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VOCI
DALL'IRPINIA
LA
PAGINA DI LUCIO GAROFALO
DI
LIONI
I
Litfiba dalle origini new wave allo sputtanamento attuale
Alla
fine degli anni ‘70, in Gran Bretagna e negli Usa la bufera del
punk settantasettesco era ormai passata come una meteora. Dalla
tempesta emersero soprattutto due gruppi, i Clash e gli Stranglers,
che operarono una svolta decisiva sotto il profilo musicale e
poetico, significativa anche sul piano dell’impegno politico. Il
punk si evolveva in quella temperie artistica che sprigionava le
sonorità della musica dark e post-punk,
dell'elettronica e della new wave. Gli artisti di riferimento
divennero i Bauhaus, i Gang of Four, i Joy Division, i Killing Joke,
i Police, i Ruts, i Simple Minds, i Tuxedomoon, ma anche personaggi
eclettici come David Bowie e la cantautrice statunitense Patti Smith.
In
quegli anni Firenze stava per diventare una delle capitali europee
del clima culturale ed artistico legato alla New Wave.
D’altro canto, quella non fu la prima volta in cui il capoluogo
toscano ebbe modo di rappresentare un crocevia dell’arte e della
cultura, in Italia e in Europa. Già in altri momenti storici
Firenze era stata al centro di formidabili esperienze di risveglio e
di trasformazione artistica e culturale in Italia e nel mondo. Si
pensi al periodo assolutamente unico e irripetibile in cui Firenze
fu la culla della civiltà umanistica e rinascimentale europea, tra
la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento.
Si perdoni il paragone che potrà apparire azzardato e irriverente.
Nei
primi anni ’80 la scena musicale europea fu attraversata dalle
avanguardie dark, post-punk e new wave.
In quegli anni Firenze pullulava di locali alternativi (new wave o
post-punk) e stavano emergendo band che segneranno il corso
successivo del rock in Italia. Basta citare il caso dei Diaframma e
dei Litfiba, senza dimenticare i Neon, i Pankow ed altre band
fiorentine che hanno calcato la scena underground di quegli anni. I
Diaframma e i Litfiba furono gli alfieri e i precursori di una
corrente musicale alternativa e innovativa che fu assorbita e
sfruttata dall’industria discografica e culturale. Le due band
fiorentine anticiparono i fermenti di un profondo rinnovamento
musicale, influenzando anche la sfera del costume, tanto che a
Firenze e dintorni la new wave si impose come una tendenza
culturale e sociale di massa, assumendo i contorni di una moda
commerciale che procurò un’immensa fortuna all’industria
tessile di Prato.
Il
nome dei Litfiba fu scelto prendendo spunto dall'indirizzo telex
della sala prove usata all’inizio della loro carriera: "Località
ITalia FIrenze via dei BArdi". In arte Litfiba. La
composizione del gruppo è mutata più volte nel corso degli anni a
causa dei frequenti avvicendamenti, ma la formazione originaria,
quella del periodo d’oro compreso tra il 1980 e il 1989, riuniva
cinque elementi storici: Gianni Maroccolo al basso, Federico
Renzulli alla chitarra, Francesco Calamai alla batteria (a cui
subentrò nel 1984 Ringo De Palma), Antonio Aiazzi alle tastiere e
Piero Pelù alla voce. In seguito a divergenze artistiche e
personali sorte all’interno della band, in particolare con il
manager Alberto Pirelli, Gianni Maroccolo e Ringo De Palma si
congedarono definitivamente dai Litfiba per unirsi al gruppo punk
emiliano CCCP Fedeli alla linea, ribattezzato in seguito CSI.
A
differenza dei Diaframma, che prediligevano le tonalità dark
più cupe ed ossessive, i Litfiba ne inventarono di proprie ed
originali, aggiornando il sound della new wave in chiave
mediterranea e creando una versione latina dell’hard rock e
dell’heavy metal.
Il
primo brano dei Litfiba, intitolato "A Satana", era
un pezzo solo strumentale in quanto la band non aveva ancora trovato
un cantante. Fu il tastierista Antonio Aiazzi ad ingaggiare come
vocalist un giovane liceale: Pietro Pelù. Nel luglio dell'82 i
Litfiba vinsero la seconda edizione dell'Italian Festival Rock di
Bologna e, nello stesso anno, uscì l'Ep Guerra, contenente
brani assai significativi non tanto a livello musicale quanto
poetico. Lo stile rievoca le sonorità dark/post-punk tipiche
dei primi anni ’80. Infatti, il pentametro musicale adottato dai
Litfiba ai loro esordi era quello tipico di David Bowie, Killing
Joke, Stranglers, Tuxedomoon, assecondando il gusto estetico del
momento. Nel 1983 uscì per la casa discografica Fonit Cetra il 45
giri "Luna/La preda" e nella compilation Body
Section apparve il bellissimo pezzo "Transea".
Sempre nello stesso anno i Litfiba realizzarono la colonna sonora
dello spettacolo teatrale Eneide di Krypton.
Il
1984 fu l'anno della svolta per i Litfiba. Venne fondata la casa
discografica IRA, ovvero "Immortal Rock Alliance",
che divenne ben presto l’etichetta indipendente italiana più
importante, per la quale uscì anche l’album Siberia dei
Diaframma. Nello stesso anno si unì al gruppo il batterista Luca De
Benedictis, in arte Ringo De Palma, il migliore amico ed ex-compagno
di Liceo di Pier Pelù. Nel 1984 uscì l'Ep Yassassin, con "Electrica
danza", una canzone d'amore bohemienne in cui è
palese l'influsso esercitato da David Bowie. Sempre nell’84 uscì
la prima antologia dei Litfiba, Catalogne Issue, con altri
due classici del loro repertorio: "Onda araba" e
"Versante est", in cui il linguaggio della new wave
è rivisitato in chiave mediterranea. Sempre per l'IRA uscì
nell’86 l'Ep Transea, ispirato da atmosfere e suggestioni
orientali che saranno una fissazione di Pelù: gli zingari dell'est.
In
ogni caso il ciclo più originale e significativo della produzione
artistica dei Litfiba è costituito dalla cosiddetta "trilogia
del potere", di cui Litfiba 3 (del 1988) rappresenta
l'ultimo atto, il seguito di Desaparecido (del 1985) e 17
Re (del 1986). Questi tre dischi, incisi per la solita IRA, sono
accomunati dall'avversione per i regimi totalitari. Dal tour
successivo all’uscita di 17 Re fu estratto il live 12/5/87,
il primo album dal vivo dei Litfiba. Nel 1989 uscì Pirata,
il disco che sancì la consacrazione definitiva al grande pubblico.
I Litfiba iniziarono a riscuotere una popolarità impensabile per un
gruppo rock italiano, che da band di culto e di nicchia si
trasformarono in un fenomeno di massa. Intanto crescevano le rivalità
artistiche e personali tra Maroccolo e Renzulli, che causarono
l’abbandono definitivo del gruppo da parte del bassista. Il quale
nutriva una passione per le tonalità cupe, rese dalla dominanza del
basso e delle tastiere elettriche sugli altri strumenti, mentre
Ghigo seguiva una concezione più hard rock, all’insegna
dei Led Zeppelin per intenderci, privilegiando gli assoli e le
sonorità della chitarra elettrica.
La
fase compresa tra il 1990 e il 1999 è legata alla cosiddetta “tetralogia
degli elementi”, che annovera quattro dischi di
indubbio successo commerciale: El diablo (inciso per la CGD
nel 1990), Sogno ribelle (sempre per la CGD nel 1992), Terremoto
(ancora per la CGD nel 1993) e Spirito (inciso
per la EMI nel 1994). L’assenza di Maroccolo si avverte. Lo
spirito new wave dei Litfiba era incarnato proprio da Gianni
Maroccolo; la sua geniale vena creativa aveva ispirato la produzione
artistica più originale e valida della band. Senza di lui i Litfiba
non potevano più essere gli stessi. L’album di questo periodo che
merita di essere segnalato è Terremoto, che proiettò per la
prima volta in cima alle classifiche un gruppo rock italiano.
Cavalcando l’onda della protesta emotiva suscitata dalle inchieste
giudiziarie di Tangentopoli, in alcuni brani (ad esempio "Dimmi
il nome", "Maudit" e "Soldi")
Piero Pelù si lancia in polemiche un po’ facili e
qualunquistiche: i bersagli sono la Chiesa, la classe politica
corrotta, la mafia.
In
conclusione, i Litfiba hanno compiuto uno dei più clamorosi "tradimenti"
nella storia del rock italiano. Dopo aver rinnegato l’ispirazione
ribelle, originale e lirica degli esordi, negli anni ’90 hanno
abbracciato una formula pop/rock con venature “metallare”
obsolete e commerciali, avviandosi verso un declino artistico e
giungendo infine alla crisi del sodalizio tra Piero Pelù e Ghigo
Renzulli. E all’inatteso e deludente rientro del 2010.
Lucio
Garofalo
25
ottobre 2010....a proposto di Terzigno
La
“vertenza irpina”, la questione dei rifiuti e l’emergenza
democratica
Da
tempo esiste oggettivamente un’allarmante vertenza in Irpinia, che
si estrinseca in una serie di gravi emergenze di natura ambientale,
sociale, economica e politica. Si pensi anzitutto alla cosiddetta “emergenza
demografica”, cioè al calo inarrestabile della popolazione
irpina, provocato non solo dalla drastica diminuzione delle nascite,
ma anche dal nuovo fenomeno dell’emigrazione giovanile, di tipo
intellettuale. Tali fattori concorrono allo spopolamento crescente dei
paesi irpini, tranne pochi casi virtuosi ma isolati, che appaiono in
controtendenza grazie al flusso di lavoratori immigrati
extracomunitari o provenienti da altre province, soprattutto
dall'hinterland napoletano.
Si
pensi al problema della disoccupazione (il tasso della disoccupazione
giovanile in Irpinia ha superato il 50 per cento), della
precarietà economica sempre più estesa, di cui nessuno si preoccupa
e che nessuno a livello istituzionale è intenzionato ad affrontare.
Ma
su tutte le questioni spicca la cosiddetta “emergenza
sanitaria”, che si traduce nell’infausta decisione di
sopprimere i presidi ospedalieri di Sant'angelo dei Lombardi e di
Bisaccia, che servono un bacino di utenza pari ad almeno cinquantamila
abitanti.
Queste
e altre emergenze irrisolte, come quella scolastica o quella
esistenziale (si pensi all’aumento delle tossicodipendenze e dei
suicidi giovanili), al di là delle molteplici responsabilità locali,
si possono ridurre ad un comune denominatore, identificabile
nell’assenza, o nella riduzione, degli spazi di agibilità
democratica avvertita nel nostro Paese. Si tratta di un fenomeno
preoccupante che va ascritto a livelli sovrapposti di responsabilità,
derivanti dalle iniziative demagogiche assunte dal governo in carica.
Si
pensi alla pesante emergenza ambientale, che riesplode in Campania a
causa del mancato smaltimento dei rifiuti napoletani: si pensi dunque
al problema delle discariche di Savignano Irpino, dell’altopiano del
Formicoso ed altri siti della nostra provincia.
A questo
punto è il caso di soffermarsi a riflettere con lucidità intorno
alla cosiddetta “emergenza” dei rifiuti riesplosa
drammaticamente a Napoli, per smaltire anzitutto le (eco)balle, cioè
le menzogne che ci stanno di nuovo propinando senza risparmio. Balle
gonfiate ad arte, sia dagli organi della stampa borghese, sia dalle
forze politiche formate da varie aggregazioni, che si tratti di
coalizioni targate centro-destra, o si abbia a che fare con
schieramenti politici di marca opposta ma, alla prova dei fatti,
speculare.
La madre
di ogni quesito è la seguente: cui prodest? A chi giova la logica
emergenziale che ogni tanto riaffiora e si tenta di imporre con ogni
mezzo, ricorrendo sia alla disinformazione di massa, alla
manipolazione quotidiana delle notizie e alla propaganda
mistificatrice e filo-camorrista, sia al ricatto e alla violenza
repressiva istituzionalizzata?
Perché
si insegue ad ogni costo lo scontro fisico con le popolazioni locali e
non il dialogo pacifico? A chi conviene provocare uno stato di
conflittualità permanente? A chi fa comodo creare una situazione così
assurda e caotica, al limite della dittatura, peggiore di ogni
fascismo conclamato e di ogni aperto totalitarismo perché più
ipocrita e subdolo, esercitato in concreto, ma formalmente riparato
sotto le vesti di una falsa "democrazia"?
Ormai è
evidente che la cosiddetta "emergenza rifiuti" è
solo un facile pretesto per instaurare nel paese una drastica svolta
in senso autoritario. E’ in atto uno stato di polizia
permanente che fa capo ad un regime cripto-fascista. Ci troviamo
di fronte ad una nuova “strategia della tensione”, che
mescola istanze e pulsioni xenofobe, urgenze di stampo sicuritario,
con vertenze esplosive quali la drammatica questione dei rifiuti.
