quasi tutti capitalistici. Ormai
quasi tutti capitalistici, perché l'area economica del precapitalismo
si è alquanto ristretta.
In
secondo luogo. Ammesso e non concesso che si possa dividere il mondo
in due campi, un campo capitalista e un campo socialista, fra questi
due campi può vigere soltanto, non la coesistenza pacifica, ma la
guerra. La guerra più implacabile e più feroce che si possa
immaginare, per la vita e per la morte, per la distruzione completa,
assoluta, dell'uno o dell'altro.
Da
qualsiasi punto di vista si vede la cosa, la conclusione inconfutabile
che ne discende è che l'evitabilità della guerra nel capitalismo è
una colossale frottola, una schifosa menzogna, conservatrice,
reazionaria.
A questo
primo "argomento" fa il paio il secondo
"argomento": la esistenza di armi micidiali di sterminio.
L'evoluzione degli armamenti è in diretto rapporto con l'evoluzione
della tecnica produttiva. Mentre la guerra è una fase essenziale del
processo economico, l'armamento o il tipo di armamento è
semplicemente il derivato del grado di perfezionamento raggiunto dai
processi tecnologici. Il capitalismo evoca poderose forze produttive,
ma anche poderose forze distruttive, come suo ciclo vitale; senza che
quest'ultime possano convincerlo, permettiamoci questa immagine amena,
di atrocità o di sanguinario. L'esistenza di certe armi avrà diretta
influenza sulla condotta e sullo svolgimento delle guerre; è più che
evidente. Non può avere altro effetto però. Non può comunque,
assolutissimamente, influire sulla guerra nel senso di renderla
impossibile o evitabile.
Tanto la
prima guerra, quanto la seconda guerra imperialista, hanno conosciuto
ed esperimentato entrambe, armi micidiali, quali gas, atomiche. Né i
gas risparmiarono la seconda, né l'atomica risparmierà la terza, se
la rivoluzione comunista non avrà la meglio e non avrà vinto,
spezzando il regime delle guerre.
(Apparso
sul giornale Internazionalista: La
Rivoluzione Comunista n. 5, giugno 1965)
Edizione
a cura di
RIVOLUZIONE COMUNISTA
SEDE CENTRALE: P.za Morselli 3 - 20154 Milano
e-mail: rivoluzionec@libero.it
http://digilander.libero.it/rivoluzionecom/
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mercoledì,
03 gennaio 2007
Le guerre
dell’imperialismo italiano: lotte proletarie e prospettiva
internazionalista
Granuli d’“altra storia” di fronte all’impotenza
dell’odierno movimento contro la guerra
Riceviamo
e pubblichiamo la Relazione letta dal compagno DINO E. al Convegno
"Italiani brava gente", Torino 10-11-12 novembre 2006,
iniziativa promossa dal Centro di documentazione "Porfido"
di Torino e dalla Libreria "Calusca City Lights" di Milano
.
Affrontando questo argomento, c’è il rischio di cadere in facili
dichiarazioni edificanti, infarcite di buone intenzioni, di
cosmopolitismo, di solidarietà fra i popoli e così via ... per
finire con le ormai stinte bandiere arcobaleno esposte alle finestre
delle nostre città ... All’esposizione delle “buone
intenzioni”, contrapponiamo i FATTI, cercando di capire QUANDO, COME
e PERCHÉ il proletariato italiano si sia opposto alle imprese
coloniali della borghesia. E, su questa base, individuare le
implicazioni politiche e (se possibile) teoriche, per una prassi
tendenzialmente rivoluzionaria. Per stabilire, infine, la sua attualità.
Natura
del colonialismo italiano – Descrivendo il colonialismo
italiano, Amadeo Bordiga affermava: “Le imprese coloniali
dell'Italia borghese, giunta in questo campo buona ultima tra i poteri
capitalistici, hanno sempre avuto violenti riflessi nella politica
interna del paese e sollevato contrasti tra i partiti, fatto che in
altri stati di più possente industrialismo produttivo non si è così
nettamente verificato. Ma non è l'analisi economica e sociale
dell'imperialismo moderno che vogliamo qui seguire. Le prime armi
degli oltremaristi italiani furono fatte verso il 1880 con concessioni
di basi nel Mar Rosso da parte di altre potenze, e i primi fatti
militari con sapor di forte agrume si ebbero nel 1886-87 quando si
vide a Dogali e altrove che gli abissini erano bellicosi e
modernamente forniti da industrie europee, e quindi per aver colonie
ci volevano spedizioni armate e tributi di soldi e di sangue.”(1)
Motivi
dell’opposizione popolare – Possiamo completare le
affermazioni di Bordiga, osservando che, nel suo complesso, il
colonialismo italiano favorì cerchie estremamente esigue: le
gerarchie militari, la grande industria legata alle commesse militari,
alcuni ambienti finanziari e piccole cricche affaristiche.
Connotazione che accompagna tutta l’epopea coloniale italiana, dagli
scandali di Massaua del 1891 a quelli delle banane somale del 1960(2).
Per i proletari italiani, le imprese coloniali ebbero effetti
assolutamente negativi: a partire dal peggioramento delle condizioni
di vita, causato dal maggior carico fiscale, usato per finanziare gli
interventi (per es. i dazi sulle farine). Le guerre coloniali si
risolvevano il più delle volte in un bagno di sangue; infine, le
condizioni della truppa erano sempre bestiali. Non stupisce, che i
proletari italiani, all’avventura oltremare preferissero i disagi e
le incertezze dell’emigrazione, che in quegli anni di fine Ottocento
iniziava a crescere. Per questo motivo, anticolonialismo e
antimilitarismo sono strettamente legati. A cavallo tra Ottocento e
Novecento, nell’esercito e nella marina militare avvennero numerose
ribellioni, culminate a volte con l’uccisione e il ferimento di
ufficiali.
In Italia, il colonialismo non ebbe mai una significativa base
sociale, che consentisse la formazione di un vero e proprio
“partito” coloniale, paragonabile a quelli che sorsero in
Inghilterra e in Francia. In questi Paesi, l’epopea coloniale fu
esaltata, seppur con diversi accenti, da scrittori allora assai
popolari, come Kipling e Loti. Al confronto con l’Inghilterra, la
Francia, ma anche con l‘Olanda e la Germania, il colonialismo
italiano appare misera cosa, motivo per cui sono ancor più ripugnanti
le sopraffazioni che esso commise contro le popolazioni assoggettate.
Fatte queste premesse, vediamo a grandi linee come il proletariato
italiano abbia vissuto l’epopea coloniale.
Occupazione
di Massaua - Nel dicembre 1885, con l’occupazione del porto
di Massaua, iniziò la penetrazione italiana verso l’Abissinia,
facendo salire notevolmente la spesa militare.
- 1884-1885, agitazioni agrarie nel Mantovano (La boje).
- Il socialista Andrea Costa nel 1885 in Parlamento richiede con forza
il richiamo delle truppe dall’Africa e si oppone con coraggio alle
avventure coloniali del governo di centro-sinistra di Agostino
Depretis.
- Il 23 agosto 1885, a Milano un grande raduno della sinistra
radical-democratica chiede il ritiro delle truppe inviate in Africa.
