Archivio storico"Benedetto Petrone"
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27 febbraio 1933 L'INCENDIO DEL REICHSTAG E IL GIOVANE COMUNISTA OLANDESE VAN DER LUBBE
NOTA DELL'ARCHIVIO b PETRONE , RICEVIAMO QUESTO CONTRIBUTO INVIATO DAI COMPAGNI DEL CIRCOLO PROLETARIO lANDONIO DI VARESE SU UN EPISODIO SUL QUALE MOLTO SI DISCUSSE SE ESSO CONTRIBUTO ALL'AFFERMAZIONE DEL NAZISMO. QUESTO DOCUMENTO REDATTO DA DINO ERBA LO PUBBLICHIAMO INTEGRALMENTE IN ATTESA CHE ALTRI COMPAGNI CI INVIINO IL LORO, QUALUNQUE SIA LA POSIZIONE LA REDAZIONE DELL'ARCHIVIO Il testo che segue costituisce l'Introduzione a una raccolta di articoli apparsi su «Prometeo», rivista della Sinistra comunista italiana pubblicata a cavallo tra gli anni '20 e '30, che sarà prossimamente data alle stampe dalle edizioni All'Insegna del Gatto Rosso.]
trecentomila iscritti al P.C.T. fossero degli esaltati. [...] Van der Lubbe è un rivoluzionario che non ha fatto che cercare di forzare la situazione. Il fatto che non ci sia riuscito, è un altro conto. (La lotta di classe in Germania e l’incendio del Reichstag, «Prometeo», n. 95, 12 novembre 1933).
Il 27 febbraio 1933, il giovane comunista olandese Marinus van der Lubbe incendiò il Reichstag, sede del parlamento tedesco. Il suo gesto nasceva come protesta contro la violenta politica anti proletaria attuata dal regime nazista, al potere dall’inizio dell’anno. E, con questa iniziativa, van der Lubbe avrebbe voluto accendere la miccia della lotta. Avvenne il contrario, la repressione si inasprì. Ancor prima che tale conseguenza fosse palese, il giovane olandese fu colpito da una violenta campagna di calunnie, che si protrassero negli anni. Furono poche le voci che si levarono in sua difesa, tra queste quella della sinistra comunista italiana, come poi vedremo. Ma la vicenda di Marinus van der Lubbe presenta interesse per altri importanti aspetti. Recentemente, è apparso un piccolo libro assai interessante, dell’olandese Nico Jassies, Berlino Brucia. Marinus van der Lubbe e l’incendio del Reichstag(1). Il libro è piccolo (meno di cento pagine), ma condensa una minuziosa ricerca, durata un decennio, grazie alla quale l’autore smantella quegli sciagurati luoghi comuni, attraverso i quali l’ideologia dominante, di destra come di sinistra, pervade il movimento operaio e proletario.
b) dimostrare che dalle «utopie di redenzione sociale» (ovvero dalla rivoluzione comunista) possono derivare solo tragiche conseguenze(2).