Pertanto,
la vera emergenza che incombe in Italia è anzitutto quella
democratica. Ormai è un dato di un’evidenza assolutamente
innegabile: non si può fare a meno di constatare l'assenza di
un'autentica forza di opposizione politica e sociale, in grado di
costruire un’alternativa seria e credibile al sistema di potere
imposto dal berlusconismo.
In un
contesto di crescente regressione autoritaria e populista sul piano
nazionale si va delineando una tendenza storica involutiva
causata dalla recessione economica internazionale, a sua volta
riconducibile alla crisi strutturale e senza precedenti che
coinvolge il sistema capitalistico su scala planetaria, i cui effetti
più dolorosi si ripercuotono sulle aree più arretrate e depresse del
Meridione, in modo particolare sul mondo del lavoro produttivo, a
scapito quindi della classe operaia, cioè di quel proletariato
composto in modo crescente da lavoratori immigrati, un proletariato
sempre più precario e malpagato, escluso dalla sfera del potere
politico ed economico.
Se non si
comincia a combattere in modo serio ed efficace le emergenze che
affliggono le nostre comunità e soprattutto le classi lavoratrici,
difficilmente si potrà estirpare alla radice il malessere sempre
più diffuso che angoscia le giovani generazioni irpine. Sembra che
l'ottimismo sia ormai un lusso riservato a pochi privilegiati, nella
misura in cui le nuove generazioni, prigioniere dell'inquietudine
e dello sconforto, non possono nutrire neanche la speranza verso un
avvenire più sereno e soddisfacente, data la totale assenza di
prospettive legate ad un lavoro decente e ad una vita degna d’essere
vissuta.
A causa
della cittadinanza negata alle masse subalterne, i nostri giovani sono
in gran parte costretti a mendicare favori che sono elargiti
attraverso sistemi ereditati dal passato, sia per ottenere un lavoro
a tempo determinato, precario e malpagato, privo di ogni diritto e
tutela, sia per ricevere un normalissimo certificato, per cui i nostri
diritti sono svenduti e sviliti in termini di volgari concessioni in
cambio del voto politico a vita.
Questa
mentalità clientelistica e fatalistica è un malcostume intrinseco
alla “normalità” quotidiana, una situazione ritenuta “naturale”
in base ad una legge di natura che in realtà non esiste. In effetti
le leggi naturali non sono applicabili alla dialettica storica, che è
segnata da tendenze e controtendenze sociali sempre mutevoli, che si
intrecciano in un rapporto di reciproca interazione, per cui nulla è
immutabile nella realtà storica e politica degli uomini, come si
evince dalle esperienze rivoluzionarie del passato che hanno abolito i
privilegi feudali e lo sfruttamento della servitù della gleba.
Condizioni che per secoli gli uomini hanno accettato e riconosciuto
come “giuste” e “ineluttabili”.
Purtroppo,
anche in Irpinia la classe operaia conosce percentuali sconcertanti di
omicidi bianchi, che denunciano un vero e proprio stillicidio di cui
nessuno osa parlare. In Irpinia i lavoratori salariati sono
endemicamente sudditi e ricattabili, in quanto asserviti ai notabili
locali, dato che le assunzioni in fabbrica sono ancora decise secondo
metodi clientelari. I segnali di una ripresa dell’iniziativa
proletaria sono assai deboli, parziali e slegati tra loro; non vi sono
attualmente organizzazioni politiche in grado di favorire
un’accelerazione dei processi di presa di coscienza e di
auto-organizzazione. Il proletariato (non solo quello irpino) non ha
ancora acquisito fiducia in se stesso e non ha ancora rinunciato alle
vane illusioni propinate dai mass-media e dai partiti borghesi.
Lucio
Garofalo
IN OCCASIONE DELL’8
MARZO:
UNA RIFLESSIONE SU
FEMMINISMO E FEMMINILIZZAZIONE NELLA SCUOLA ITALIANA
Probabilmente, occuparsi oggi di un tema
vasto e controverso come il "femminismo" potrebbe
apparire demodé nel senso che, per quanto si possa sollevare un
problema reale ed oggettivo, l’approccio rischierebbe di essere
superato e scorretto in partenza.
Non c’è dubbio che diversi segnali
attestano che l’uguaglianza tra i sessi rappresenta un traguardo
ancora distante quando si tratta dei ruoli decisionali, benché la
presenza femminile in molti settori lavorativi sia in costante
aumento. E’ innegabile come in tutti gli ambiti lavorativi e sociali
i maschi detengano e difendano a denti stretti le posizioni di maggior
prestigio e potere. La discriminazione diventa un dato più
evidente nel campo della politica, soprattutto ai vertici del
potere. Infatti, tranne rare eccezioni, i “boss” dei
partiti politici più importanti in Italia sono quasi tutti elementi
maschili. Ciò è vero anche per gli ambienti della cosiddetta “sinistra
radicale”, compresa Rifondazione comunista, i cui quadri
dirigenti sono stabilmente in mano agli uomini.
Nel contempo, laddove esiste una netta
prevalenza femminile, come nel settore della scuola, il rapporto di
potere è rovesciato: infatti, sono in aumento i dirigenti scolastici
donna. Tuttavia, a riguardo mi sono formato alcune convinzioni che,
all’apparenza, potrebbero risultare invise alle più accese "femministe".
Mi riferisco alla realtà della scuola italiana, soprattutto a livello
dei primi ordini di scolarità: scuola dell’infanzia, scuola
primaria e secondaria di I grado. In tale contesto la
femminilizzazione è un dato dominante. Si pensi alle scuole materne,
laddove gli elementi maschili sono completamente assenti, o alle
scuole elementari, dove i maestri costituiscono una netta minoranza.
Ebbene, sono convinto che uno tra i principali problemi della scuola
italiana (non l’unico, è ovvio) sia rappresentato dall’eccessiva
femminilizzazione.
Mi spiego meglio. Altrove, ad esempio in
Francia o in altri stati europei (in particolare nei paesi scandinavi)
la presenza maschile è più consistente e, in alcuni casi (si pensi
alla Norvegia), è addirittura massiccia. La ragione si intuisce
e si spiega facilmente. In tali paesi gli emolumenti assegnati agli
insegnanti sono più appetibili e convenienti, per cui gli uomini
aspirano in maggior numero ai posti di insegnamento, a differenza del
nostro paese, dove gli stipendi retribuiti alla classe magistrale sono
a dir poco indecenti.
Ebbene, lo scarso valore economico
riconosciuto alla professione docente in Italia, deriva almeno in
parte dalla eccessiva femminilizzazione nella scuola. Infatti, le
donne che insegnano sono nella quasi totalità madri e mogli,
impegnate ad attendere alle faccende domestiche e accudire la prole,
relegate in ruoli marginali rispetto ai coniugi, che magari svolgono
funzioni più vantaggiose e remunerative sul piano economico.
Pertanto, le insegnanti che sono anche
mogli e madri non hanno molto tempo, né voglia per dedicarsi ad
attività sindacali e sociali, e tantomeno per occuparsi di politica.
Per le medesime ragioni, quando si tratta di lottare e rivendicare i
propri diritti, ottenere miglioramenti nella propria condizione
lavorativa, le insegnanti (mogli e madri) tendono a sottrarsi e
disimpegnarsi in modo decisivo, per cui il potere contrattuale della
categoria si è ridotto progressivamente. Non a caso le adesioni agli
scioperi nel comparto scuola sono più basse rispetto ad altri
settori, laddove la presenza maschile è più alta. Si pensi ad
esempio all’industria metal-meccanica o ad altri ambienti di lavoro.
Il mio non è un atto d'accusa nei
confronti della presenza femminile nella scuola e nella società
italiana, anzi. Il mio intento è esattamente quello di ridestare le
coscienze assopite delle donne, distratte da troppi impegni familiari
e di altro tipo, siano esse insegnanti, madri e mogli, siano esse
indipendenti, perché la liberazione della società passa anche
attraverso l'emancipazione effettiva delle donne da una condizione di
marginalità e subalternità a cui ancora sono costrette nella
società italiana, in vari ambiti professionali, ma ancor più sul versante del
potere politico decisionale.
Lucio Garofalo
LAVORARE MENO PER LAVORARE TUTTI
E VIVERE MEGLIO
Mi capita a volte di pensare a un paradosso universale, in quanto
colpisce
direttamente l'intera compagine umana. Mi riferisco ad un'assurda e
insanabile contraddizione tra il crescente progresso tecnologico e
scientifico avvenuto soprattutto negli ultimi decenni, che
permetterebbe
all'intero genere umano di vivere in condizioni decisamente migliori,
e la
realtà concreta che denota un sensibile peggioramento dello stato in
cui
versa gran parte dell'umanità, in particolare i produttori, cioè le
classi
lavoratrici salariate. Questa assurda incongruenza opprime anche i
lavoratori che vivono nel mondo occidentale.
Ebbene, grazie alle più recenti e avanzate conquiste ottenute nel
campo
tecnico e scientifico, la nobile ed antica "utopia"
dell'emancipazione
dell'umanità dal bisogno di lavorare, inteso come prestazione di
tempo
alienato e mercificato, cioè sottoposto a condizioni di servitù e
sfruttamento economico, è virtualmente realizzabile oggi di ieri.
Ciò significa che tale ipotesi sarebbe oggettivamente possibile e
necessaria, ma nel contempo è impraticabile nel quadro dei rapporti
giuridici ed economici vigenti, imperniati su leggi e strutture
classiste
insite nel modo di produzione capitalistico, che non a caso attraversa
un
periodo di grave crisi ideologica e sistemica di portata globale.
Pertanto, l'idea dell'affrancamento dell'umanità dallo sfruttamento e
dall'alienazione che si verificano durante il tempo di lavoro,
potrebbe
dirsi prossima alla sua attuazione. Tuttavia, una simile meta non si
potrebbe conseguire senza una rottura rivoluzionaria compiuta a
livello
planetario nel quadro del dominio capitalistico tuttora vigente. Mi
riferisco esplicitamente all'abolizione della proprietà privata dei
grandi
mezzi della produzione economica, che controlla e detiene l'alta
borghesia
industriale e finanziaria.
Così come gli antichi greci si occupavano liberamente e
amabilmente di
politica, filosofia, poesia e belle arti, godendo dei piaceri concessi
dalla
vita, essendo esonerati dal lavoro manuale svolto dagli schiavi,
parimenti
gli uomini e le donne del mondo odierno potrebbero dedicarsi alle
piacevoli
attività del corpo e dello spirito, affrancandosi finalmente dal
tempo di
lavoro assegnato alle macchine e condotto grazie ai processi di
automazione
ed informatizzazione della produzione dei beni di consumo.
Questo traguardo rivoluzionario è già raggiungibile, almeno in
teoria,
grazie alle enormi potenzialità "emancipatrici" ed
"eversive" fornite dallo
sviluppo della scienza e della tecnica soprattutto nel campo della
robotica,
della cibernetica e dell'informatica.
Lucio Garofalo
Smemorati
nel giorno della Memoria
Come si sa, il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita dal
Parlamento italiano con la legge 211 del 20 luglio 2000, in
ottemperanza
alla proposta internazionale di dedicare il 27 gennaio alla
commemorazione
delle vittime dell'Olocausto. La scelta della data rievoca il 27
gennaio
1945, quando le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di
concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo intero l'orrore del
genocidio nazista.
Il ricordo della Shoah è celebrato da molte nazioni e dall'ONU in
ossequio
alla risoluzione 60/7 del 1° novembre 2005. Il concetto di olocausto,
dal
greco holos, "completo", e kaustos, "rogo", come
nelle offerte sacrificali,
venne introdotto alla fine del XX secolo per indicare il tentativo
nazista
di eliminare i gruppi di persone "indesiderabili": Ebrei ed
altre etnie come
Rom e Sinti, cioè gli zingari, comunisti, omosessuali, disabili e
malati di
mente, Testimoni di Geova, russi, polacchi ed altre popolazioni di
origine
slava.
Il vocabolo Shoah, che in lingua ebraica significa
"distruzione", o
"desolazione", o "calamità", nell'accezione di
una sciagura improvvisa e
inattesa, è un'altra versione usata per indicare l'Olocausto. Molti
Rom
usano l'espressione Porajmos, "grande divoramento", o
Samudaripen,
"genocidio", per definire lo sterminio nazista. Sommando
agli Ebrei queste
categorie di persone il numero delle vittime del nazismo è stimabile
tra i
10 e i 14 milioni di civili, e fino a 4 milioni di prigionieri di
guerra.
Oggi il termine "olocausto" è usato anche per esprimere
altri genocidi,
avvenuti prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, e designare
qualsiasi strage volontaria e pianificata di vite umane, come quella
causata
da un conflitto atomico, da cui discende la voce "olocausto
nucleare".
