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21 ottobre 1941 la strage nazista di Kragujevac (Serbia -yugoslavia)
1) 20 ottobre 1944:
Liberazione di Belgrado.
2) 21 ottobre 1941:
A Kragujevac dal 21 al 23 ottobre i tedeschi rastrellano 7.000
cittadini tra cui un'intera scolaresca ginnasiale. L'episodio è
descritto nella poesia "La fiaba cruenta" di Desanka Maksimovic.
=== 1 ===
Si veda anche:
SKOJ: BEOGRAD U NARODNOOSLOBODILACKOJ BORBI
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6542
---
www.glassrbije.org in italiano
I presidenti hanno posato la ghirlanda di fiori sul monumento ai
Liberatori di Belgrado
20. ottobre 2009.
I presidenti della Serbia e della Russia, Boris Tadic e Dimitrij
Medvedev, hanno posato la ghirlanda di fiori davanti al monumento I
Liberatori di Belgrado nella Seconda guerra mondiale. Con il suono
degli inni statali, Tadic e Medvedev hanno reso onore ai liberatori di
Belgrado e si sono iscritti nel Libro delle memorie. I due presidenti
sono stati accolti con l´applauso e con il grido "Serbia-Russia",
da diverse centinaia di cittadini che portavano le bandiere dei due
stati e i trasparenti con le foto del premier russo Vladimir Putin e
del presidente Medvedev. Alla cerimonia hanno partecipato anche le
alte delegazioni di Russia e Serbia. Al cimitero Liberatori di
Belgrado giacciono 961 guerrieri dell´Armata rossa e 2.994 membri
dell´Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, di cui 2.092
sono stati sepolti nella fossa comune
Giornata della Liberazione di Belgrado
20. ottobre 2009. 14:56
Belgrado oggi celebra il 65° anniversario di liberazione nella Seconda
guerra mondiale. L´operazione per la liberazione di Belgrado fu una
delle più importanti e delle più grandi battaglie nei Balcani durante
la Seconda guerra mondiale, e fu vinta insieme dall´Esercito popolare
di liberazione della Jugoslavia e dall´Armata rossa sovietica.
L´operazione durò dall´11 al 22 ottobre del 1944, e vi persero la
vita 20.000 persone. Da allora persero la vita 15.000 membri delle
forze tedesche d´occupazione, e 9.000 furono catturate. Il Primo
gruppo armato dell´Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia
registrò 3mila morti e 4mila feriti, e il quarto corpo dell´Armata
rossa perse 960 soldati e ufficiali. L´offensiva per la liberazione
della città stessa iniziò il 14 ottobre e fu segnata da difficili
battaglie sulle strade.
=== 2 ===
Si veda anche:
La strage delle "Sumarice" presso Kragujevac nella Storia e
nella
poesia di Desanka Maksimovi´c
http://www.cnj.it/CULTURA/krvavabajka.htm
Desanka Maksimovi´c: Krvava bajka (Fiaba cruenta)
http://www.cnj.it/CULTURA/krvavabajka.htm#traduz1
http://www.cnj.it/CULTURA/krvavabajka.htm#traduz2
La Grande Lezione di Storia
http://www.cnj.it/VALORI/Kragujevac/sumarice.htm
Il seguente articolo e' tratto da "Storia Illustrata" del
gennaio 1979
STERMINIO NAZISTA IN SERBIA
In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l'autunno del
1941. Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la
penisola balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla
rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della
popolazione civile.
di ANTONIO PITAMITZ
Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della
Jugoslavia, nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città
serba posta nel centro della regione della Sumadija, le lezioni
iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la
sintassi della lingua serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la
fisica. In una classe, un professore croato, un profugo fuggito dal
regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il
valore della libertà. Poco lontano, un altro spiega l'opera di un
poeta serbo del romanticismo risorgimentale. La mente rivolta alle
secolari lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella
presente che cresce irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La
voce calma e profonda che illustra i versi del poeta: "La libertà
è
un nettare che inebria / Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde
a
fatica la tensione, che aleggia anche nell'aula, che grava su tutti,
sulla cittadina, sui suoi abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie
lontane da alcuni giorni alimenta.
Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una
vasta azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con
spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La
ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione
specifica contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno
Stato, il regno dei Karadjordjevic, ma non ha prostrato i popoli della
Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella
terra è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i
tedeschi hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Sumadija
i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e
diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee
telefoniche e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate
saltano. Il movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben
presto è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del
quisling serbo Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli
invasori si sentono troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi
in città. La lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani,
e la conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi
una razza inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo
principio è all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una
moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella
capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.
Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la
propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le
argomentazioni che diffondono sono quelle care alla "dottrina"
nazifascista dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di
averli salvati dagli ebrei e dai capitalisti, e promettono anche di
salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere sicuramente
sconfitto sul fronte orientale.
L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla
grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una
croce uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in
direzione di Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore,
repressione, lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono
a indebolire il sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito.
A dare contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda
tedesca non mancano. La carta geografica dell'Asse viene bruciata in
pieno giorno. Il fuoco divora anche una delle fabbriche militari della
città. Un treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea
Kragujevac-Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da
vincitori e occupanti, i tedeschi si trovano nella condizione di
assediati.
È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da
kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la
Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni nazionali
e socialiste che guida la lotta della Sumadija, il cuore della Serbia.
Gli operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni
partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento
nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono
le armi, le munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne,
bambini e ragazzi portano quotidianamente ai combattenti del bosco.
Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di
bande, che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei
signori nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941
Kragujevac conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia
centrale. Ma i due battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi
dispongono non sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre
compagnie partigiane che operano fuori della città. Né tantomeno la
Gestapo è in grado di bloccare i gruppi clandestini che si annidano
dentro. La loro azione anzi si fa sempre più audace, punta sul
risultato militare, ma ricerca anche l'effetto psicologico. Per i
partigiani, importante è non soltanto colpire il nemico, ma aiutare
anche i serbi oppressi a sperare, a vivere. Una notte d'agosto, cento
metri di ferrovia vengono fatti saltare in città, proprio sotto il
naso dei tedeschi.
È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e
il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando
nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e
conseguentemente mette radici ancora più profonde in Sumadija, il
generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera
che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere
risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una
spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A
rendere più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa
la "filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una
vita umana
non vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una
"crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano
all'azione. La macchina si mette in moto.
Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio.
A decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo
Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia,
uccisi, massacrati. A Sabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai
14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento
muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46
chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10
ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10
tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è
"sentenziata" la punizione di Kraljevo, un'altra città che
resiste. I
plotoni di esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono
5000. Sembra impossibile immaginare una strage ancora più grande.
Eppure, l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di
massimo orrore.
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione
punitiva"
comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di
Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li
trascinano dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino,
Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi
d'albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo
contro i partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di
pastori. Vivono un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel
quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al
paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio
conto che avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono
pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento
dai partigiani, che attaccano senza sosta.
Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione
non
tarda a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100
cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito.
Duemilatrecento persone sono condannate a morte.
La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich:
comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti,
66 persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i
collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno
successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo
nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre
chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grosnica, Meckovac,
Marsic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono
costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è
imposto a Grosnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di
Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I
fascisti serbi strappano il pope dall'altare con il vangelo ancora in
mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della
comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le
mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di
morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande
massacro".
L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba,
gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate
nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno
può più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene
ucciso. È quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un
vecchio che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore
Koenig, tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo.
Nessuno sfugge, nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai
che
lavora tranquillamente a un torrente, i tre popi di una chiesa, che
sperano di trovare la salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a
stanare ovunque. Gli impiegati sono portati fuori dal municipio;
giudici, scrivani, pubblico, dal tribunale. Dalle abitazioni vengono
tratti anche gli ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme
al suo cliente, che con altri disgraziati marcia verso il suo destino,
una guancia insaponata, l'altra no.
Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione
di quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la
normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone
Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato
presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non
frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della
città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in
aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante,
combatte l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da
passione pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti
siano presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che
però si trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che
i ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la
più violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato
dopo uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle
aule la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi
d'azione", i
suoi propagandisti e sabotatori.
L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti
dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi
hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è
appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano.
Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo
invalido che si trascina con la stampella, per il quale invano una
professoressa intercede. Anche la classe che il professore di tedesco
tenta di salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice,
per rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente
una seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi
ragazzi. Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma
in quel momento un alunno si alza dall'ultimo banco. È lo spilungone
della classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e
sbattono fuori tutti.
I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa.
Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe,
e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in
Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della
Croazia. Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando
hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola
non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere
insieme ai loro ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno
insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne
non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i
professori e gli alunni, e "cento berretti levarsi in segno di
saluto". I ragazzi credono ancora che torneranno.
Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella
immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai
partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a
migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per
Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi
10.000, su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non
hanno tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei
detenuti sono, con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.
Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte,
la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di
fucileria. È l'avvio della grande carneficina. Contando sulla
sorpresa, e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni
dei
condannati riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga.
Altri, come Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se
non è colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di
blocco. Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a
bruciapelo. Gli sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di
grazia nella spalla invece che in testa, lo lascia a terra credendolo
morto. L'uomo striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva
alla casa di un amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i
fascisti serbi, che lo riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che,
essendo ormai in fin di vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo
non muore.
Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue
freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano
che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi
fanno la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano,
per esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo
sono di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori
i loro amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono
generosi. Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei
loro protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese
alleato dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi.
Un dalmata si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un
croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a
salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la
sua "autorità" di "alleato", che non ha ancora 16
anni. Un serbo,
invece, mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle
truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da
parte.
Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore,
insegnante di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un
fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che
alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua.
Basterebbe che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando
passano i fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle
lunghe
ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera
natura dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla
fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori
che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi
in due gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori.
Alla testa di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo
marcia verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come
dovessero danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano.
Intonano "Hej Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli
slavi.
Cadono cantando.
Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci
chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del
giorno 21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60
anni cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi
hanno più che triplicato il "coefficiente dichiarato" di
rappresaglia.
I graziati sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno
a piangere un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il
sabato successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il
sabato è il giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia
accesa una candela gialla e per ogni candela, cui si accompagna un
pane che è da benedire con il vino santo, il pope reciti la parola dei
defunti. I sacerdoti rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette
sono stati fucilati. Ma il rito deve essere compiuto. Mentre le donne
piantano le candele, presentano i pani, gridano il nome del defunto, i
due preti cantano l'antica preghiera della liturgia veteroslava.
Dandosi il cambio pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.
Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla
strage, alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando
cadaveri. Kragujevac ha fatto il "suo" appello. È la prova che
Zivotjin Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici
di Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte
più di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e
benedetti in un giorno più di settemila pani... E furono accese
settemila e trecento candele...".
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