All’indomani della sconfitta
di Dogali (26 gennaio 1887) Andrea Costa lanciò la parola
d’ordine “Né un uomo, né un soldo per l’Africa”, che venne
fatta propria dal movimento operaio. La sconfitta di Dogali trasferì
per la prima volta la protesta anticoloniale alle aule del Parlamento
e alle Piazze, mostrando il nesso tra imprese coloniali e politica
interna antisociale.(3)
Il 3 febbraio 1887, Costa rinnovò con coraggio la sua condanna del
colonialismo, presentando in Parlamento un ordine del giorno in cui si
affermava che “il prestigio militare e l’onore della bandiera sono
i soliti pretesti con cui tutti i governi cercano di far passare le
loro imprese criminali o pazze”. Rifiutando il voto alla richiesta
del governo di un nuovo credito per inviare in Africa nuove truppe,
Costa lanciava una parola d’ordine destinata a diventare celebre:
“(...) per continuare nelle pazzie africane noi non vi daremo,
ripeto, né un uomo, né un soldo ”(4). Fu denunciato, condannato e
costretto ad un nuovo esilio in Francia.
Scandali
di Massaua - Nel 1891, gli eccidi, gli espropri e le
usurpazioni di terre, avvenuti a Massaua, suscitarono scandalo negli
ambienti radical-democratici borghesi. Da parte loro, i socialisti
italiani manifestarono alcuni cedimenti politici e teorici sulla
questione coloniale, a partire da Antonio Labriola, offrendo spunti
che saranno poi ripresi dal fascismo. Una doverosa messa a punto venne
da Turati, che scrisse un articolo su “Critica Sociale” (In difesa
dell’onore dei briganti), in cui stabiliva il nesso tra gli eventi
africani e la sanguinaria realtà dello sfruttamento capitalistico in
Italia.
Sul piano sociale, il 1891 fu un anno caldo per l’Italia: avvennero
131 scioperi. Il 13 febbraio 1891, a Bologna, e il 23 febbraio a Roma,
si svolsero manifestazioni operaie di protesta contro gli alti costi
della politica coloniale.(5)
L’ulteriore occupazione di territori appartenenti all’Etiopia,
fortissimamente voluta dal governo Crispi (1893), fu accompagnata da
intense proteste popolari. Nel frattempo, a Genova il 14 agosto 1892,
era stato fondato Partito dei Lavoratori, che l'anno successivo, al
congresso di Reggio Emilia, assunse il nome di Partito socialista. Nel
1893-1894, in Sicilia si diffuse il movimento contadino dei Fasci,
sedato solo con i rigori dello stato d’assedio. Nel maggio 1898 a
Milano scoppiò la rivolta contro la miseria, repressa dalle cannonate
di Bava Beccaris. Questi due importanti episodi fanno da cornice a
quanto avvenne con la sconfitta di Adua.
Adua, 1°
marzo 1896 – Quando, ai primi di marzo del 1896, si diffuse
la notizia della disfatta di Adua, le manifestazioni popolari
scoppiate da un capo all’altro d’Italia, sfiorarono
l’insurrezione vera e propria, «ma il partito socialista ne restò
del tutto estraneo, incapace di dare al proletariato una qualsiasi
guida o un semplice indirizzo alle manifestazioni istintive. Le masse
popolari scendevano nelle strade e confluivano nelle piazze al grido
di “Viva Menelik” ed “Abbasso Crispi”, mentre il presidente
del consiglio veniva bruciato in effigie. Gli scontri con la polizia
si susseguivano ovunque e i prefetti non trovavano niente di meglio da
fare che barricarsi all’interno dei loro palazzi presi d’assalto
dalla folla. Una descrizione della tensione sociale e allo stesso
tempo della incapacità del partito socialista di prendere la
direzione delle masse ci è data da Turati che su “Critica
Sociale” scriveva: «Non è chi non abbia sentito, per una buona
settimana, un vento schietto di rivoluzione soffiare sul paese.
Basterebbero gli ammutinamenti nelle caserme non osati punire in quei
giorni, e le diserzioni a drappelli dei nuovi chiamati, e le proteste
nei municipi e le grandi manifestazioni del popolo fraternizzante coi
militi e questi con lui; basterebbero questi fatti a dire sulla
polarizzazione degli animi (...) non manca se non chi sappia
imprimergli direzione rapida e precisa per vedere instaurato un
governo provvisorio e repubblicano».(6)
[Gli
spettri di Adua - Recentemente,
il piccolo episodio di Nassyria (12 novembre 2003), ha evocato gli
spettri di Adua, come possiamo notare dallo scritto del colonnello
Giuseppe Governale .
Adua
- I perché di una sconfitta
(...) Queste le osservazioni sul fatto d'arme.
Altre considerazioni possono svolgersi sull'accoglienza
dei nostri soldati al loro rientro in Italia, caratterizzata,
purtroppo, da una certa ostilità non solo della gente abilmente
sobillata dalla stampa e da gruppi sociali e politici contrari per
motivi diversi all'avventura coloniale, ma anche dell'ambiente
militare che, evidentemente, iniziava ad accusare i primi sintomi di
quel "complesso di Adua", che lo avrebbe accompagnato fino
alla campagna mussoliniana del 1935-36. Per mesi, i giornali si
occuparono della "disfatta di Adua", mentre le dimostrazioni
dell'opinione pubblica contro la guerra furono violente, con vere e
proprie esplosioni di collera. Ai moti partecipò, senza distinzioni
di categorie sociali, buona parte della popolazione. In quasi tutte le
città si organizzarono comizi e raduni, dimostrazioni studentesche e
proteste di operai. Alla stazione ferroviaria di Pavia, per impedire
la partenza di altri soldati, vennero addirittura divelte le rotaie.
Di fronte al contegno più o meno spontaneo del Paese, a Crispi non
rimase altra alternativa che dare le dimissioni. "Sacrificare
l'uomo per salvare il regime" fu la scelta che costò la carica a
Crispi, ancora prima del dibattito parlamentare. Abbiamo accennato
allo "spettacolo" dopo l'arrivo della triste notizia del
massacro di Adua.
Si gridò "Abbasso Crispi! Via dall'Africa!" e,
purtroppo, anche "Viva Menelik!" l'autore del massacro.
Invece di accogliere la notizia della sconfitta con la calma di un
popolo forte, magari esprimendo propositi di rivincita, che sarebbero
stati comprensibili, si arrivò perfino ad approvare una carneficina,
ove si pensi che a fronte di oltre 5.600 caduti si contarono solo 500
feriti.”
(...) i 5.600 caduti, i circa 500 feriti ed i 1.500 prigionieri,
numero di perdite di gran lunga superiore a quello dell'intero periodo
risorgimentale. (Giuseppe Governale, Colonnello Titolare Scuola di
Guerra dei Carabinieri, Capo Ufficio Legale del Comando Operativo di
Vertice Interforze, “Rassegna dell’Arma”, n. 2, aprile-giugno
2005. )]
La
guerra di Libia: settembre 1911 – ottobre 1912 - La guerra di
Libia segna il decollo imperialista dell’Italia, imperialismo
"straccione", ma pur sempre imperialismo! Fu detto anche
imperialismo "della povera gente", in grado comunque di
inviare in Libia circa 100 mila soldati.
Alla dichiarazione della guerra, il 29 settembre 1911, ci furono
grandi manifestazioni di protesta che, in Romagna, ebbero carattere
insurrezionale, con il blocco delle linea ferroviarie. Gli scontri
durarono alcuni giorni e cessarono solo dopo violenti interventi
militari.