Talvolta la nozione di "olocausto" serve per descrivere il
genocidio armeno
e quello ellenico, che provocò lo sterminio di 2,5 milioni di
cristiani da
parte del governo nazionalista ottomano dei Giovani Turchi tra il 1915
e il
1923.
Tuttavia, con questo articolo mi preme resuscitare la memoria di altre
terribili esperienze storiche in cui furono consumati orrendi eccidi
di
massa troppo spesso ignorati o dimenticati dai mass-media e dalla
storiografia ufficiale. Mi riferisco in modo particolare allo
sterminio
perpetrato contro gli Indiani d'America e a quello contro i
"Pellerossa" del
nostro Sud, i briganti e i contadini ribelli del Regno delle Due
Sicilie.
Dopo la scoperta del Nuovo Mondo ad opera di Cristoforo Colombo nel
1492,
quando giunsero i primi coloni europei, il continente nordamericano
era
popolato da un milione di Pellerossa riuniti in 400 tribù e circa 300
famiglie linguistiche. Quando i coloni bianchi penetrarono nelle
sterminate
praterie abitate dai Pellerossa, praticarono una spietata caccia ai
bisonti,
il cui numero calò drasticamente rischiando l'estinzione. I
cacciatori
bianchi contribuirono allo sterminio dei nativi che non potevano
vivere
senza questi animali, da cui ricavavano cibo, pellicce ed altro. Ma la
strage degli Indiani fu opera soprattutto dell'esercito statunitense
che per
espandersi all'interno del Nord America cacciò i nativi dalle loro
terre
attuando veri e propri massacri senza risparmiare donne e bambini. I
Pellerossa furono letteralmente annientati attraverso uno spietato
genocidio.
Oggi i nativi nordamericani non formano più una nazione, essendo
stati
espropriati della terra che abitavano, ma anche della memoria e
dell'identità culturale. Infatti una parte di essi si è
progressivamente
integrata nella civiltà bianca, mentre un'altra parte vive
ghettizzata in
centinaia di riserve sparse nel territorio statunitense e in quello
canadese.
Un destino comune, anche se in momenti e con dinamiche diverse,
associa i
Pellerossa ai Meridionali d'Italia. Questi furono definiti
"Briganti",
vennero trucidati, torturati, incarcerati, umiliati. Si contarono 266
mila
morti e 498 mila condannati. Uomini, donne, bambini e anziani subirono
la
stessa sorte. Processi manovrati o assenti, esecuzioni sommarie,
confische
dei beni. Ma i Meridionali erano cittadini di uno Stato molto ricco.
Il Piemonte dei Savoia era fortemente indebitato con Francia e
Inghilterra,
per cui doveva rimpinguare le proprie finanze. Il governo della
monarchia
sabauda, guidato dallo scaltro e cinico Camillo Benso conte di Cavour,
progettò la più grande rapina della storia moderna: cominciò a
denigrare il
popolo Meridionale per poi asservirlo invadendone il territorio: il
Regno
delle Due Sicilie, lo Stato più civile e pacifico d'Europa. Nessuno
venne in
nostro soccorso. Solo alcuni fedeli mercenari Svizzeri rimasero a
combattere
fino all'ultimo sugli spalti di Gaeta, sino alla capitolazione.
I vincitori furono spietati. Imposero tasse altissime, rastrellarono
gli
uomini per il servizio di leva obbligatoria (facoltativo nel Regno
delle Due
Sicilie); si comportarono vigliaccamente verso la popolazione e verso
il
regolare ma disciolto esercito borbonico, che insorsero. Ebbe inizio
la
rivolta dei Briganti Meridionali. Le leggi repressive furono simili a
quelle
emanate a discapito dei Pellerossa. Le bande di briganti che lottavano
per
la loro terra avevano un pizzico di dignità e di ideali, combattevano
un
nemico invasore grazie anche al sostegno delle masse popolari e
contadine,
deluse e tradite dalle false promesse concesse dall'"eroico"
pirata,
mercenario e massone, Giuseppe Garibaldi.
Contrariamente ad altre interpretazioni, non intendo assolutamente
comparare
il fenomeno del Brigantaggio meridionale post-unitario alla Resistenza
partigiana del 1943-1945. Per varie ragioni, anzitutto perché nel
primo caso
si trattò di una vile e barbara aggressione militare, di una guerra
di
rapina e di conquista che ebbe una durata molto più lunga della
guerra
civile tra fascisti e antifascisti: l'intero decennio dal 1860 al
1870.
I briganti meridionali furono costretti ad ingaggiare un'aspra e
strenua
resistenza che ha provocato eccidi spaventosi, in cui vennero
trucidati
centinaia di migliaia di contadini e di briganti, persino donne,
anziani e
bambini, insomma un vero e proprio genocidio perpetrato contro le
popolazioni del Sud Italia. Una guerra conclusasi tragicamente, dando
luogo
al fenomeno dell'emigrazione di massa dei contadini meridionali. Un
esodo di
proporzioni bibliche, paragonabile alla diaspora del popolo ebraico.
Infatti, i meridionali sono sparsi nel mondo ad ogni latitudine e in
ogni
angolo del pianeta, hanno messo radici ovunque, facendo la fortuna di
numerose nazioni: Argentina, Venezuela, Uruguay, Brasile, Stati Uniti
d'America, Svizzera, Belgio, Germania, Australia, e così via.
Se si intende equiparare ad altre esperienze storiche la triste
vicenda del
brigantaggio e la feroce repressione sofferta dal popolo meridionale,
credo
che l'accostamento più giusto sia quello con la storia dei Pellerossa
e le
guerre indiane combattute nello stesso periodo, vale a dire verso la
fine
del XIX secolo. Guerre sanguinose che hanno causato stragi e delitti
raccapriccianti contro i nativi nordamericani. Un genocidio ignorato o
dimenticato, come quello consumato a discapito del popolo dell'Italia
meridionale.
Nel contempo condivido solo in minima parte il giudizio, forse
oltremodo
drastico e perentorio, probabilmente unilaterale, che attiene al
carattere
anacronistico, codino e antiprogressista, delle ragioni storiche,
politiche
e sociali, che furono all'origine della lotta di resistenza combattuta
dai
briganti meridionali. In politica ciò che è vecchio è quasi sempre
retrivo e
conservatore. E' in parte vero che dietro le imprese e le azioni di
guerriglia compiute dai briganti si riparavano gli interessi di un
blocco
reazionario, filo-borbonico, sanfedista e filo-clericale. Tuttavia,
inviterei ad approfondire le motivazioni e le spinte che animarono la
strenua resistenza dei briganti contro gli invasori sabaudi.
Non intendo annoiare i lettori con le cifre sui numerosi primati
detenuti
dalla monarchia borbonica e dal Regno delle Due Sicilie in ampi
settori
dell'economia, dell'assistenza sanitaria, dell'istruzione e via
discorrendo,
né mi sembra opportuno esternare sciocchi sentimenti di nostalgia
verso una
società arcaica, dispotica e aristocratico-feudale, quindi verso un
passato
di barbarie e oscurantismo, ingiustizia ed oppressione, sfruttamento e
asservimento delle plebi rurali del nostro Sud. Ma un dato è certo:
la
dinastia sabauda era senza dubbio più rozza, retriva e ignorante,
meno
moderna e progredita di quella borbonica. Il Regno delle Due Sicilie
era uno
Stato molto più ricco e avanzato del Regno dei Savoia, tant'è vero
che
costituiva un boccone appetibile per le maggiori potenze europee del
tempo,
Francia e Inghilterra in testa. Questo è un tema estremamente vasto,
complesso e controverso, che esige un approfondimento adeguato.
Concludo con una rapida chiosa circa le presunte tendenze progressiste
incarnate nei processi di creazione e unificazione degli Stati
nazionali nel
XIX secolo e nella costruzione dell'odierno Stato europeo. Non mi pare
che
tali processi abbiano spinto e assicurato un autentico progresso
sociale,
ideale, morale e civile, ma hanno favorito uno sviluppo prettamente
economico ad esclusivo vantaggio delle classi dominanti e possidenti.
Intendo dire che l'unificazione dei mercati e dei capitali, prima a
livello
nazionale ed ora a livello europeo, non coincide con l'integrazione
dei
popoli e delle culture, siano esse locali, regionali o nazionali.
Ovviamente
le forze autenticamente progressiste e rivoluzionarie, devono puntare
a
raggiungere il secondo traguardo.
Lucio Garofalo
La crisi in Irpinia
Se provassi a ragionare sui problemi
concreti dell'Irpinia e mi addentrassi troppo nel merito, temo
che rischierei di espormi a qualche denuncia, giacché un
malcostume tipico dei politici è esattamente quello di sentirsi
facilmente "diffamati" o
“calunniati”, querelando chiunque osi affermare
una verità riconosciuta da tutti, ma sottaciuta, sempre malintesa e
confusa con la menzogna, respinta come una "accusa
infamante".
Ormai siamo giunti ad un punto in cui non
si può più ignorare un insieme di segnali che indicano anche in
Irpinia l’inasprimento delle condizioni di vita delle fasce
sociali più colpite dalla crisi e dalla precarietà economica.
Tali situazioni esistono e si aggravano anche nei piccoli
centri, che non sono più "oasi felici", oltretutto
perché si è allentata la rete di reciproca solidarietà
che in passato assisteva le nostre comunità.
I dati
Istat, relativi al 2008, riferiscono che In Italia
le famiglie in condizioni di povertà
relativa sono stimate in quasi 2 milioni 737 mila e
sono l’11,3% delle famiglie residenti. Gli italiani
poveri hanno superato quota 8 milioni, esattamente
sono stati calcolati 8 milioni 78 mila di poveri, pari al 13,6%
della popolazione nazionale. A parte le stime della povertà
assoluta in Italia, che pure rappresentano un serio
motivo di allarme, le cifre più inquietanti denunciano
l’incremento costante della povertà
relativa negli ultimi anni, soprattutto al Sud,
dove l’incidenza del fenomeno si espande paurosamente.
Infatti, se in Italia le
cose vanno male, al Sud
vanno sempre peggio. "Al Sud non solo ci sono più poveri,
ma vivono anche peggio rispetto alle altre aree del Paese",
spiega Nicoletta
Pannuzi, ricercatrice Istat. Nel
Mezzogiorno i poveri oltre ad essere più numerosi sono anche più
poveri: al Sud la percentuale della povertà sale al 24%. Ma
le regioni dove si sta peggio sono Campania e
Sicilia: le famiglie campane e siciliane evidenziano un peso della
povertà rispettivamente del 27 e del 30,8%. In questo dato negativo
incide anche la presenza di famiglie numerose, composte da cinque o
più componenti, che denotano livelli di povertà più alti: in
Italia il 26,2% di queste famiglie versa in condizioni di povertà
relativa, ma al Sud la percentuale si attesta al 39,2%.
Dunque, il 24% della popolazione
meridionale affonda sotto la soglia di povertà. Anche in
Irpinia la povertà
registra un incremento
allarmante a causa della crisi:
la platea della popolazione irpina che giace in condizioni di povertà relativa
si attesta intorno al 22%.
In un contesto simile, segnato da
sconcertanti fenomeni di povertà, precarietà ed emarginazione in
costante aumento, che colpiscono un’area rilevante della
popolazione irpina, s’insinua pure una tendenza impercettibile e
complessa che agisce in profondità.
Anche in Irpinia l’effetto più
drammatico e palese della crisi scaturita dal fallimento di un
modello di sviluppo diretto ed imposto dall’alto negli anni della
ricostruzione post-sismica, è stato un processo di
imbarbarimento che ha alterato profondamente i rapporti umani. I
quali sono sempre più improntati all’insegna di un feticismo
assoluto, quello del profitto e della merce, trasmesso alle nuove
generazioni come l’unico senso della vita.
Tale modello consumistico si è
rivelato quantomeno diseducativo, in quanto il mito del denaro e del
benessere tiranneggia come un’aspirazione univoca e pervade
ossessivamente la nostra esistenza, diventando un punto di
riferimento deleterio, specie se non è sorretto da una coscienza
matura sotto il profilo etico e spirituale, capace di sottoporre a
critica e sostituire, se necessario, quell'interesse unilaterale con
altri valori più solidi e gratificanti. L'imposizione di una
visione della vita conforme all’ideologia dominante,
agisce attraverso metodi diversi rispetto al passato, cioè mediante
il ricorso a meccanismi solo apparentemente democratici e non
apertamente autoritari, ma che alla prova dei fatti si rivelano
più alienanti e coercitivi di qualsiasi totalitarismo.