Negli anni Settanta, il Partito Comunista Italiano sviluppò con protervia la teoria della provocazione, per togliere legittimità politica al «partito armato», in particolare alle Brigate Rosse. Accusandole di essere strumento di non meglio identificate cospirazioni reazionarie, ordite ora dalla CIA, dal SID, dal Mossad, ora da «grandi vecchi»... Così facendo, i nazional comunisti del PCI finirono per coprire le «cospirazioni» reali che, a suon di stragi, in quegli anni insanguinarono l’Italia, con le conseguenze sociali, e politiche, che oggi scontiamo. Altrettanto è avvenuto in occasione dell’attentato (o dell’azione militare) dell’11 settembre 2001, quando una schiera di begli spiriti si è messa ad almanaccare su un possibile complotto ordito da ambienti più o meno vicini all’amministrazione Bush, per giustificare aggressioni militari contro alcuni Paesi islamici, prima l’Afghanistan e poi l’Iraq. Tutto è possibile, tuttavia anche la fantasia deve avere un fondamento, che risiede nei rapporti di produzione storicamente determinati e nei contrasti che ne derivano, non necessariamente antagonisti, come nel caso di scontri che vertono sulla ripartizione del reddito o meglio della rendita, come nel caso dei Paesi islamici produttori di petrolio, di cui Bin Laden si fece paladino. Questi scontri sono sicuramente assai intricati e per certi versi «oscuri», ma banalizzarli in una logica da spy story di basso profilo significa cadere in una concezione poliziesca della storia, in cui i registi sono gli esponenti delle classi dominanti, che tutto fanno e tutto disfano. I sottomessi, i proletari, gli oppressi non hanno alcun ruolo, se non attendere speranzosi una catartica liberazione (Da parte di chi? Non si sa). E meno si muovono, meglio è, per loro... Alcuni
«marxisti», inconsciamente (ma fino a che punto non è prevalso in loro
il sentimento di «quieto vivere» piccolo borghese...), si sono fatti
sedurre da tale prospettiva. Nel marxismo, ci sono sicuramente delle
reminescenze escatologiche(5), ma al tempo stesso si è sviluppata una
concezione politica che pone in primo piano la prassi, ossia l’attività
cosciente per mutare l’esistente, così come Marx afferma nelle Tesi
su Feuerbach(6). E allora si tratta di uscire dalle astratte
contrapposizioni ideologiche, per seguire i processi reali, in cui le
violenze e gli scontri sono ricondotti ai loro presupposti materiali,
ossia allo sfruttamento capitalistico e alle lotte dei «poveri» contro i
«signori», al di fuori di ogni mistificazione, in cui prevalgono le
astute disquisizioni di carattere tattico e politologico. Una volta
spazzata via la fuffa ideologica, la «violenza» assume allora
significati del tutto diversi. Per ricondurre la questione della violenza
a tale orientamento metodologico, abbiamo preso in esame l’atteggiamento
che ebbe, «a caldo», la Sinistra comunista italiana di fronte
all’incendio del Reichstag. Un atteggiamento che merita particolare
attenzione, anche perché non citato nel libro di Nico Jassies e, per vari
motivi, poco conosciuto in generale. Presentiamo alcuni articoli apparsi
su «Prometeo», quindicinale della Sinistra comunista italiana,
pubblicato in Francia e in Belgio dal 1928 al 1937. Oltre che per le
implicazioni teorico-politiche, gli articoli sono interessanti anche per
gli aspetti giuridici, che furono sollevati nel corso del processo. (1)
NICO JASSIES, Berlino Brucia. Marinus van
der Lubbe e l’incendio del Reichstag, Prefazione di Antonio
Senta, Zero in Condotta, Milano, 2008. Il libro è stato pubblicato per la
prima volta in Olanda, nel 1999, successivamente nel 2000 e 2002; in
Francia nel 2004. (3)
Sul piano letterario, la teoria del complotto ha avuto numerose
espressioni, tra cui La sommossa di
ÈMILE GABORIAU, L’agente segreto
di JOSEPH CONRAD, La valle della paura
di ARTHUR CONAN DOYLE, per finire con l’ironica demistificazione di
BULAT OKUD!AVA, L’agente di Tula.
Antico vaudeville. Fatti realmente accaduti, Longanesi & C.,
Milano, 1972. Grottesca metafora dell’era Breznev, trasferita ai tempi
di Tolstoi: ovvero come un piccolo informatore della polizia inventa una
grandiosa congiura, per scroccare un po’ di quattrini. Seguendone
l’esempio, ai giorni nostri, la teoria del complotto ha dato spazio
all’«industria della sicurezza», con un fiorente giro d’affari che,
via via, si è autonomizzato da motivazioni reali e prospera solo grazie a
un falso «senso di insicurezza», alimentato ad arte. Cfr. LORETTA
NAPOLEONI, Economia canaglia. Il lato
oscuro del nuovo ordine mondiale, il Saggiatore, Milano, 2008,
pp.195-198; DAVID LYON, La società
sorvegliata, Feltrinelli, Milano, 2002. (6) LUCIEN GOLDMAN, L’ideologia tedesca e le tesi su Feuerbach, Samonà e Savelli, Roma, 1969.
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