In questo clima, il 30 ottobre 1911, il soldato Augusto Masetti,
muratore di San Giovanni in Persiceto (Bologna), nella caserma
Cialdini di Bologna sparò, ferendolo, al colonnello Stoppa, che
istigava i giovani in partenza per la Libia all’odio contro il
popolo arabo.(7)
[Fermate
la tradotta che parte per Tripoli
Quando
nel 1911 operai, socialisti e anarchici bloccarono i treni dei soldati
mandati a "conquistare" la Libia (Maria Rosa Calderoni,
“Liberazione”, 26 febbraio 2003. )
(...) Il
moto spontaneo parte da Forlì il 24 settembre 1911. A un comizio
indetto dalla federazione autonoma forlivese con l'adesione della
Camera del lavoro, parla il segretario Umberto Bianchi (insieme al
ventottenne, allora socialrivoluzionario, Benito Mussolini); il giorno
dopo è la volta di un comizio dei repubblicani dove prende la parola
Nenni, interrotto dalla cariche della polizia. E subito dopo le Camere
del lavoro proclamano lo sciopero provinciale.
Il 25 e il 26 sono due giornale calde. «Durante la notte i
dimostranti avevano divelto i binari della tranvia Forlì-Meldola e
nelle prime ore del mattino avevano invaso uno zuccherificio», allo
scopo di consentire agli operai di partecipare allo sciopero.
Gli scontri sono fortissimi, Giolitti manda in campo polizia ed
esercito. Per protesta contro la repressione, nel pomeriggio è
indetto un comizio a cui partecipano, secondo "Lotta di
classe", 12 mila persone (per il prefetto saranno solo 4mila).
Non solo Forlì e provincia. «A Piombino cinque operai vengono feriti
in uno scontro con i carabinieri; a Milano scoppiano tafferugli tra
studenti favorevoli alla guerra ed operai: con la polizia che sta a
guardare gli operai aggrediti e bastonati; anzi, invece di difenderli,
ne arresta una parte. Il comizio di Firenze venne addirittura proibito
dalla questura per motivi di ordine pubblico» (Paolo Maltese, La
terra promessa, Mondadori, Milano, 1976.)
Le manifestazioni sono massicce soprattutto nelle Romagne, dove si
protraggono per più giorni; ma anche nelle altre regioni non si è
fermi e ovunque incontrano una dura repressione. La protesta popolare
è però destinata a durare ancora per poco. Infatti presto i comizi
saranno proibiti d'autorità.
Lo stesso sciopero generale, indetto il giorno 27 dalla Confederazione
Generale del Lavoro, in molte parti d'Italia si svolge in un clima
pesante. «Soprattutto a Milano, dove la truppa impedisce il
proseguimento della manifestazione e arresta trenta persone, insieme
agli stessi rappresentanti socialisti Paolo Valera, Corridoni e Ciardi,
accusati, di avere, "durante le note manifestazioni
antipatriottiche, in un comizio pubblico alla casa del Popolo,
eccitato i presenti alla rivolta e al vilipendio delle
istituzioni"».
Lo sciopero non dappertutto riesce; scarse le adesioni a Genova, Roma,
Napoli e in generale nel Meridione. E' invece imponente a Forlì e
provincia, dove prendono la parola esponenti sindacali e politici. «Proprio
in questo giorno arriva alla stazione della città un treno carico di
richiamati dal distretto di zona; allontanandosi dal comizio, allora,
tremila dimostranti, sotto la guida di Nenni, tentano di impedire la
presentazione al distretto di questi richiamati, collocando
sbarramenti sulle rotaie». Solo l'intervento della truppa e della
cavalleria riesce a interrompere la manifestazione. Per i fatti di
Forlì il 14 ottobre Nenni, Mussolini e Aurelio Lolli furono
arrestati.
Sono proteste "eroiche" in una Italia come quella d'allora,
un Paese che «conta 1364 comuni senza acqua potabile, 4877 senza
fogne, 1700 in cui non si mangia pane, 4355 in cui non si mangia
carne, 600 senza medici, 366 senza cimiteri, 154 distretti malarici,
100.000 abitanti colpiti da pellagra e 200.000 trogloditi».
Così commentò il “Corriere della Sera”: «Ieri finalmente il
Partito socialista ha fatto la sua protesta, diciamo così, solenne
contro l'impresa di Tripoli. Molti comizi si sono tenuti e molti
paroloni si sono gettati alle turbe. Tutte le grame argomentazioni,
che hanno affaticato da qualche settimana gli imbarazzati dialettici
del partito sono state riversate alle moltitudini ignoranti che nulla
intendono della politica estera del loro Paese e giurano sulla scienza
enfatica dei loro capi». ]
La lotta contro la guerra di Libia fu un’importante scuola per i
giovani socialisti, fermamente allineati sulle posizioni della
Sinistra intransigente del PSI. Essi costituiranno poi il nerbo del
Partito Comunista. Ricordando quel periodo, Bordiga, denunciava la
ferocia della repressione, attuata dopo l’attacco turco a Sciara
Sciat del 23 ottobre 1911: «Preso consiglio ai maggiori fratelli
imperialisti, il libero, parlamentare e “prefascista” regime di
Roma levò famose forche in Piazza del Pane a Tripoli, considerando
gli arabi che si opponevano all'occupazione come ribelli
“irregolari” e quindi traditori. La tecnica del suggerimento era
sopraffina: il combattente mussulmano crede che l'anima del morto in
battaglia esca dalla ferita e venga direttamente accolta da Allah, e
quindi combatte con fanatismo: se l'anima è costretta ad uscire per
altra via Allah la considera sgradevole e la rifiuta; di qui
l'intelligente procedimento del cappio alla gola».(8)
Gli anni che vanno dal 1911 al 1914 furono anni di grandi scioperi e
agitazioni proletarie. Il momento culminante fu la Settimana
Rossa , che ebbe origine dalla manifestazione antimilitarista
di Ancona, contro le Compagnie di disciplina dell’esercito. Dal 7 al
14 giugno 1914 le agitazioni popolari si estesero alla Romagna, alla
Toscana e ad altre località.
Quando scoppiò la guerra mondiale, nell’agosto 1914, la borghesia
italiana dovette attendere un anno, prima di scendere in campo. Questo
periodo era necessario per sedare e dividere un movimento proletario
assai combattivo. Le divisioni politiche del movimento socialista,
causata dagli interventisti di Mussolini, e la repressione poliziesca
non evitarono la costante opposizione alla guerra, che andava dalla
renitenza alla leva a manifestazioni di piazza contro il carovita,
come a Torino nell’agosto 1917 fino alla rotta di Caporetto,
dell’ottobre 1917, spiegabile solo con l’abbandono del fronte [da
parte] dei soldati italiani, che erano stanchi degli orrori della
guerra.
A guerra finita, il proletariato italiano non aveva nessuna intenzione
di farsi coinvolgere in altre imprese militari, anzi cercò di far
valere i propri diritti, assumendo posizioni politiche decisamente
rivoluzionarie. Grazie a questa maturazione, impedì due nuove
aggressioni: contro la Georgia nel giugno 1919, e contro l’Albania,
un anno dopo.
Nel corso dell’aggressione alla Russia sovietica, nel giugno 1919,
l’Inghilterra chiese un intervento italiano in Georgia, in aiuto al
governo menscevico. La situazione interna dell’Italia sconsigliò il
primo ministro Francesco Saverio Nitti di intraprendere una spedizione
militare.(9)
Rivolta
di Ancona contro la spedizione in Albania, 26-29 giugno 1920 -
Nel giugno 1920, Giolitti, capo del governo, decise di inviare un
contingente militare in Albania, per aiutare le truppe
d’occupazione, presenti dal giugno 1917 e che ora si trovavano in
grosse difficoltà.