A scanso di equivoci, chiarisco che non
mi appartiene assolutamente un sentimento di nostalgia verso un
passato ormai anacronistico che fu di dolore ed oppressione, di
miseria e sfruttamento delle plebi rurali irpine, di depravazione
morale delle classi sociali dominanti: si pensi all'aristocrazia
baronale o alla ricca borghesia mercantile. Invece mi preme spiegare
la società vigente sulla base di un'interpretazione corretta e
disincantata del passato. Occorre indagare in profondità la realtà
esistente, segnata da un fallace sviluppo economico e civile, da una
democrazia posticcia e solo formale, da un benessere fittizio,
corrotto e mercificato, in quanto esclusivamente consumistico.
L’analisi storica serve per provare a
progettare e costruire un avvenire migliore per le giovani
generazioni irpine. Le quali sono costrette ad emigrare in massa per
cercare fortuna altrove, benché siano indubbiamente più
scolarizzate dei loro antenati emigranti analfabeti o
semianalfabeti. Con la differenza che quello odierno è un flusso
migratorio senza più ritorno, per cui la perdita per le nostre zone
si rivela immane e irreparabile.
Il mio "pessimismo cosmico"
è solo apparente e deriva da una valutazione onesta e severa della
società odierna, ma è un atteggiamento sorretto e confortato da
uno spirito sano e ottimistico, che discende dal desiderio di
modificare lo stato di cose esistenti.
Occorre propugnare una trasformazione
radicale dell’esistente a beneficio dei nostri figli, insieme con
gli altri soggetti realmente antagonisti e progressisti, attraverso
un'azione politica necessariamente rivoluzionaria. Le
popolazioni irpine sono ancora soggette ad una casta politica
ormai vetusta e incancrenita, che governa con sistemi obsoleti,
alla stregua del celebre "Gattopardo" di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, convinto che tutto debba cambiare
affinché nulla cambi e resti come prima.
L'attuale processo di sviluppo ha
generato aspre e velenose contraddizioni sociali, dando luogo a
nuove sacche di miseria ed emarginazione, precarietà e
sfruttamento in contesti sempre più omologati sul piano culturale.
Questo fenomeno di massificazione dei corpi e delle menti è peggio
di qualsiasi fascismo conosciuto in passato, è un sistema subdolo e
perverso, non apertamente autoritario, in quanto non si serve delle
istituzioni repressive per antonomasia come il carcere e la polizia,
ma si avvale dei mezzi di comunicazione e persuasione di massa, per
cui la sua forza si rivela più efficace e pervasiva.
L'Irpinia di oggi è una realtà
desolante, nella misura in cui l'autonomia e la consapevolezza del
singolo sono impedite e soffocate, la personalità individuale è
deprivata di ogni scelta alternativa all'esistente, espropriata di
ogni diritto ed ogni possibilità effettiva di partecipazione
sociale e politica libera e cosciente. Insomma, il "pensiero
unico" dell'homo economicus, tipico
dell'ideologia mercantile borghese, ha attecchito anche nella nostra
terra, facendo regredire le coscienze e i comportamenti individuali
e collettivi all'interno di società che fino a pochi decenni
fa potevano dirsi abbastanza coese e solidali, moralmente sane,
autenticamente a misura d'uomo.
Quelle che un tempo erano piccole comunità
tutto sommato omogenee e compatte, benché anguste nella loro
arretratezza culturale, estremamente gelose delle proprie usanze e
tradizioni religiose e linguistiche, appoggiate su un’economia
chiusa di tipo arcaico e semi-feudale, si sono trasformate in
modo improvviso, convulso e brutale. Per cui oggi risultano
completamente disgregate e nevrotiche, sconvolte da un'accelerazione
storica che ha innescato un processo involutivo sul piano delle
relazioni interpersonali.
La schizofrenia e l'atomizzazione sociale
sono probabilmente i segnali più evidenti e dolorosi
di una società caduta in pieno disfacimento e in fase di
decomposizione avanzata, in quanto momento finale e irreversibile di
una profonda crisi strutturale e ideologica che investe il
funzionamento del sistema capitalistico a livello mondiale.
Lucio Garofalo
LIONI 20 GENNAIO 2010
Uno
spettro migrante s'aggira per l'Europa
Non c'è dubbio che la paura sia un istinto naturale, insito nella
natura
animale degli uomini. La paura è un impulso congenito e primordiale,
indispensabile alla sopravvivenza e all'autoconservazione delle specie
viventi. Senza questo istinto gli esseri viventi non avrebbero alcuna
possibilità di scampo di fronte alle insidie presenti nell'ambiente
circostante. Ma proprio in quanto comportamento istintivo, la paura è
un
elemento irrazionale e primitivo che ha bisogno di essere regolato
dall'intelligenza per evitare che prevalga, divenendo l'elemento
dominante e
determinante delle azioni umane.
La paura può essere una forza devastante quando si fa strumento di
lotta
politica ed è usata per influenzare gli orientamenti delle masse che,
prese
dal panico, impazziscono, tramutandosi in furia cieca e incontenibile.
Infatti, nulla è più impetuoso di una folla inferocita o
terrorizzata, al
pari di una mandria di bufali in fuga, assaliti dai predatori.
Il panico causa disastri come un cataclisma naturale, è catastrofico
come un
terremoto o un'eruzione vulcanica. Il "Terrore" per
antonomasia è costituito
dalla violenza della rivoluzione, quindi è la madre delle paure
collettive
che affliggono le classi dominanti.
La paura suscitata dalla minaccia di una "catastrofe
sociale" che rischia di
sovvertire l'ordine costituito e mette a repentaglio la sicurezza del
proprio status di classi possidenti, è all'origine delle angosce che
tormentano la società contemporanea. Ecco che risorge lo spettro
della
rivoluzione sociale, lo spauracchio della rivolta di massa.
Da quando l'umanità ha creato le prime forme di proprietà privata,
accumulando il surplus economico originario, derivante
dall'espropriazione
del prodotto del lavoro collettivo, la paura più forte e ricorrente
nella
storia della lotta di classe nelle diverse società (dallo schiavismo
antico
al feudalesimo medievale, al capitalismo moderno) è la paura di
perdere ciò
che si possiede, il terrore di vedersi espropriare le ricchezze
estorte ai
produttori, siano essi schiavi, servi della gleba o salariati. Non è
un caso
che più si è ricchi più si ha paura e, probabilmente, si è più
infelici in
quanto tormentati dall'inquietudine. Da qui è sorta l'esigenza di
istituire
un potere forte e superiore, detentore del monopolio della violenza,
ossia
lo Stato, atto a garantire la sicurezza e l'ordine in una società
retta
sull'ingiustizia, sullo sfruttamento e sulla divisione in classi.
La rivoluzione sociale è il più grande spauracchio dei governi e
delle
classi egemoni, in particolare dei governi e delle classi possidenti e
dominanti nelle società capitaliste decadenti e putrescenti, sempre
più
angosciate dall'assalto inevitabile delle masse dei proletari
migranti,
impaurito dalla rabbia e dall'ansia di riscatto dei popoli e delle
classi
socialmente più povere, oppresse ed emarginate provenienti dal Sud
del
mondo.
Una paura molto attuale e diffusa negli stati sembra essere la paura
verso
una società realmente democratica, che si estrinseca nella
partecipazione
concreta delle persone, per cui può divenire fonte di conflittualità
e di
antagonismi sociali. La democrazia, non quella subìta passivamente,
bensì
vissuta attivamente, da protagonisti e non da sudditi o spettatori, il
dissenso e il libero pensiero, la libertà intesa e praticata come
critica e
partecipazione diretta ai processi politici decisionali, tutto ciò
incute
un'angoscia profonda nell'animo di chi controlla e detiene il potere e
la
ricchezza sociale.
Da tali paure scaturisce un'idiosincrasia anticomunista e
antidemocratica
che tende a demonizzare le idee di libertà e i loro portatori, fino
alla
criminalizzazione e alla repressione di ogni dissenso ed ogni
vertenza,
recepiti come un'insidia che mina l'ordine costituito, che a sua volta
si è
determinato in seguito a precedenti rivolgimenti sociali.
Si rammenti che gli stati moderni e le società borghesi capitaliste
hanno
avuto origine da violente rivoluzioni sociali eseguite in gran parte
dalle
masse contadine e proletarie guidate dalle avanguardie illuminate e
liberali
della borghesia, che oggi teme di perdere il proprio potere e i propri
privilegi di classe egemone e possidente. Il ruolo storico della
borghesia,
che un tempo era stato politicamente eversivo e rivoluzionario,
determinando
il rovesciamento violento dei regimi dispotici e assolutistici e delle
aristocrazie feudali, con le loro sovrastrutture ideologiche
oscurantiste di
origine medievale, si è rapidamente trasformato in senso conservatore
e
misoneistico, rappresentando un ostacolo concreto alla realizzazione
del
progresso scientifico, culturale e sociale, all'esercizio pratico
della
democrazia diretta e partecipativa, al compimento di un effettivo
processo
di liberazione e di affrancamento del genere umano da ogni forma di
barbarie
e di violenza, di oppressione e di sfruttamento, di schiavitù e di
paura.
Lucio Garofalo
Quando
gli schiavi si ribellano e la loro rabbia spaventa la borghesia
La rivolta rabbiosa ed improvvisa (ma prevedibile) dei braccianti
africani
della piana di Gioia Tauro, che hanno messo in atto una furiosa
guerriglia
urbana che rievoca le scene incendiarie della banlieue parigina o dei
ghetti
di Los Angeles di alcuni anni fa, ha turbato i sonni tranquilli di una
società piccolo-borghese che si è ridestata attonita e sgomenta dal
torpore
in cui sono sprofondate pure le masse proletarie italiane, vittime di
un
razzismo strisciante alimentato quotidianamente dai media e dal
governo in
carica.
Gli ipocriti e i benpensanti si scandalizzano facilmente di fronte
alla
rivolta degli immigrati, deprecando l'aggressività e la rabbia con
cui si è
manifestata, celebrando l'intervento armato delle forze dell'ordine,
come se
la violenza di chi reagisce all'oppressione non abbia una ragione
morale
superiore alla violenza perpetrata dall'oppressore. Gli schiavi non
possono
e non devono ribellarsi al loro padrone.
La violenza fa parte di una società che la condanna come un delitto
quando
ad esercitarla sono gli ultimi e i più deboli, i negri, i proletari e
gli
oppressi in genere, ma viene legittimata come un diritto quando è una
violenza sistemica esercitata dal potere, per cui viene autorizzata in
termini di repressione armata finalizzata alla salvaguardia
dell'ordine
costituito, un ordine retto (appunto) sulla violenza di classe.
Non a caso la violenza viene esecrata solo quando è opera degli
oppressi e
degli sfruttati. Si pensi alla rivolta di massa che alcuni anni fa
esplose
con furore nella banlieue parigina, espandendosi con la rapidità di
un
incendio alle altre periferie suburbane della Francia. Si pensi
all'esplosione di rabbia e violenza dei lavoratori immigrati di
Rosarno, in
maggioranza di origine africana, oppressi e sfruttati a nero,
maltrattati e
vessati dai caporali e dalla criminalità al limite della
sopportazione
umana.
Per comprendere tali fenomeni sociali occorre rendersi conto di
ciò che
sono diventate le aree periferiche e suburbane in Francia, ossia
luoghi di
ghettizzazione, degrado ed emarginazione, occorre verificare le
condizioni
brutali e disumane in cui sono costretti a vivere i lavoratori
agricoli
immigrati in Italia, sfruttati al massimo dagli sciacalli della
malavita
organizzata locale e dal padronato capitalistico di stampo mafioso e
legale.
In Italia meridionale si è formato un vero e proprio esercito di
forza-lavoro migrante, in gran parte di origine africana, che si muove
periodicamente dalla Campania alla Puglia, dalla Calabria alla
Sicilia,
seguendo il ciclo dei raccolti agricoli, che lavora nei campi in
condizioni
al limite della schiavitù e vive in ghetti subumani costituiti da
baracche
di cartone e nylon sostenute da fasce di plastica nera, in aree misere
e
degradate.
Questi braccianti irregolari, in quanto clandestini, sono costretti a
lavorare a nero e sotto al sole per 14 ore al giorno, retribuiti con
meno di
20 euro giornalieri, sfruttati in condizione di estrema ricattabilità,
sottoposti all'arroganza dei caporali e alle vessazioni della
criminalità
mafiosa che controlla sia i flussi migratori che il lavoro nero.
Questa
manodopera agricola offerta a bassissimo costo è estremamente
conveniente,
in quanto viene prestata senza rispettare alcun contratto sindacale e
quindi
senza osservare alcuna norma di sicurezza e di retribuzione,
consentendo
notevoli profitti economici.
Dunque, per capire l'emblematica rivolta dei "nuovi schiavi"
bisognerebbe
calarsi nella loro realtà quotidiana dove il disagio sociale e
materiale, il
degrado urbano, la violenza e lo sfruttamento di classe, la precarietà
economica, il dolore, la disperazione e l'emarginazione degli
extracomunitari, costituiscono il retroterra materiale, sociale ed
ambientale che produce inevitabilmente drammatiche esplosioni di
rabbia,
violenza e guerriglia urbana come quelle a cui abbiamo
assistito in questi
ultimi giorni in Calabria.