L'Italia, accusata formalmente dagli alleati di aver violato il patto
di Londra (patto già sconfessato dal Presidente Americano e che
nessuno applicherà mai o avrà intenzione di applicare all'Italia),
si ritirava dall'Anatolia e consegnava ai Greci l'Albania meridionale.
La reazione degli albanesi non si fece attendere. Nel caos che ne seguì
(fine 1919, inizio 1920), le truppe italiane furono lasciate
asserragliate a Valona senza ordini e rinforzi mentre in Italia
infuriava lo scontro politico e l'impresa Fiumana. Al passo Logorà un
nucleo di bersaglieri era stato completamente annientato. Il governo
italiano decise allora di inviare a rinforzo della piazza la Brigata
Piacenza, gli arditi e le autoblindo. Nel maggio del 1920 un comitato
di liberazione Albanese inviava un ultimatum alle truppe italiane.
Nella difesa di Valona muore anche il 6 giugno il generale Enrico
Gotti già capitano al 5° bersaglieri e Colonnello al 4°. La
risposta che il neo presidente del consiglio Giolitti ritenne di dare
fu una mobilitazione generale.
Cronaca
dei giorni di giugno
15 giugno 1920 – PSI e Confederazione Generale del Lavoro (CGdL)
diffondono un manifesto invitando gli operai ad opporsi all'invio di
soldati in Albania, chiedendone anzi l'abbandono.
17 - Giolitti comunica la costituzione del nuovo governo: Ivanoe
Bonomi alla Guerra, Benedetto Croce alla Istruzione, Arturo Labriola
al Lavoro. Scioperi ferroviari in tutta Italia.
23 - Conflitti e tumulti a Milano in occasione di una manifestazione
socialista di solidarietà ai ferrovieri scioperanti: due morti.
24 - Proclamato lo sciopero generale a Milano: manifestazioni in tutta
la città, un brigadiere dei carabinieri fu massacrato dalla folla.
26 - Ammutinamento in caserma ad Ancona dell'11° reggimento
bersaglieri in partenza per l'Albania. La rivolta di Ancona del 1920
è meglio nota come "la rivolta dei bersaglieri" in quanto
prese avvio dalla caserma Villarey di Ancona, quando i soldati si
ribellarono all'ordine di imbarcarsi per andare in Albania. La rivolta
dei bersaglieri sfociò subito nelle strade di Ancona e fu prontamente
appoggiato da una larga parte del popolo anconetano che per tre
giorni, armi in pugno, combattendo nelle strade, tenne in scacco le
forze di polizia e le guardie regie. Alla fine le forze dell'ordine
ebbero la meglio solo grazie alla superiorità numerica (giunsero
rinforzi da varie città del centro-Italia) e al migliore armamento
rispetto ai rivoltosi. Nei giorni successivi per "solidarietà"
ai militari si organizzano altre manifestazioni in varie città
d'Italia.
27 - Giolitti alla Camera afferma di essere favorevole
all'indipendenza dell'Albania e respinge la proposta di inviare altre
truppe. L'occupazione però di Valona e dell'Albania, da parte di una
potenza nemica (o amica) dell'Italia, può costituire un pericolo. Non
bisogna quindi abbandonare l'Albania fin quando non avrà un governo
stabile.
Il 24 luglio un nuovo attacco albanese mette in difficoltà le truppe
italiane. Il 3 agosto fu concordato diplomaticamente il rientro di
tutti i militari dall'Albania, tranne che dall'isolotto di Saseno.
Altri
episodi del giugno 1920 - Quando i bersaglieri dell'XI
Reggimento, alloggiati ad Ancona nella caserma Villarey, il 26 giugno
1920 si rifiutarono di imbarcarsi sul piroscafo "Magyar" per
raggiungere il corpo di occupazione italiano in Albania, si ebbero
vibranti manifestazioni di protesta non solo ad Ancona, ma anche a
Pesaro, Jesi, Senigallia, e in Romagna, Forlì e Cesena.
[ All'ammutinamento
seguì un'insurrezione, con episodi di guerriglia urbana, con la
partecipazione di centinaia di persone, cui fece seguito una dura
repressione dell'esercito, con decine di feriti ed oltre venti morti.
Si ebbe uno sciopero delle ferrovie, mentre un treno che trasportava
500 guardie regie venne aggredito. Ad Ancona, dal mare e dalla
"cittadella", furono bombardati i "ribelli",
aiutati dai soldati. Anche a Pesaro si ebbero manifestazioni di
solidarietà con i bersaglieri di Ancona.
Da ciò "i fatti di Pesaro" che ebbero, anch'essi, grande
rilievo sia sulla stampa nazionale che in Parlamento. Accade che i
dimostranti pesaresi si recarono a manifestare presso la stazione
ferroviaria, ove era in allestimento un treno di armamenti e
munizioni, e di fronte alla vicina Caserma Cialdini per invitare i
soldati a solidarizzare con i bersaglieri di Ancona. Nel pieno
svolgimento della manifestazione, mentre il piazzale antistante la
stazione era gremito di gente, dalla Caserma Cialdini partirono
raffiche di mitragliatrice sui manifestanti, provocando un morto (il
montelabbatese Cardinali) e vari feriti. Si disse, poi, che il comando
militare temeva che la manifestazione sfociasse nell'invasione della
caserma. Come reazione immediata vari manifestanti si recarono ad
incendiare l'abitazione del comandante della caserma, colonnello
Trapani, situata in via Petrucci (vicino all'ex cinema Duse) e ad
occupare la polveriera. La rivolta di Ancona, e le manifestazioni di
solidarietà di Pesaro e delle altre località marchigiane e
romagnole, contribuirono al disimpegno dell'Italia dall'Albania. Il
processo ai dimostranti di Pesaro si svolse presso il Tribunale di
Urbino. L'on. avv. Giuseppe Filippini, socialista, deputato di Pesaro,
fu uno dei più efficaci difensori degli imputati (così come l'on.
Bocconi e l'on. Andreis - l'uno socialista e l'altro repubblicano -
furono tra i difensori degli insorti anconetani). Inoltre l'on.
Filippini, quale deputato socialista pesarese, svolse alla Camera dei
Deputati un ampio intervento per illustrare le vicende pesaresi e per
ribadire la volontà di pace dei manifestanti. Va aggiunto che il
tribunale di Urbino si rivelò piuttosto magnanimo nelle condanne di
vari imputati.
(Cfr. Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia
delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Edizioni Oriente,
Milano, 1970, vol. 2, p. 93.)]
Non
tutti i caduti sono martiri - Dopo la guerra, le truppe
italiane furono inviate in diverse aree europee, per controllare
l’applicazione dei deliberati stabiliti con gli accordi di
Versailles. Nel 1920, a Teschen, controllarono il plebiscito che
ripartì la regione fra Cecoslovacchia e Polonia. Ad Allenstein e
Marienwerder, un altro contingente militare controllò il plebiscito
che assegnò quelle province alla Germania. Dal 1918 al 1921,
l’esercito italiano fu a Klagenfurt (Austria), per controllare il
plebiscito che assegnò quella regione all’Austria. Nel 1921-1922,
controllò il plebiscito che assegnò la città di Sopron
all'Ungheria. Più impegnativa, e sanguinosa, fu la missione
nell’Alta Slesia (1921-1922), riguardante la ripartizione della
regione tra Polonia e Germania. In seguito al risultato del plebiscito
del 22 marzo 1921, favorevole alla Germania, il Corpo di spedizione
italiano, 1350 uomini, fu attaccato dai partigiani polacchi, i Sokol,
che provocarono circa 40 morti e 200 feriti(10). In Patria, il tragico
episodio ebbe scarsa eco. In seguito, la spedizione interalleata fu
discretamente ricordata da una medaglia commemorativa in bronzo, non
ufficiale, coniata a Milano dalla ditta S. Johnson.
L’onda
lunga della Rivoluzione d’Ottobre - Nel “rosso”
dopoguerra, le pretese coloniali – o meglio imperialiste - della
borghesia italiana furono congelate da un proletariato che,
sull’onda della rivoluzione d’Ottobre, si candidava alla conquista
del potere. La presenza italiana Oltremare era limitata alle aride
coste della Somalia,
dell’Eritrea
e della Libia
. Al censimento del 1° dicembre 1921, gli italiani residenti in
Eritrea erano 3.635 e in Somalia 656; dei 27.495 residenti in Libia
circa un migliaio era presente prima della conquista. Parte di questi
31.768 residenti era occupata nell’amministrazione civile e
militare; tutti, tranne poche eccezioni, conducevano una vita assai
modesta, che sicuramente non attirava i connazionali. Di fronte ai
costi di questa meschina situazione coloniale, alcuni esponenti
borghesi, come Francesco Saverio Nitti e Meuccio Ruini, auspicavano,
se non l’abbandono, il disimpegno.
Le prospettive sul futuro delle colonie erano tali da non destare
particolari preoccupazioni per il giovane Partito Comunista
d’Italia, fondato a Livorno nel gennaio 1921, i cui dirigenti, nel
1911, erano stati in prima fila nelle lotte contro l’aggressione
alla Libia. Al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista,
giugno-luglio 1920, essi avevano fermamente sottoscritto e sostenuto i
cosiddetti “21 punti di Mosca”, ossia le Condizioni per
l’ammissione all’Internazionale comunista. Nella sua azione
pratica, il Partito fu perfettamente coerente con quanto affermava il
punto 8, che affermava:
«Per i partiti dei paesi la cui borghesia possiede delle
colonie ed opprime altre nazioni è necessario tenere un atteggiamento
particolarmente esplicito e chiaro sulla questione delle colonie e dei
popoli oppressi. Ogni partito che voglia aderire all’Internazionale
Comunista è tenuto a smascherare i trucchi e gli inganni dei
"propri" imperialisti nelle colonie, ad appoggiare non solo
a parole ma con i fatti ogni movimento di liberazione nelle colonie,
ad esigere che i propri imperialisti vengano espulsi da tali colonie,
ad instillare nei lavoratori del proprio paese un atteggiamento di
autentica fratellanza nei confronti dei lavoratori delle colonie e dei
popoli oppressi, e a fare sistematicamente opera d’agitazione tra le
truppe del proprio paese perché non collaborino all’oppressione dei
popoli coloniali».
Per rilanciare l’espansione coloniale, ci volle il fascismo.
Ordine
interno, aggressioni esterne - Nel 1922, il fascismo restaurò
l’ordine borghese e, grazie alla pax fascista, fu possibile la
riconquista della Libia, dove nel periodo della guerra mondiale, la
presenza italiana si era ridotta ad alcune località della costa. La
riconquista richiese tuttavia un decennio: dal 1922 al 1932. Tre anni
di tregua e poi prese piede la seconda grande aggressione
all’Africa: la guerra d’Etiopia, nel 1935. Con la guerra di
Etiopia, il fascismo toccò l’apice del consenso, conquistando le
opposizioni moderate, da Benedetto Croce ad Arturo Labriola(11).
Malgrado la massiccia e capillare mobilitazione per costruire il
consenso, ci furono segni di malcontento, se non di larvata
opposizione.(12)
Sul piano militare, la guerra d’Etiopia richiese un enorme impiego
di risorse materiali e umane, le cui conseguenze si videro nel
susseguente massiccio intervento in Spagna, dove si verificarono le
prime crepe, per esempio, nel marzo 1937, con la sconfitta di
Guadalajara, inflitta dalle Brigate internazionali.
In quei frangenti, la voce dei partiti proletari fu estremamente
flebile. All’inizio dell’aggressione, il Partito
Comunista Italiano (PCI) prospettava, se non una nuova Adua, un
lunga e difficile campagna militare, con conseguenti ripercussioni
interne, che avrebbero aperto possibilità di intervento politico ai comunisti
[stalinisti].(13)
Una valutazione in parte simile, riguardo le difficoltà della guerra,
fu avanzata dalla Sinistra
comunista italiana (il gruppo di “Bilan”). Essa, però,
metteva in luce come l’aggressione all’Etiopia avvenisse con la
complicità di tutte le potenze imperialiste, Inghilterra compresa. In
quanto, l’occupazione italiana avrebbe favorito la diffusione del
modo di produzione capitalistico in quell’area, con vantaggio per
tutti. L’unico aiuto al popolo etiopico lo avrebbe potuto dare il
proletariato italiano, abbattendo il fascismo e lottando contro il
capitalismo.(14)
Sul piano politico, ebbe minimo riscontro la propaganda del PCI,
svolta da Velio Spano tra le truppe(15). La mancanza di risposte dal
“fronte interno” indusse il PCI all’espediente di inviare propri
militanti a sostegno della guerriglia etiopica. Iniziativa che, per
quanto possa apparire generosa, rivelava non solo la debolezza della
sua presenza e della sua azione in Italia ma, soprattutto, apriva una
prassi politica di rimozione della lotta, che passava dal “fronte
interno” a più lontani lidi. Questa prassi si sarebbe poi imposta,
svelando tutta la propria inconsistenza quando la “critica delle
armi” cedette il passo alla più blanda “critica degli appelli”.
Nella guerra combattuta nel 1936 in Etiopia per resistere
all’aggressione dell’imperialismo italiano di Mussolini si sono
battuti nelle file del Negus contro l’esercito fascista anche 38
comunisti italiani, fra i quali il livornese Ilio Barontini.
[“Nel
1938 l’Internazionale comunista decise di aiutare la resistenza in
Etiopia. Di Vittorio chiamò Barontini e formarono un terzetto con lo
spezzino Rolla e il triestino Ukmar. Si chiamavano "i tre
apostoli". Barontini era Paulus, Rolla era Petrus e Ukmar
Johannes. Avevano il compito di saldare le forze abissine. Malgrado il
pugno di ferro di Graziani, l’Etiopia non si era sottomessa.
Barontini, Rolla e Uckmar ebbero un lasciapassare del Negus.
Organizzarono in Abissinia un forte movimento partigiano e un governo
provvisorio di patrioti, diffondendo in due lingue un giornale
ebdomadario "La Voce degli Abissini". In seguito il Negus
dette a Barontini il titolo di vice-imperatore. Ras Destà,
rappresentante etiopico alla Società delle Nazioni, li accompagnò
fino a Khartoum. Graziani aveva messo una taglia sulla sua testa, ma
lui riuscì a sfuggire, a Khartoum fu accolto da Alexander, dal quale
fu poi decorato.”
Cfr. www.romacivica.net/anpiroma/antifascismo/biografie
]
Con la proclamazione dell’Impero, 9 maggio l936, l’opposizione al
fascismo toccò il punto più basso. Per superare l’impasse, il PCI
ricorse a un altro espediente deteriore, “L’appello ai
fascisti”, chiedendo la riconciliazione del popolo italiano sulla
base del programma fascista del 1919. Questa iniziativa fu abbandonata
nel giro di pochi mesi, in seguito al sostegno italiano alla guerra
scatenata da Franco contro il governo del Fronte Popolare. Da parte
sua, la Sinistra
comunista si domandava: Il proletariato italiano è assente?