Invece, tali vicende sono etichettate e liquidate (ingiustamente e
banalmente) come atti di "teppismo" e
"delinquenza", secondo parametri
razzisti e classisti che sono tipici di una mentalità ipocrita e
benpensante
che da sempre appartiene alla piccola borghesia.
Lucio Garofalo
A
proposito di violenza
Ultimamente si è cianciato molto a sproposito di violenza, per cui ho
elaborato una riflessione personale su un tema su cui vale sempre la
pena di
spendere qualche parola.
La violenza, intesa come comportamento individuale, ha senza dubbio
un'origine più profonda e complessa, insita nella struttura sociale.
Nelle
realtà capitaliste, la violenza del singolo, la ribellione
apparentemente
senza causa, la follia, il vandalismo e il teppismo, la criminalità
comune,
la perversione di quei soggetti qualificati come "mostri",
sono sempre il
frutto (marcio) di un'organizzazione sociale che ha bisogno di creare
e
alimentare odio e violenza, sono la manifestazione di un sistema che,
per
sua natura, genera divisioni e conflittualità, costringendo alla
depravazione dell'animo umano che in tal modo viene intimamente
condizionato
dall'ambiente esterno.
Dunque, la violenza non è una questione di malvagità individuale, ma
un
problema di ordine sociale, è la facciata esteriore dietro cui si
ripara la
violenza organizzata delle istituzioni, è lo strato superficiale e
fenomenico sotto cui giace e s'incancrenisce la corruzione dell'ordine
costituito. La visione che assegna alla "perfidia umana" la
causa dei mali
del mondo, è solo un'ingenua e volgare mistificazione. Il tema della
violenza è talmente vasto e complesso da rivestire un ruolo centrale
nella
storia del genere umano.
La crisi e la decadenza del sistema capitalistico guerrafondaio, ormai
in
fase di decomposizione avanzata, hanno creato un meccanismo perverso
da cui
discende la necessità di una produzione su scala industriale della
violenza,
del delitto, del "mostro", che serve come facile e comodo
capro espiatorio
per giustificare la richiesta, da parte dell'opinione pubblica, di
nuovi
interventi armati, repressivi e coercitivi.
In tal modo trovano una precisa ragion d'essere i vari Saddam Hussein,
Bin
Laden ecc., i cosiddetti "criminali" che diventano uno
spauracchio
funzionale a una logica di riproduzione della violenza legalizzata,
volta a
perpetuare i rapporti di comando e subordinazione esistenti
all'interno e
all'esterno della società capitalistica.
Una violenza che scaturisce e si alimenta soprattutto attraverso
l'opera di
disinformazione e terrorismo psicologico esercitata dai mezzi di
comunicazione di massa per mantenere l'opinione pubblica in uno stato
di
permanente tensione e pressione.
La violenza fa parte di una società che la disprezza e la demonizza
quando a
praticarla sono gli altri (in passato i Cinesi, i Vietnamiti, i
Cubani, oggi
gli arabi, gli islamici, i negri, i proletari, gli oppressi in
genere), ma
viene autorizzata in termini di diritto e potere istituzionale quando
essa è
opera del sistema stesso, in quanto intervento armato volto a
mantenere
l'ordine all'interno (in termini di repressione poliziesca) e
all'esterno
(in termini di guerre, come gendarmeria internazionale).
In tal senso la violenza viene disapprovata quando è opera d'altri.
Si pensi
alla rivolta di massa che alcuni anni fa esplose con furore nella
banlieue
parigina, espandendosi rapidamente ad altre periferie urbane della
Francia.
Sempre in Francia, tempo addietro abbiamo assistito alla nascita di un
movimento di protesta giovanile che ha assunto proporzioni di massa,
simili,
benché non paragonabili all'esperienza storica del maggio 1968, nella
misura
in cui le cause e il contesto erano senza dubbio differenti.
Per comprendere tali fenomeni sociali così complessi e
difficili, occorre
rendersi conto di ciò che sono effettivamente diventate le aree
metropolitane suburbane in Francia (ma il discorso vale anche
altrove), cioè
luoghi di ghettizzazione e alienazione di massa.
Per capire bisognerebbe calarsi nella realtà quotidiana dove il
disagio
sociale, il degrado urbano, la violenza di classe, la precarietà
economica,
la disperazione e l'emarginazione dei giovani (soprattutto
extracomunitari)
costituiscono il background materiale e ambientale che genera
inevitabilmente esplosioni di rabbia e guerriglia urbana.
Invece, tali vicende sono bollate come atti di "teppismo",
"delinquenza" o
addirittura "terrorismo", secondo parametri razzisti e
classisti tipici di
una mentalità ipocrita e benpensante che da sempre appartiene alla
borghesia. Tali vicende sono strettamente associate da un denominatore
comune: la violenza, nella fattispecie la violenza istituzionalizzata
e il
monopolio di legalità imposto nella società.
Su tale argomento varrebbe la pena di spendere qualche parola per
avviare un
ragionamento storico, critico e politico il più possibile serio e
rigoroso.
In effetti, è alquanto difficile determinare e concepire la violenza
come un
comportamento etologico ed istintivo, naturale ed immutabile,
dell'essere
umano, poiché è la natura stessa della società il vero principio
che genera
i criminali, i violenti in quanto singoli individui, che sono spesso i
soggetti più vulnerabili sul piano emotivo, che finiscono per essere
il
"capro espiatorio" su cui si scaricano tutte le tensioni, le
frustrazioni e
le conflittualità latenti, insite nell'ordinamento sociale vigente.
Sin dalle origini l'uomo ha dovuto attrezzarsi per fronteggiare la
violenza
esercitata dall'ambiente esterno: il pericolo di aggressione da parte
degli
animali, le avversità atmosferiche, i disastri naturali, i bisogni
fisiologici, la necessità di procreare, ecc. In seguito l'uomo è
riuscito a
compiere notevoli progressi tecnologici e materiali che lo hanno
affrancato
dal suo primitivo asservimento alla natura, rovesciando il rapporto
originario tra l'uomo e l'ambiente. Oggi è soprattutto l'uomo che
arreca
violenza alla natura, ma la relazione rischia di invertirsi
nuovamente, a
scapito dell'uomo.
Durante la sua evoluzione culturale e materiale l'umanità ha creato e
conosciuto varie esperienze di violenza: la guerra, la tirannia,
l'ingiustizia, lo sfruttamento, la fatica per la sopravvivenza, il
carcere,
la repressione, la rivoluzione, fino alle forme più rozze quali il
teppismo,
la prepotenza, la sopraffazione del singolo su un altro singolo.
Tuttavia, tali fenomeni così disparati si possono ricondurre a
un'unica
matrice causale, ossia la natura intrinsecamente violenta e disumana
della
struttura materiale su cui si erge l'organizzazione sociale dei
rapporti
umani nel loro divenire storico. La cui principale forza motrice
risiede
nella violenza della lotta di classe, nello scontro tra diverse forze
economiche e sociali per il controllo e il dominio sulla società.
Tale lotta
di classe si estrinseca sia sul terreno materiale, sia sul versante
teorico
e culturale, è una lotta per la conquista del potere politico ed
economico,
ma anche per l'affermazione di un'egemonia ideologica e intellettuale
all'interno della società.
Il problema fondamentale della violenza nella storia (che è scisso
dal tema
della violenza nel mondo pre-istorico) è costituito dall'ingiustizia
e dalla
violenza insite nel cuore delle società classiste. Le quali si
fondano sulla
divisione dei ruoli sociali e sullo sfruttamento materiale esercitato
da una
classe dominante sul resto della società.
Solo quando lo sviluppo delle capacità produttive e tecnologiche
della
società avrà raggiunto un livello tale da permettere il superamento
delle
ragioni che finora hanno giustificato e determinato lo sfruttamento
del
lavoro, l'umanità potrà compiere il grande balzo rivoluzionario che
consisterà in un processo di liberazione dalla violenza
dell'ingiustizia e
dello sfruttamento di classe. E' un dato di fatto che tali condizioni,
connesse al progresso tecnico scientifico e alla produzione delle
ricchezze
sociali, siano già presenti nella realtà oggettiva, ma sono
mistificate e
negate dal persistere di un quadro obsoleto di rapporti di supremazia
e
sottomissione tra le classi sociali.
In tal senso, il potere borghese non è mutato, i suoi rapporti
all'interno e
all'esterno sono sempre improntati e riconducibili alla violenza. Esso
continua a reggersi sulla violenza, in particolare sulla forza
legalizzata
di istituzioni repressive quali il carcere, la polizia, l'esercito.
Nel
contempo il potere borghese ha imparato ad usare altre forme di
controllo
sociale, più morbide e addirittura più efficaci, come la
televisione. Oggi,
infatti, molti stati capitalistici, avanzati sul versante tecnologico,
sono
gestiti e controllati non solo attraverso i sistemi tradizionali della
violenza legalizzata, cioè esercito e polizia, ma soprattutto
ricorrendo
agli effetti di omologazione e alla forza alienante e persuasiva della
televisione e dei mezzi di comunicazione di massa.
Naturalmente il discorso sulla violenza non può esaurirsi in un breve
esame
come questo, giacché si tratta di un tema talmente ampio, difficile e
controverso, da meritare molto più spazio, più tempo, più studio e
più
ingegno di quanto possa fare il sottoscritto. Per quanto mi riguarda,
ho
cercato semplicemente di sollecitare una riflessione iniziale.
Lucio Garofalo
Berlusconi,
la mafia, la libertà di stampa e la violenza politica
Negli ultimi tempi la temperatura politica in Italia si è alzata
notevolmente sia perché si è ripreso a parlare dei rapporti tra
mafia e
potere politico, nella fattispecie tra un pezzo della mafia e il capo
del
governo, ma soprattutto a causa dell'aggressione perpetrata contro
Berlusconi. Ricordo una frase che suscitò scalpore, pronunciata dal
premier
nel corso di una visita privata in Tunisia, in cui annunciava in modo
eclatante l'intenzione di "passare alla storia come il presidente
del
Consiglio che ha sconfitto la mafia".
Ma la notizia che destò maggior stupore fu questa. Marcello Dell'Utri,
tra i
fondatori di Forza Italia, braccio destro di Berlusconi, già
condannato in
primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in
associazione
mafiosa, il 19 agosto scorso annunciò di voler proporre una
commissione
d'inchiesta sulle stragi del '92. Un'intenzione disattesa nei fatti,
ma
annunciata e pompata sui media in modo enfatico. A quanto pare si
trattava
della consueta politica demagogica e sensazionalista, fatta di facili
annunci e promesse sbandierate sui media e puntualmente tradite, a cui
siamo
abituati da tempo.
Le vicissitudini politico-mediatiche degli ultimi tempi, a partire
dalle
querele che Berlusconi decise di sporgere contro La Repubblica e
L'Unità,
quindi le dimissioni di Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, organo
ufficiale della CEI, fino al grave episodio di Milano e al varo di un
provvedimento di legge volto a ridurre la libertà sul Web, hanno
fatto
riemergere il tema, già scottante e controverso, della libertà di
informazione, insieme ad altri aspetti riconducibili ad un conflitto
latente
e permanente tra i poteri forti che da diversi anni condizionano
pesantemente il destino del nostro Paese.
Ma procediamo con ordine per cercare di comprendere la logica di tali
vicende.
Il 26 agosto scorso, il Capo del governo decise di adire le vie legali
depositando una citazione per danni contro il gruppo editoriale
L'Espresso-Repubblica per contestare le dieci domande (evidentemente
scomode) che per oltre due mesi il giornalista Giuseppe D'Avanzo gli
ha
posto sulle sue frequentazioni sessuali, senza ricevere alcuna
risposta.
Probabilmente ciò che avrebbe indotto Berlusconi ad agire legalmente
contro
La Repubblica furono le insinuazioni su una sua presunta "ricattabilità"
e
su presunte infiltrazioni al vertice dello Stato italiano da parte di
centri
mafiosi, in particolare della mafia russa, e l'ampia eco che tali
notizie
hanno avuto sulla stampa internazionale.
Qualche tempo fa il direttore di Avvenire, Dino Boffo, rassegnò le
dimissioni con una lettera inviata al cardinale Angelo Bagnasco,
presidente
della Conferenza Episcopale Italiana. Boffo era stato vittima di
pesanti
accuse sulla sua vita privata, in modo particolare sulle sue abitudini
sessuali, messe al centro di una feroce e smisurata campagna
diffamatoria
condotta in modo cinico e spregiudicato da Vittorio Feltri, direttore
del
Giornale, il quotidiano edito dal fratello del premier Paolo
Berlusconi.
Nello stesso giorno delle dimissioni di Boffo, il presidente del
Consiglio
decise di trascinare in tribunale il direttore de L'Unità, Concita De
Gregorio, insieme ad altre quattro colleghe del noto quotidiano.
La
denuncia per diffamazione faceva formalmente riferimento ad una serie
di
articoli sugli scandali sessuali venuti fuori nell'estate scorsa.
E' evidente che i violenti attacchi sferrati contro alcuni tra i
maggiori
organi di stampa nazionali non potevano essere ricondotti
semplicemente ad
alcuni fatti episodici, né ai motivi ufficialmente addotti nelle
querele
inoltrate dai legali del premier, ma sono inquadrabili e spiegabili
all'interno di una cornice più vasta e complessa che pone al centro
non solo
la libertà di informazione, sempre più minacciata da fenomeni di
squadrismo,
killeraggio ed imbarbarimento politico, ma pure una serie di affari ed
interessi legati ad importanti centri di potere, tra cui non sarebbero
da
escludere gli scontri interni al Vaticano tra la Segreteria di Stato e
la
Conferenza Episcopale Italiana.
Nei mesi immediatamente precedenti all'aggressione contro Berlusconi,
il
panorama politico italiano aveva assistito ad un frenetico susseguirsi
di
avvenimenti, esternazioni e iniziative, a cominciare dalle
provocazioni
estive avanzate dalla Lega Nord fino alla minaccia di elezioni
anticipate,
quindi lo squadrismo giornalistico di Vittorio Feltri che aveva
indotto alle
dimissioni il direttore di "Avvenire", gli ignobili attacchi
sferrati dal
premier contro la libertà di stampa, che avevano suscitato reazioni
diffuse
di sdegno, il botta e risposta tra Gianfranco Fini e il foglio di
Feltri,
che ha lanciato un ricatto fin troppo palese contro il presidente
della
Camera, divenuto un bersaglio per le sue esplicite divergenze con le
posizioni del presidente del Consiglio, la manifestazione nazionale
del 3
ottobre per la difesa della libertà di stampa ed infine il recente
NoBday.
Questo solo per elencare gli avvenimenti più importanti e
significativi
degli ultimi mesi.
Dal punto di vista strettamente storico la minaccia lanciata da
Vittorio
Feltri all'indirizzo di Gianfranco Fini ha costituito il primo ricatto
politico condotto a mezzo stampa, facendo oltretutto ricorso ad un
codice
tutt'altro che cifrato. Negli anni '50 e '60 erano frequenti i dissidi
verbali tra gli avversari storici della Democrazia Cristiana, Giulio
Andreotti e Amintore Fanfani. I quali si contendevano la leadership
all'interno del partito e del governo, azzuffandosi anche a colpi di
ricatti
e dossier legati alle attività investigative di giornalisti
prezzolati o dei
servizi segreti deviati, ma lo scontro intestino, per quanto aspro,
cinico e
spregiudicato, si svolgeva in modo dialetticamente raffinato ed
elegante,
adoperando un linguaggio velato ed allusivo, mai troppo esplicito.
Quanto sta accadendo negli ultimi tempi rischia di accelerare un
processo
involutivo e degenerativo della vita politica italiana a scapito
soprattutto
del livello già basso della libertà di informazione e di quel poco
di
democrazia formale ancora vigente nel Paese.
Dopo il ricovero di Berlusconi all'ospedale San Raffaele di Milano in
seguito all'aggressione di domenica scorsa, in Italia si è scatenata
la
rabbiosa canea dei quotidiani più rognosi e reazionari e dei
mass-media
filogovernativi, che hanno denunciato con furiosa idiosincrasia il
"clima di
odio" esistente contro il capo del governo, accusando in modo
indiscriminato
tanto i riformisti e i socialdemocratici, quanto gli anarchici e i
comunisti, riuniti nel medesimo calderone politico.
A parte il fatto che nell'aggressione a Berlusconi si notano
molteplici
anomalie e incongruenze. Già un solo elemento irregolare avrebbe
dovuto
suscitare un sospetto, due indizi anomali costituiscono una mezza
prova, ma
in questo caso si rilevano troppe circostanze irregolari. Ma lasciamo
perdere le analisi dietrologiche e complottistiche per limitarci ad
un'interpretazione immediata dei fatti e, soprattutto, delle
conseguenze.
Al di là di tutto, conviene ragionare criticamente sulle cause e
sugli
effetti degli avvenimenti. Per comprendere l'accaduto non servono
tanto
indagini di ordine dietrologico, ma occorre una valutazione lucida ed
obiettiva dei fatti e delle conseguenze, senza farsi influenzare
dall'emotività. Non ci è dato sapere se l'aggressione a Berlusconi
sia stata
l'azione isolata di uno psicolabile o se dietro vi siano oscure
manovre. Ciò
che possiamo verificare e valutare sono le sue conseguenze politiche,
in
quanto non è la prima volta che viene sfruttato il gesto di uno
squilibrato
per godere dei benefici politici e pubblicitari derivanti da simili
atti.
Dunque, è lecito chiedersi: cui prodest? A chi giova ciò, quali sono
i suoi
effetti politici e ideologici?
Il primo elemento da ravvisare è che l'aggressione si è verificata
in un
momento di grave crisi politica del governo, in cui i consensi di
Berlusconi
erano in netto calo. Il giorno precedente all'attentato le agenzie di
stampa
hanno diffuso la notizia che il premier era precipitato sotto il 50%
dei
consensi. Sfruttando l'eccezionale onda emotiva suscitata
dall'aggressione
contro Berlusconi, il consenso è immediatamente risalito. Questo è
uno degli
effetti senza dubbio più evidenti ed immediati prodotti
dall'attentato.
Gli altri effetti politicamente rilevanti sono riconoscibili nel
ricompattamento di una maggioranza parlamentare che si stava
sgretolando,
nel disorientamento di una già inerte ed esausta opposizione
parlamentare
(con particolare riferimento al PD), ma soprattutto nell'isolamento e
nella
marginalizzazione di un'opposizione sociale che provava a riprendere
vigore.
Infatti, negli ultimi mesi, al di là dell'evanescente opposizione
parlamentare, grazie ai nuovi strumenti di comunicazione si è
sviluppato un
vasto movimento di contestazione del premier che, malgrado i suoi
limiti e
la sua fragilità politica, ha sollevato con decisione la questione
della
cacciata di Berlusconi.
Dopo l'attentato e la comparsa di gruppi su Facebook inneggianti
all'attentatore, il governo ha risposto con una furibonda crociata
contro
Internet, il cui paladino è il ministro dell'Interno. L'unica
risposta è
stata la volontà dichiarata di oscurare i siti web che criticano il
capo del
governo. Questa è stata la reazione del governo e dell'intera classe
dominante, la quale, non potendo più contare sul ruolo rassicurante
dei
partiti socialdemocratici, ora riscopre il vecchio, ma sempre
efficace,
arsenale repressivo.
A proposito di censura e mettendo al bando ogni ipocrisia, non ci si
può
stupire se su Facebook attecchisca un malcostume verbale quando un
ministro
in carica ha urlato "questa sinistra di merda vada a morire
ammazzata". Se
un ministro della Repubblica si esprime in una maniera così
aggressiva,
violenta e volgare, perché ci si meraviglia se un linguaggio
altrettanto
infelice viene adottato da coloro che frequentano Internet?
E' evidente che la comparsa eccessiva dei gruppi su Facebook
inneggianti a
Tartaglia costituisce solo un pretesto per mettere il bavaglio ad un
mezzo
di comunicazione e di mobilitazione di massa che ha rivelato tutta la
sua
forza in occasione dell'organizzazione di un evento mediatico e
politico
come la manifestazione nazionale del 5 dicembre scorso, a cui hanno
partecipato moltissime persone convocate tramite la Rete Web.
Infine, bisogna segnalare il vile e pavido comportamento dei sedicenti
ed
evanescenti "democratici" del nostro Paese, chiusi in un
eloquente ed
imbarazzato silenzio rispetto ad un'improvvisa svolta in senso
bonapartista
della politica e della società, preoccupati solo di associarsi al
coro di
solidarietà nei confronti di Silvio Berlusconi.
Lucio Garofalo
Le
occasioni sprecate
Il 23 novembre di quest'anno ricorre il 29esimo anniversario del
terremoto
che scosse con violenza un vasto territorio del Sud Italia, il cui
epicentro
fu individuato in un'area compresa tra l'Irpinia e la Lucania,
precisamente
a Conza della Campania. Il sisma, caratterizzato da una fortissima
intensità
che superò il 10° grado della scala Mercalli e da una magnitudo 6,9
della
scala Richter, investì con furia numerosi paesi, spazzando via in
pochi
attimi intere comunità e decimando le popolazioni locali. Per
comprendere la
devastante potenza sprigionata dal terremoto del 1980, basta compiere
una
semplice analisi comparativa con quello dell'Abruzzo, che ha raggiunto
i 5,8
gradi della scala Richter. Nel complesso si contarono quasi 300 mila
senzatetto, oltre 2 mila morti e quasi 10 mila feriti. Tra i centri
maggiormente disastrati vi furono Sant'Angelo dei Lombardi, Lioni,
Torella
dei Lombardi, Conza della Campania, Teora, Caposele e Calabritto.
Dunque, 29 anni fa si è consumata un'immane tragedia, la peggiore
sciagura
che abbia colpito l'Italia meridionale nel secolo scorso. Si trattò
di un
cataclisma senza precedenti, le cui traumatiche conseguenze non furono
provocate solo da cause naturali, ma anche da precise responsabilità
umane,
cioè da scelte di ordine politico, economico, antropico e culturale.
Il
fenomeno tellurico che sconvolse le nostre zone fu senza dubbio di una
potenza inaudita, ma le speculazioni affaristiche, l'incuria e
l'irresponsabilità degli uomini nella costruzione e nella
manutenzione delle
abitazioni e degli edifici pubblici, le lentezze, i ritardi,
l'impreparazione della macchina organizzativa dei soccorsi statali
nella
fase dell'emergenza post-sismica (quando serviva rimuovere con urgenza
i
cumuli di macerie e salvare eventuali superstiti), contribuirono non
poco ad
aggravare i danni e ad accrescere in modo agghiacciante il numero dei
morti
e dei feriti.
Per gli abitanti dell'Irpinia il terremoto del 1980 rievoca emozioni
intense, un misto di cordoglio, tristezza e turbamento, di angoscia,
inquietudine e rabbia. Il ritorno ad una vita "normale" è
stato un processo
assai lento ed ha richiesto lunghi anni trascorsi in una condizione di
permanente provvisorietà emergenziale, che ha visto numerose famiglie
crescere i propri figli fino alla maggiore età, se non addirittura
oltre,
nei container con le pareti rivestite d'amianto. Il completamento
della
ricostruzione, lo smantellamento e la bonifica delle aree
prefabbricate sono
interventi che appartengono alla storia recente. Inoltre, l'opera di
ricostruzione degli alloggi e degli agglomerati urbani non è stata
accompagnata da un'effettiva volontà e capacità di ricostruzione del
tessuto
della convivenza civile e democratica, da un indirizzo politico che
contenesse scelte mirate a ricucire una rete di sane relazioni
interpersonali, a recuperare gli spazi di aggregazione e di
partecipazione
sociale che rendono vivibili le strutture abitative.
Il terremoto del 1980 ha straziato e scompaginato l'esistenza di
intere
generazioni di giovani, ha impressionato le percezioni più
elementari,
imprimendosi nella memoria e nelle coscienze individuali, agendo nella
sfera
più nascosta delle sensazioni interiori. I cambiamenti prodotti dalle
viscere della terra, intesi soprattutto in termini di abiezione e
degrado
sociale, si sono insinuati nell'intimità degli affetti, nei gesti e
negli
atteggiamenti più comuni, penetrando negli stati d'animo e nelle
normali
relazioni quotidiane, degenerando in una sorta di imbarbarimento e
regressione antropologica.
A distanza di anni, continuano a perpetuarsi l'organizzazione e
l'arroganza
del potere politico clientelare che continua a ricattare i soggetti più
fragili e indifesi, condizionando e riducendo la libertà di scelta
delle
persone, influenzando gli orientamenti elettorali dei singoli
individui e
creando vasti serbatoi di voti tra le masse popolari. Tali rapporti di
forza
si sono conservati in modo cinico, sopravvivendo indisturbati alle
inchieste
giudiziarie di Tangentopoli e agli scandali dell'Irpiniagate.
A partire dagli anni '80, attingendo ampiamente agli ingenti
finanziamenti
stanziati dal governo per la ricostruzione, fu varato un folle piano
di
industrializzazione forzata delle zone di montagna. Si progettò la
dislocazione di macchinari installati nel Nord Italia all'interno di
territori tortuosi, difficilmente accessibili e praticabili, in cui
non
esisteva ancora una rete moderna di infrastrutture stradali, di
trasporti e
di comunicazioni, in cui i primi soccorsi inviati dallo Stato nella
fase
dell'emergenza stentarono ad arrivare.