(“Bilan”, n. 30, aprile-maggio 1936, p 987.)
In generale, sul capitolo “africano” la storiografia antifascista
è molto scarsa e reticente.
Dopo la
sconfitta italiana - Con il trattato di pace del 1947, l'Italia
venne privata di tutti i suoi possedimenti coloniali. Tuttavia, nel
1950 le Nazioni Unite riconobbero all'Italia l'amministrazione
fiduciaria della Somalia fino al 1960, soluzione condivisa dal PCI.
Nei difficili anni del dopoguerra, il proletariato italiano aveva
altre cose cui pensare, che alle colonie finalmente perdute. Con un
vero e proprio salto mortale, il PCI pensò invece di rivendicare il
“posto al sole” perduto. Palmiro Togliatti, segretario del PCI,
durante le elezioni del 1948 affermò: “Il governo inglese, se
proprio vuol dimostrarsi nostro amico, perché invece di cominciare da
Trieste, non comincia col dichiarare di essere d'accordo che rimangano
all'Italia le sue vecchie colonie?”.(16)
Il proletariato italiano, come tutto il proletariato mondiale, si
trovava allora sottomesso al grande inganno dei contrapposti
schieramenti: da una parte il "mondo socialista" e
dall’altra il "mondo libero". Subordinazione assolutamente
ferrea nelle questioni di politica estera.
Bordiga così commentò la posizione del PCI di Togliatti: «Gli
stalinisti poi, invece di dire che dandoci le colonie farebbero
l'ennesimo rinnegamento di proclamati principii, di altro non si
preoccupano che di stabilire che sono gli inglesi e gli americani a
rifiutarcele. I giornalisti comunisti-italiani non trovano di meglio
che illustrare che la Russia si oppone alla spartizione delle nostre
colonie. Già, ma è una spartizione che ne lascerebbe una fetta anche
all'Italia, sia pure una fetta «prefascista», quindi a suo tempo
conquistata come hanno conquistato le nostre città della costa: colle
caramelle. Gromyko è stato più diritto. Anzitutto vuole che tutte le
colonie siano in dieci anni rese indipendenti lasciando dunque
l'Italia senza alcuna colonia. Ma in sostanza dice che in Libia e
Cirenaica, prefasciste finché volete, ci staranno ottime basi
militari atlantiche e quindi anche russe. A questi fini egli sa bene
che avendole, un'Italia armata dagli atlantici la Russia è fregata.
Giustamente si oppone. La demagogia la lascia ai servitorelli. Allah
sia ringraziato». (Amadeo Bordiga, I socialisti e le colonie, «battaglia
comunista», n. 15, 13-20 aprile 1949. )
La
guerra fredda - Il 2 aprile 1949 l’Italia aderì alla NATO,
l’Alleanza Atlantica sotto l’egida USA. Nell’aprile 1949, su
spinta dei partiti comunisti filo sovietici, venne fondato il
movimento dei Partigiani
della pace . Uno degli obiettivi fu la lotta contro la Comunità
europea di difesa (CED), progetto militare anti sovietico che, dopo un
esordio incerto, nell’agosto 1954, fu affossato dalla Francia, che
doveva leccarsi le ferite della sconfitta di Dien Bien Phu.
Nei primi mesi del 1950, di fronte all’adesione al Patto Atlantico
del mondo occidentale, uno degli aspetti in cui si concretizza la
lotta per la pace in Europa fu la protesta contro lo sbarco delle armi
americane, destinate ai paesi della NATO. In vari porti di Europa, da
Genova ad Amsterdam, da Rotterdam ad Anversa ed Amburgo, i portuali
boicottarono lo sbarco delle armi. In Italia, il governo rispose con
misure repressive, tra cui il divieto di manifestazione e di tener
comizi.
Finalmente, nel 1955, l’Italia entrò nell’ONU, superando il veto
sovietico.
Le
guerre di liberazione nazionale - Fu l’Algeria, a metà degli
anni Cinquanta, con la battaglia di Algeri (gennaio-settembre1957), a
imporre l’attualità delle lotte di liberazione nazionale. Anche in
precedenza, c’erano state importanti lotte contro la dominazione
coloniale, ma l’atteggiamento di Mosca e dei partiti satelliti era
stato quanto mai tiepido, se non gelido.
Il 13 ottobre 1946, fu costituita la Quarta Repubblica Francese. I
partiti socialista e comunista, al governo, concordano nel voler
conservare la struttura coloniale della Francia.
Nel corso del 1947, per reprimere l’insurrezione in Madagascar, le
truppe francesi massacrano 150.000 malgasci. Il Partito Comunista
Francese (PCF) è al governo. Sempre nel 1947, il PCF vota i crediti
di guerra per l’intervento in Indocina, quella di Ho-Chi min.
Nell’autunno 1958, con le ferite della battaglia di Algeri ancora
aperte, il Partito Comunista Francese invitava gli algerini a non
ricorrere a metodi di lotta violenti, altrimenti ne avrebbero pagato
le conseguenze.(17)
Dai grandi crimini d’oltralpe, passiamo alle meschinità nostrane.
Nel gennaio del 1947, i comunisti e i socialisti “bianchi”
(italiani) della Somalia dichiararono all’assemblea dell’ONU: «Ci
dovrebbe essere una differenza di salario tra lavoratori bianchi e
lavoratori negri». In quello stesso anno, in Eritrea, i lavoratori
“bianchi” percepivano salari 20 volte superiori a quelli degli
indigeni.(18)
Fino ai primi anni Sessanta, Mosca fu assai cauta e ambigua nel
sostegno alle lotte di liberazione nazionale. L’interesse si
manifestò quando entrarono direttamente in causa questioni connesse
alla sua politica internazionale: la crisi di Cuba, ottobre 1962, e la
successiva escalation americana in Vietnam. Questi avvenimenti dettero
fiato ai grandi movimenti anti imperialisti a sostegno delle lotte di
liberazione nazionale. Nell’Europa occidentale, questi movimenti
assunsero presto una connotazione squisitamente anti USA, dal momento
che l’ingerenza degli Stati Uniti, dopo un ventennio, cominciava a
pesare sui risorgenti imperialismi europei. In altri termini, i
partiti social-comunisti usavano il tardivo sostegno alle lotte di
liberazione nazionale come pretesto per rivendicare il “posto al
sole” degli imperialisti europei.
Negli anni Sessanta e Settanta, i social-comunisti e le appendici
sorte dai movimenti del Sessantotto, fecero grande sfoggio delle loro
iniziative contro l’imperialismo (USA, beninteso), facendo scordare
il loro criminale silenzio per tutti gli anni Cinquanta, quando, le
poche voci che si levarono a sostegno delle lotte di liberazione
nazionale in Africa e in Asia furono quelle delle formazione della sinistra
comunista . In Italia, un fondamentale contributo fu sviluppato
dal Partito
Comunista Internazionalista (“il programma comunista”), che
seguì con grande attenzione quanto stava avvenendo nelle aree
coloniali, formulando lucide analisi sulla successiva evoluzione.(19)
Dall’imperialismo
"straccione" all’imperialismo "umanitario"
- La presenza militare italiana sulla scena mondiale, dovette
attendere l’inizio degli anni Ottanta. C’erano stati tuttavia due
piccoli ma significativi precedenti.
Nei primi anni Cinquanta, l’Itala partecipò alla guerra di Corea
sotto i simboli della Croce Rossa, realizzando un ospedale da campo
con 100 letti, poi 200, gestito però da militari.