Si è innescato in tal modo un processo di perenne sottosviluppo
economico e
sociale che nel tempo ha rivelato la propria natura sinistra ed
alienante, i
cui effetti hanno arrecato guasti irreparabili all'ambiente e
all'economia
locale, che era prevalentemente agricola e artigianale. Occorre
ricordare
che sul versante strettamente economico-produttivo, la
"modernizzazione"
delle nostre zone è avvenuta in tempi rapidi e in modo convulso,
maldestro
ed irrazionale. Tale risultato si è determinato all'interno di un
processo
di "post-modernizzazione" del sistema capitalistico globale,
cioè in una
fase di ristrutturazione tecnologica post-industriale delle economie
più
avanzate dell'occidente, con il trasferimento di capitali e macchinari
ormai
obsoleti nelle aree economicamente più depresse e sottosviluppate
come, ad
esempio, il nostro Meridione.
A scanso di eventuali equivoci, chiarisco che non intendo affatto
proporre
un'esaltazione acritica del feudalesimo o delle società arcaiche
ormai
superate da un falso sviluppo che in realtà è in grado di generare
solo
barbarie e sottosviluppo, né intendo esternare sentimenti di
nostalgia di un
passato che fu di pena ed oppressione, di corruzione sociale e
depravazione
morale, di miseria e sfruttamento materiale delle plebi rurali irpine.
Invece, mi interessa comprendere l'attuale società a partire da
un'analisi
storica onesta, lucida ed obiettiva. Occorre indagare e spiegare la
realtà
odierna, segnata da un fallace sviluppo economico, da una democrazia
pseudo
liberale e solo formale, da un benessere artefatto, in quanto corrotto
e
mercificato, di tipo prettamente consumistico.
Infatti, non si può negare che la "modernizzazione" delle
zone terremotate
sia stata una conseguenza ritardata e regressiva del processo di
ristrutturazione tecnico-produttiva delle economie capitalisticamente
più
forti del Nord Italia e del Nord del mondo, la cui ricchezza e il cui
potere
derivano da un sistema di sviluppo che genera solo fame e miseria,
guerra ed
oppressione, inquinamento, sottosviluppo e dipendenza in altre regioni
del
pianeta, identificate come "Sud del mondo", in cui occorre
includere anche
il Mezzogiorno d'Italia. A maggior ragione il ragionamento è valido
se
riferito alla modernizzazione fittizia come quella avvenuta nella fase
storica della ricostruzione in Irpinia. Sotto il profilo economico
quella
irpina non è più una società rurale, ma non è diventata nulla di
effettivamente nuovo ed originale, non si è trasformata
complessivamente e
spontaneamente in un'economia industrializzata, pur vantando antiche
vocazioni artigianali e commerciali come quelle che animano le
dinamiche e i
processi di sviluppo, irrazionali e senza regole, che si sono
verificati sul
territorio locale.
Da noi convivono vecchi e nuovi problemi, piaghe antiche come il
clientelismo e la camorra, ma pure nuove contraddizioni sociali quali
la
disoccupazione, le devianze giovanili, l'emarginazione, che sono
effetti
causati da una modernizzazione puramente economica e consumistica.
Come
sappiamo, il fenomeno dell'emigrazione si è "modernizzato",
nel senso che si
ripresenta in forme nuove, più serie e complesse del passato.
Infatti, un
tempo gli emigranti irpini erano lavoratori analfabeti, mentre oggi
sono
giovani con un alto grado di scolarizzazione. Inoltre, mentre gli
emigranti
del passato aiutavano le loro famiglie d'origine, a cui speravano di
ricongiungersi quanto prima, i giovani che oggi fuggono via lo fanno
senza
la speranza e l'intenzione di far ritorno nei luoghi nativi, anzi
spesso si
stabiliscono altrove e creano le loro famiglie laddove si sono
economicamente sistemati. Insomma, è un'emigrazione di cervelli, cioè
di
giovani laureati sui quali le nostre comunità hanno investito ingenti
risorse materiali e intellettuali. Questo è il peggiore spreco di
ricchezze
per le nostre zone. Spaesamento e spopolamento sono due tendenze solo
apparentemente contrastanti, ma che segnano in modo rovinoso la storia
delle
aree interne meridionali negli ultimi decenni.
A questo punto non si può fare a meno di chiedere di chi sono le
responsabilità, che appartengono a vari soggetti, in primo luogo ad
un ceto
politico che ha gestito la ricostruzione in Irpinia, conquistando il
peso
della classe dirigente nazionale, formandosi attorno ai massimi
esponenti
del potere politico locale e nazionale. Basta citare i nomi dei
dirigenti
della Democrazia cristiana irpina che hanno occupato posizioni di
rilievo
nell'ambito del partito e sono tuttora affermati ai più alti livelli
politico-istituzionali.
Il mio modesto contributo è anzitutto quello di provare ad
interpretare e
conoscere la realtà, ma anche quello di provare a modificarla. La
speranza
di riscatto delle nostre popolazioni deve esplicarsi in un progetto di
trasformazione concreta, da promuovere necessariamente in sede
politica. Si
può e si deve cominciare dal basso, dal piccolo, dal semplice, per
arrivare
in alto, per pensare ed agire in grande, tentando di migliorare il
mondo
circostante. In questa prospettiva l'intellettuale, da solo, è
impotente,
per cui deve riferirsi e agganciarsi alle forze sociali presenti nella
realtà storica in cui vive.
Lucio Garofalo
Chi è onesto e chi non lo è
Mi chiedo se siamo d'accordo su alcuni punti inamovibili, ovvero su
alcuni
concetti di fondo. A partire dal ragionamento elementare che
stabilisce i
parametri per valutare l'onestà in materia economica e fiscale.
A quanto pare, in Italia non siamo d'accordo sull'idea stessa del
valore da
attribuire all'onestà, che viene scambiata normalmente per "fessaggine".
Ebbene, per accertare chi è onesto e chi non lo è dal punto di
vista
economico e fiscale, non occorre essere filosofi. Basta verificare
chi paga
le tasse e chi le evade.
Di certo i lavoratori dipendenti, i salariati del settore produttivo
privato, anzitutto gli operai delle officine e dei cantieri, nonché
gli
impiegati della Pubblica Amministrazione, i tanto vituperati
"fannulloni"
rappresentati egregiamente dal ministro Brunetta, le tasse le pagano
tutte
mediante le ritenute fiscali trattenute direttamente alla fonte, cioè
sulla
busta paga, come sanno persino i bambini delle elementari. Invece,
qualcun
altro evade sistematicamente il fisco e froda l'erario pubblico,
dunque
truffa e deruba la collettività intera, soprattutto i lavoratori
onesti nel
senso che pagano le tasse.
E' evidente che per la categoria degli evasori e dei criminali
abituali,
quelli che riciclano il denaro sporco trafugando all'estero i
capitali
ottenuti illegalmente, in uno Stato serio (non mi riferisco
necessariamente
ad un sistema di tipo "sovietico" e
"bolscevico", ma penso anche solo agli
Stati Uniti) le conseguenze non possono essere quelle, assolutamente
irrisorie, previste dallo "scudo fiscale", vale a dire una
vera e propria
amnistia dei reati commessi, ma bisognerebbe comminare pene severe
ed
esemplari quali l'arresto ed il carcere per molti anni almeno.
Tale rigore è assolutamente necessario ad uno scopo anzitutto
educativo e
deterrente.
Lucio Garofalo
Un nuovo indulto per i ricchi
Partiamo dalla riunione dell'Ecofin (il Consiglio che comprende i
Ministri
dell'Economia e delle Finanze dei 27 stati membri dell'Unione
europea)
svoltasi nel maggio scorso, quando Berlusconi annunciò la linea
dura per
contrastare la speculazione finanziaria e il ministro Tremonti
dichiarò di
voler imitare Obama mettendo a punto una lista nera dei
"paradisi fiscali",
cioè dei vari staterelli come il Principato di Andorra, il
Principato di
Monaco, il Granducato di Lussemburgo, ma anche Gibilterra e la
Repubblica di
San Marino, solo per citare gli esempi più noti in Europa, che
concedono
enormi vantaggi fiscali ai proprietari dei capitali trafugati
all'estero.
Ebbene, dopo quelle parole e quei facili annunci di stampo
demagogico, i
fatti si sono visti nei giorni scorsi. Analizziamoli.
Anzitutto, cos'è un "paradiso fiscale"? Riporto la
definizione tratta da
<http://it.wikipedia.org/wiki/Paradiso_fiscale>
Wikipedia: "Un paradiso
fiscale è uno Stato che grazie a un regime fiscale privilegiato può
garantire un prelievo in termini di tasse minore rispetto al paese
di
origine, o addirittura nullo. La ragione di una scelta del genere è
più che
altro politica: attirare capitale proveniente dai paesi esteri,
fornendo in
cambio una tassazione estremamente ridotta."
La legge sullo "scudo fiscale", appena approvata in
Parlamento, è a tutti
gli effetti un condono dei reati commessi contro il pubblico erario
ed è
passata grazie all'assenteismo nei ranghi della minoranza. I voti
favorevoli
sono stati 270, i contrari 250. Il via libera si è avuto con appena
20 voti
di scarto. Ciò significa che, se l'opposizione fosse stata al
completo, il
provvedimento non sarebbe passato. Ma nelle fila dell'opposizione si
contavano ben 29 assenti, di cui 9 assolutamente ingiustificati, e
la legge
è passata. I vertici del Partito Democratico hanno annunciato che
saranno
decise ''severe sanzioni'' a carico dei deputati assenti
ingiustificati al
momento del voto finale sullo scudo fiscale.
Un altro motivo di aspra polemica è stato fornito dalla
"straordinaria
rapidità con la quale il Presidente della Repubblica ha firmato il
decreto
'salva ladri' con cui questo governo Berlusconi ha voluto garantire
l'impunità ai peggior criminali d'Italia", così si legge in
una nota del
presidente dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro.
A questo punto si può discutere ed opinare se il presidente della
Repubblica
Giorgio Napolitano si sia comportato in maniera conforme o meno alla
sua
carica istituzionale, ma il capo dello Stato non può affermare che
i doveri
che la Costituzione gli impone sono inutili, in quanto vanifica il
senso
stesso del suo ruolo col rischio di farlo decadere.
Ad ogni buon modo, con la ratifica del cosiddetto "scudo
fiscale", che a
dire il vero non è la prima amnistia concessa in Italia a favore
dei reati
fiscali, tra cui figura anche il falso in bilancio, il nostro Paese
si
conferma come un vero paradiso per i grandi evasori e i grandi
criminali,
quelli che riciclano abitualmente il denaro sporco trafugandolo
all'estero,
trasferendo i capitali di origine illecita in depositi di banche
consenzienti o colluse, per non dire complici, che fanno la
fortuna di
numerosi micro-stati sparsi in Europa e nel mondo, che offrono
condizioni
assolutamente vantaggiose in campo fiscale.
Il regime di indulto introdotto dallo "scudo fiscale"
permetterà di
depennare molti reati commessi in materia fiscale, nella misura in
cui verrà
esclusa la punibilità per le violazioni commesse al fine di evadere
il fisco
e trasferire il denaro all'estero, nonché l'emissione di false
fatture e il
falso in bilancio, che potranno essere sanati con il pagamento di
una somma
pari al 5% dell'imposta evasa. In tal modo saranno condonate tutte
le
infrazioni connesse al trafugamento dei grandi capitali all'estero.
I
colpevoli godranno ancora una volta dell'impunità e saranno
esentati da
imposte che superino l'aliquota del 5%, ma soprattutto saranno
dispensati da
ogni sanzione di ordine penale.
Si tratta, dunque, di un indulto al contrario, che scarcera e premia
chi ha
derubato il fisco e la collettività, grazie ad un provvedimento
varato da un
governo che ha fatto della sicurezza il suo cavallo di battaglia. La
stessa
legge, invece, penalizza i lavoratori onesti e indifesi, quelli che
percepiscono redditi fissi, vale a dire i redditi generati dal
lavoro
produttivo come i salari operai e gli stipendi degli addetti al
pubblico
impiego (i cosiddetti "fannulloni"), i quali resteranno
gli unici ad essere
tassati al 50-60% attraverso le ritenute fiscali trattenute
direttamente
alla fonte, cioè in busta paga.
Al di là di ogni argomentazione utilitaristica e pragmatica, è
evidente che
il varo della nuova legge rischia di trasmettere un messaggio
assolutamente
diseducativo e deleterio a livello etico e culturale, cioè che
l'Italia si
riconferma il regno dei furbi, dei rei e dei colpevoli che la fanno
franca e
restano puntualmente impuniti. Dipende solo dall'entità del reato:
più il
reato è grande più rimane impunito, specie se trattasi di un reato
economico-finanziario, nella fattispecie compiuto contro l'erario
dello
Stato, cioè contro gli interessi della collettività nazionale e
dei servizi
sociali erogati ai cittadini.