Si apre il capitolo dell’imperialismo "umanitario".
Non più la Croce Rossa, ma l’aviazione militare intervenne
nell’ex Congo belga. L’11/12 novembre 1961, a Kindu, persero la
vita 13 aviatori italiani della 46a Aerobrigata, che facevano parte di
un contingente dell’ONU, inviato per ristabilire l’ordine. Quale
ordine? Dal momento che gli aviatori italiani furono condannati a
morte da esponenti del governo legittimo, di Antoine Gizenga, in base
all’accusa di fornire armi ai movimenti secessionisti nel Katanga,
foraggiati dall’Union Minière belga.
Nel 1982 l’Italia è in Libano. Negli anni Novanta, gli interventi
italiani, sotto diverse sigle (ONU, NATO o altro) si infittiscono:
Albania, Somalia, Iraq, Bosnia Erzegovina, Kosovo...
In questo periodo, entrano in crisi i movimenti anti imperialisti, che
avevano contraddistinto la scena politica italiana per oltre un
ventennio, dalla prima metà degli anni Sessanta ai primi anni
Ottanta. Entrano in crisi proprio quando l’intervento militare
italiano inizia a propagarsi, assumendo un ruolo relativamente
autonomo nell’ambito delle relazioni imperialiste. I movimenti anti
imperialisti mostrano la propria coda di paglia, che cercano di
nascondere trasformandosi in movimenti pacifisti. I movimenti
pacifisti balzano alla ribalta con la prima aggressione all’Iraq
(1991). Il loro andamento è ondivago, in quanto è strettamente
connesso all’ambiguità degli interventi militari italiani che,
rispettando la vecchia tradizione dei “giri di valzer”, oscillano
tra filo atlantismo ed europeismo.
Ultimo in ordine di tempo, l’intervento in Libano, offre
un’eloquente dimostrazione, mostrando l’unità di intenti delle
diverse componenti politiche della borghesia italiana, da Fini a
Bertinotti.
L’attuale scenario è politicamente grigio, tuttavia anche una
piccola lotta economica rappresenta un fattore di “crisi”, in
quanto scalfisce una struttura capitalistica che è sempre più
fragile e che, per difendersi, deve ricorrere a un apparato repressivo
militar-politico ormai elefantesco.
[Evviva
la «zagaglia barbara»
Come previsto, malgrado il cordone sanitario tirato dal governo
portoghese, l'Angola mostra di non potersi difendere dall' «infezione»
della rivolta negra che, se anche non esistessero sul luogo ragioni
sufficienti per alimentarla, filtrerebbe in ogni caso attraverso le
frontiere del Congo. Mentre nel 1959 si tacque delle violente sommosse
nella Guinea portoghese, e nel 1960 di quelle nella stessa Angola, ora
la stampa europea passa all'offensiva denunziando gli «eccidi»
perpetrati da negri delle colonie portoghesi a danno dei coloni
bianchi. È probabile che, passata almeno per il momento la grande
paura congolese, si batterà con ardore il tam-tam sulle «atrocità»
delle popolazioni di colore anche nel felice possedimento di Lisbona,
e si griderà allo scandalo.
Non è atroce, per la stampa benpensante, lo sfruttamento a cui
notoriamente sono sottoposti i negri nella colonia africana del
sud-ovest: è atroce che negri vi si ribellino!
Uno scrittore americano tutt'altro che rivoluzionario e nemmeno
radicale come Stewart G. Easton può scrivere nel suo Twilight of
European Colonialism (1960): «Sembra evidente che la tradizione del
traffico degli schiavi abbia finito per determinare certe attitudini
portoghesi verso gli indigeni in Africa, che persistono malgrado i
cambiamenti avvenuti nel modo di comportarsi del resto del mondo»;
per
esempio, se un negro non accetta «volontariamente» di lavorare
presso un colono bianco delle grandi piantagioni per almeno un
semestre all'anno (quanto al «volontariamente», basti ricordare che,
se un negro non lavora a salario fuori del suo piccolo lotto di terra,
non potrà mai pagare le imposte sulla capanna e sul focolare
domestico), l'amministrazione coloniale può costringerlo di autorità
a farlo: che i contratti «volontari» per sei mesi implicano tutta
una serie di clausole disciplinari, elencate nel passaporto interno
che ogni uomo «di colore» deve avere con sé, la cui violazione
autorizza il padrone a chiedere alla polizia di «punire» il
colpevole con misure che vanno dalla pena corporale (consistente,
scrive l'Easton), nel «battere sulla mano con uno strumento noto come
la palmatoria, una specie di ping-pong perforato che produce dolorose
vesciche» al lavoro correzionale e alla deportazione nelle
piantagioni di cacao di Sao Tomé o di Principe; che, non essendo
sufficienti le imposte a «educare l'africano ad assolvere i suoi
obblighi verso la società», il governo può - a parte il lavoro
obbligatorio semestrale su una tenuta bianca -«costringerlo a
lavorare per la costruzione di strade ed altri compiti socialmente
utili e, in genere.... per l'esecuzione di progetti di cui egli
beneficerà, sebbene non gli sia permesso di dire la sua parola circa
la possibilità che questo lavoro benefici veramente lui o soltanto le
imprese private europee che si servono delle facilitazioni così
fornite loro», tanto che, «notoriamente, nell'Angola come nel
Mozambico, qualunque impresa abbia bisogno di una forza-lavoro di una
certa entità può ottenerla in qualunque momento attraverso gli
agenti di reclutamento governativi».
Un esempio (citiamo sempre l'Easton, riservandoci di fornire dati più
completi e meno blandi in seguito): «Nel Mozambico settentrionale...
si è sviluppato un sistema che può solo definirsi servitù. In
quest'area l'indigeno è costretto a coltivare cotone con perdite
rovinose per lui, giacché gli si fornisce il seme e lo si obbliga a
coltivare il cotone su un pezzo di terra che prima dava di che vivere
a lui e alla sua famiglia. Infatti, di regola, non gli si concede un
pezzo supplementare di terra e, in ogni caso, egli e la sua famiglia
non sono in grado di coltivare il cotone richiesto e riservarsi poi il
tempo sufficiente per i prodotti necessari al proprio sostentamento...
I concessionari che forniscono il seme non erogano salari; tutto
quello che possono perdere è il seme, che vale poco, e, senza correre
nessun rischio, possono rivendere il cotone (da loro acquistato a
prezzo vile presso i coltivatori indigeni) a manifatturieri tessili
portoghesi».
Non basta: oltre ad essere obbligati ad assumere impiego come manovali
in aziende private per sei mesi e pubbliche o protette dalle autorità
pubbliche in qualunque periodo, i negri delle colonie portoghesi
possono essere «forniti» alle vicine miniere del Sud-Africa in
contingenti fissi e, «se non si offrono volontariamente per un lavoro
a contratto, come è loro obbligo cristiano, è manifestamente
doveroso per le autorità portoghesi provvedere a che lo facciano».
Quest'ultima forma di lavoro «comandato» è particolarmente
vantaggioso (spiega l'Easton) per la potenza coloniale: infatti, il
contratto col Sud-Africa prevede che i negri dell'Angola o del
Mozambico vengano forniti come «manodopera docile e laboriosa» in
cambio dell'impegno della potenza estera di esportare una quota fissa
delle loro merci attraverso il porto di Lorenzo Marques o (se si
tratta di inviarli nelle miniere della Rhodesia) attraverso quello di
Beira; inoltre, per ogni lavoratore reclutato il governo sudafricano o
rhodesiano paga alla colonia portoghese una certa somma di ingaggio, e
infine, per agevolare lo «scambio» di carne umana, è disposto a
costruire o finanziare tronchi stradali e ferroviari di cui il
Portogallo potrà servirsi sia per i suoi traffici mercantili, sia per
i suoi compiti di «paterna» tutela poliziesca della plebaglia negra
che il buon Dio gli ha affidato perché la educhi, civilizzi e
cristianizzi. Inutile dire che, anche qui, gli africani devono
accettare qualunque salario gli si offra, e lo accettano «volontariamente»
perché è sempre un salario superiore a quello che otterrebbero
nell'Angola o nel Mozambico.
Tutto questo (e diamo solo alcuni fra i mille particolari ignobili
della ignobile, ma cristianissima, attività colonizzatrice
portoghese) non è atroce; oh, dio guardi! Ma è atroce che, un bel
giorno, i negri si rivoltino e ci scappi il solito cadavere bianco.
Allora si grida all'orrore, alla selvaggia brutalità indigena, alla
civiltà occidentale minacciata, alla verginità di candide fanciulle
violata, ai sacrifici dei coloni distrutti, alla «zagaglia barbara»
e via discorrendo. È vero che ogni tanto un vescovo (come quello di
Beira) è costretto a prendere la parola per dichiarare che sistemi
come quelli in uso nelle felici colonie del Portogallo «solo
difficilmente possono giustificarsi alla luce della sociologia
cristiana», che il sistema del lavoro forzato interno ed estero
distrugge quei vincoli familiari ai quali i portoghesi pretendono di
«educare» o «rieducare» gli indigeni: ma sono parole fatte apposta
per attenuare le punte estreme del contrasto, parole da «riformatori
illuminati» ansiosi di mutare la forma per mantenere la sostanza. E
la realtà rimane, questa sì, atroce.
Ma è una realtà «di colore»: tutto sommato... giustificabile. E
guai a ribellarvisi!
Comunque, anche se i negri «portoghesi» non si muovessero di propria
iniziativa, è inevitabile che sentano la pressione dei ribelli sul
confine del Congo, e ci auguriamo che la stessa «esportazione della
rivolta», dilagando in Rhodesia e nell'Africa del Sud, butti infine
all'aria il sanguinario regno degli aguzzini dell'apartheid, e d'altri
non diversi insetti. Sarà la migliore accoglienza al reduce Verwoerd.
[«il programma comunista», a X, n. 6, 24 marzo 1961.]
(1) (Amadeo Bordiga), I socialisti e le colonie, «battaglia comunista»,
n. 15, 13-20 aprile 1949.
(2) Cfr, 3. La repubblica democratica di Somalia (1960-1969) -
Sovvenzioni e banane: gli scandali, in: www3.autistici.org/orizzontillimitati//somalia/3;
vedi anche il simpatico articolo di Maurizio Maggiani, Appunti dal
Paese del banana, “Il Secolo XIX”, 21 novembre 2004.
(3) Cfr. Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale.
Dall’Unità alla Marcia su Roma, Mondadori, 1992. Le reazioni in
Italia, pp. 245-251.
(4) Intervento di Andrea Costa. Camera dei Deputati, 3 febbraio 1887,
ora in “Comunismo”, n. 58, luglio 1005, p. 55.
(5) Cfr. Angelo Del Boca, Cit., Utopie e incertezze dei socialisti,
pp. 457.
(6) Antimilitarismo e movimento operaio in Italia, “Il Partito
Comunista” n. 298, maggio-giugno 2003. Cfr. Angelo Del Boca, cit.,
Le Reazioni in Italia e la caduta di Crispi, p. 701; L’odissea dei
prigionieri, p. 719.
(7) Laura De Marco, Il soldato che disse no alla guerra. Storia
dell'anarchico Augusto Masetti (1888 - 1966), Edizioni Spartaco, 2003.
(8) (Amadeo Bordiga), I socialisti e le colonie, cit.
(9) Louis Fischer, I sovieti nella politica mondiale 1917-1929,
Vallecchi Editore, Firenze, 1957, vol. 1, p. 244.
(10) Ernst Von Salomon, I proscritti, a cura di Marco Revelli, Baldini
Castoldi Dalai, Milano, 2001, p. 483.
(11) Cfr. Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. La
conquista dell’Impero, Mondadori, 1992, Il consenso popolare, p.
334.
(12) Cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano,
Einaudi, Torino, 1967, vol. III, p. 45.
(13) Cfr. Rapporto di Grieco al Comitato centrale del PCd’I di
ottobre novembre 1935, ora in: Giuliano Procacci, Le Internazionali e
l’aggressione fascista all’Etiopia, Annali 1977, Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 1977, p. 139. Antonio Pesenti,
L’avventura d’Etiopia, in AA. VV., Fascismo e antifascismo.
Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano, 1962, p. 374.
(14) Articoli di “Bilan”: Gatto Mammone, L’impérialisme italien
à la conquete de l’Abyssinie, n. 20, giugno-luglio 1935, p. 662.
(Editoriale), L’Italie en Abissynie, n. 22, agosto-settembre 1935,
p. 727. Gatto Mammone, Le déroulement de l’aventure africaine, n.
24, ottobre-novembre 1935, p. 804. [Editoriale], Un mois après l’application
des sanctions, n. 25, novembre-dicembre 1935, p. 821. La victoire de
l’impérialisme Italien ouvre-t-elle un nouveau course de la révolution
mondiale?, n. 31, maggio-giugno 1936, p. 1021. Gatto Mammone, Après
la conquête de l’Ethiopie, n. 46, dicembre 1937–gennaio 1938, p.
1472.
(15) Cfr. Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. La
conquista dell’Impero. cit., p. 358.
(16) Palmiro Togliatti, “L'Unità”, 26 marzo 1948, ora in: Angelo
Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle colonie,
Mondadori, 1992, pag. 36-37.
(17) Thorez ha gettato la maschera, “il programma comunista”, a.
VII, n. 19, 22 ottobre – 3 novembre 1958.
(18) Hosea Jaffe, Africa. Movimenti e lotte di liberazione, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano, 1978, pp. 263 e 265.
(19) Cfr, in particolare: (Amadeo Bordiga), Le lotte di classi e di
Stati nel mondo dei popoli non bianchi storico campo vitale per la
critica rivoluzionaria marxista, “il programma comunista”, a. VII,
n. 3, 11-25 febbraio 1958. Il testo è stato poi ripubblicato più
volte. Fin dai primi numeri, del 1952, “il programma comunista”
offre una ricca documentazione, su quanto avveniva in molti paesi
africani, che si stavano liberando dal gioco coloniale inglese e
francese.
Bibliografia
- Vladimir Ili’c Lenin, Sul movimento operaio italiano, Introduzione
di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma, 1970.
- Amadeo Bordiga. Scritti 1911-1926. Dalla guerra di Libia al
Congresso socialista di Ancona 1911-1914, a cura di Luigi Gerosa,
Graphos, Genova, 1996.
- Giovanni Gozzini, Alle origini del comunismo italiano. Storia della
Federazione giovanile socialista (1907-1921), Dedalo Libri, Bari,
1979.
- Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi
subalterne italiane dal 1860 al 1950, Edizioni Oriente, Milano, 1970,
Due volumi.
- Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Dall’Unità
alla Marcia su Roma, Mondadori, 1992.
- Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. La conquista
dell’Impero, Mondadori, 1992.
- Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle
colonie, Mondadori, 1992.
- Angelo Del Boca, Gli Italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore
1860-1922, Mondadori, 1993.
(d.e.)
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