C’era una volta in
Irpinia
Nel corso dei primi anni ‘80, grazie
agli ingenti fondi economici assegnati dal governo per la
ricostruzione dei centri terremotati, fu avviato un
ambizioso e controverso esperimento, quello dell'industrializzazione
delle aree interne di montagna. Si decise di trasferire le fabbriche
(le stesse installate, ad es. nella pianura padana) in zone di
montagna, in territori aspri e tortuosi, difficilmente
raggiungibili, in cui non esisteva ancora una rete moderna di
infrastrutture stradali, trasporti e comunicazioni, in cui i primi
soccorsi legati all'emergenza post-sismica stentarono ad arrivare a
destinazione. Un'impresa velleitaria, se non impossibile, senza
dubbio perdente dalla nascita. E non poteva essere altrimenti,
dati i presupposti. Abbiamo patito un processo di sottosviluppo che
ha rivelato la propria natura regressiva arrecando guasti
irreparabili all'ambiente, al territorio e all'economia locale,
prettamente agricola e artigianale. Basta farsi un giro in
Irpinia per scoprire un paesaggio sfigurato per sempre.
Si trattava di un tentativo di
industrializzazione e modernizzazione economica legato alla
trasformazione post-industriale delle economie capitalisticamente più
avanzate del Nord. Questo piano presupponeva il trasferimento di
capitali e incentivi statali destinati a finanziare la
dislocazione di macchinari ed attrezzature industriali ormai
superate dai processi di ristrutturazione tecnico-produttiva in
atto nelle aree capitalistiche più evolute del Nord Italia. Pertanto, quel
progetto di (sotto)sviluppo era destinato a fallire sin dal
principio, nella misura in cui era stato concepito e gestito con
metodi clientelari, favorendo l'insediamento di imprese provenienti
dal Nord Italia, senza tutelare le ricchezze, le caratteristiche e le
esigenze territoriali, senza tenere nel dovuto conto i bisogni e le
richieste del mercato locale, senza promuovere e valorizzare le
produzioni e le coltivazioni indigene, sfruttando la manodopera
disponibile a basso costo, innescando in tal modo un circolo vizioso
e rovinoso, come si è dimostrato alla prova dei fatti.
Sempre negli anni '80 l'Irpinia era
la provincia che vantava il primato nazionale degli
invalidi civili e dei pensionati, un triste primato soprattutto se
si considera che in larga parte si trattava di falsi invalidi, in
grado di guidare automobili, di correre e praticare sport, di
scavalcare i sani nelle graduatorie delle assunzioni, di assicurarsi
addirittura i posti migliori, di fare rapidamente carriera grazie
alle raccomandazioni e ai favori elargiti dai ras politici locali,
intermediari del capo, il potente "uomo del monte".
Sin dai primi anni '80 la nostra era la provincia in cui si
contavano più pensioni Inps che nell'intera regione Lombardia, con
la percentuale più alta nel paese. Nelle nostre zone l'Inps era
divenuto il maggior erogatore di reddito per migliaia di
famiglie. In passato, soprattutto nel corso degli anni ‘80, il 50
per cento della popolazione irpina era formata da invalidi civili, in
buona parte giovani con meno di 30 anni. Ciò era possibile
grazie a manovre politiche clientelari e all'appoggio
decisivo di altre figure e altri pezzi rilevanti di società, a
cominciare dai medici e dai servizi sanitari compiacenti, se non
complici. Negli anni ‘80 il sistema clientelistico,
protezionistico e assistenzialistico in Irpinia era in pratica
onnipresente e totalitario, nella misura in cui seguiva e
condizionava la vita quotidiana delle persone, devote al santo
di Nusco, dalla culla al loculo, a patto di cedere in cambio il
proprio voto in ogni circostanza in cui veniva (e viene)
richiesto, ossia ad ogni tornata elettorale a livello locale,
regionale e nazionale. Ancora oggi sindaci e
amministratori dei Comuni irpini sono designati con la
benedizione dell'uomo del monte, che fa e disfa la politica a
proprio piacimento, costruendo o affossando maggioranze
amministrative, indicando persino i nomi dei candidati
all'opposizione. Ancora oggi, all'interno del blocco demitiano si
riflettono, si risolvono e dissolvono tutte le
contraddizioni e i contrasti tipici della dialettica
democratica tra governo e opposizione, tra sistema e antisistema,
precludendo ogni possibilità di ricambio e mutamento radicale della
politica irpina, che non a caso è tuttora sottoposta ai
ricatti, alle influenze, ai capricci, ai condizionamenti
esercitati dall'uomo del monte.
La rete dell'assistenzialismo era un
apparato scientificamente organizzato, volto a garantire la
conservazione perpetua di un sistema politico clientelare simile ad
una piovra, che con i suoi lunghi e complessi tentacoli si era
impadronita della cosa pubblica, occupando in modo permanente
la macchina statale, scongiurando ogni rischio di instabilità e di
crisi, quindi di cambiamento reale della società irpina. La grande
piovra del potere demitiano ha sempre distribuito posti, appalti, subappalti,
rendite, prebende, forniture sanitarie, in tutti i paesi della
provincia avellinese, favorendo e gestendo un vasto e capillare
sistema parassitario composto da decine di migliaia di addetti del
pubblico impiego, del ceto medio impiegatizio, di coltivatori
diretti, di liberi professionisti, che prima sostenevano la
Democrazia cristiana ed oggi appoggiano i suoi eredi,
investendo sempre su San Ciriaco, la testa pensante e pelata della
piovra tentacolare. Ecco perché tale struttura di potere
si è preservata in modo integro sino ad oggi, resistendo ad ogni
sussulto, sopravvivendo persino al furioso cataclisma politico
giudiziario provocato dalle inchieste di Mani Pulite, mentre
altrove si è dissolta sotto i colpi inferti dalla magistratura
milanese all'inizio degli anni ‘90.
Negli anni ‘90 abbiamo assistito ad un
nuovo processo di trasformazione del sistema economico produttivo,
di mutazione antropologica dell’Irpinia. Con l’avvento della
globalizzazione neoliberista, contestata ovunque, la società irpina
ha subito un’improvvisa accelerazione storica che ha
spinto fasce di popolazione, soprattutto giovanile, verso il baratro
della disoccupazione, dell'emigrazione, della precarizzazione.
Rispetto a tali condizioni, le "devianze
giovanili", i suicidi e le nuove forme di dipendenza sono
solo i sintomi più inquietanti di un diffuso malessere sociale.
L'attuale processo di (sotto)sviluppo ha generato anche
mostruosità, veleni e contraddizioni, favorendo atteggiamenti
tipici di un filone teatrale classificabile tra la
tragedia e la commedia umana, dando origine a nuove sacche di
miseria, sfruttamento ed imbarbarimento all'interno di comunità
sempre più disumanizzate e disgregate, massificate e omologate a
livello etico-spirituale. Tale fenomeno di standardizzazione
dei corpi e delle menti è peggiore di ogni forma di totalitarismo
precedente, in quanto più subdolo, non apertamente autoritario
poiché non si avvale di istituzioni repressive come l’esercito,
la polizia, il carcere, ma ricorre soprattutto ai mezzi di
comunicazione e persuasione occulta di massa, per cui la sua forza
si rivela più efficace e pervasiva. Tale ragionamento vale anche
per le comunità irpine, un tempo a misura d’uomo.
Lucio Garofalo
Non c'è nulla che sia più
ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali
In questi primi giorni di settembre, dopo
la lunga pausa estiva, presidi e insegnanti hanno ripreso a lavorare,
discutere ed incontrarsi nelle sedute dei Collegi dei docenti, nelle
riunioni delle commissioni tecniche, nei Consigli di Istituto, per
organizzare e progettare le attività didattiche curricolari e
aggiuntive in relazione al nuovo anno scolastico. Ovunque, nelle case
e nelle scuole fervono gli ultimi preparativi per l'imminente avvio
delle lezioni. Il ministro, alti dirigenti e funzionari scolastici,
varie figure di esperti gareggiano per lanciare qualche input, offrire
consigli preziosi agli insegnanti, indicare ed illuminare la "retta
via" a chi, eventualmente, l'avesse smarrita.
Inoltre, gli insegnanti precari hanno iniziato a ribellarsi
e protestare in modo massiccio e compatto. Si tratta di una rivolta
senza precedenti perché i licenziamenti di massa sono senza
precedenti. Mai come in questo momento occorre stare al fianco dei
lavoratori precari del mondo della scuola in un “autunno caldo”
esploso con largo anticipo.
Si annuncia infatti un settembre infuocato nella scuola
italiana, totalmente destabilizzata dalla "riforma"
Gelmini, che in un botto solo ha lasciato 42mila persone senza lavoro,
causando una vera macelleria sociale. E tutto per fare cassa, come
detta Tremonti, e dirottare i finanziamenti alle banche e alle imprese
private. In Campania, come in tutta Italia, i docenti precari hanno
assaltato gli Uffici Scolastici Provinciali, in perfetto stile INNSE,
avviando con forza una serie di vertenze mai conosciute in passato.
Nel frattempo continuano ad essere alimentate ideologie
cariche di pregiudizi e veleni piccolo-borghesi. In seguito ad una
martellante campagna demagogica e diffamatoria è inevitabile che si
scatenino polemiche e piovano accuse che screditano il corpo docente,
già mortificato da tempo. Stiamo parlando di una categoria
professionale chiamata ad assolvere il difficile compito di educare e
istruire le future generazioni, di formare i cittadini del futuro, per
cui meriterebbe maggior rispetto e considerazione. Simili campagne
ideologiche e strumentali sul presunto "parassitismo"
dei lavoratori statali non costituiscono una novità. Inoltre mi
indignano, nella misura in cui celano interessi affaristici e
mercantilistici. Insomma, oltre al danno c’è anche la beffa.
Le retribuzioni salariali degli insegnanti italiani sono tra
le più basse in Europa. Peggio di noi stanno solo i colleghi greci e
portoghesi. Intanto, il governo in carica continua ad imporre pesanti
tagli e riduzioni alle già misere risorse della scuola pubblica.
Tutto ciò comporta e arreca gravi danni al budget finanziario
riservato alla scuola pubblica, per dirottare i soldi verso altre
destinazioni. Si pensi alle sovvenzioni stanziate per gli armamenti
militari e ai contributi statali regalati alle scuole private.
Per quanto mi riguarda continuerò a
seguire il principio riassunto nella frase contenuta in "Lettera
a una professoressa", scritta dai ragazzi della scuola di
Barbiana del maestro don Milani: "Non c'è nulla che sia più
ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali". Un concetto
che richiama una visione anomala e anticonformista (diciamo pure
antiborghese) della democrazia, riferita alla scuola e all'intero
ordinamento sociale. La nostra è una scuola di disuguali inserita in
una società sempre più disuguale, laddove pesanti disuguaglianze
materiali e sociali sono destinate ad aggravarsi ulteriormente.
Dinanzi a simili sperequazioni economiche e
sociali, di fronte ad allarmanti situazioni di crescente disagio e
bisogno materiale, riconducibili alle nuove povertà e alle
contraddizioni derivanti dai massicci fenomeni migratori provenienti
dal Terzo mondo, la scuola non è attrezzata e preparata a
fronteggiare tali emergenze, anzitutto per ragioni di ordine
finanziario già spiegate in precedenza.
Ogni valida azione è affidata alla buona
volontà, alla capacità, allo zelo spontaneo (altro che fannulloni)
degli insegnanti, all'iniziativa autonoma delle istituzioni
scolastiche e dei lavoratori - docenti e non docenti - che operano
nelle scuole pubbliche. La cosiddetta "democrazia"
non può ridursi ad un'ipotetica offerta di "pari opportunità",
esplicandosi in un'arida ed insufficiente prassi di uniformità
distributiva delle risorse, così come avviene nel modello finora
adottato di welfare universalistico e indifferenziato.
Al contrario, occorre rilanciare e
rafforzare l’attenzione verso l’uguaglianza e la giustizia
redistributiva del reddito sociale, intese in termini di equità
sociale e redistribuzione delle ricchezze, possibili solo in un altro
assetto del welfare e dell'ordinamento statale e sociale, che sia in
grado di fornire "a ciascuno secondo i propri bisogni" e
chiedere ad ognuno "secondo le proprie possibilità".
Il che significa rivoltare l'organizzazione sociale esistente,
ridefinire e capovolgere l'idea stessa e la prassi finora applicata e
conosciuta di democrazia, di scuola e di Stato sociale.
Lucio Garofalo
Replica
al sindaco di Lioni e all'assessore Ruggiero
22
agosto 2009
Leggendo le risposte rilasciate dal Sindaco di Lioni, esattamente sul
sito
<http://www.irpinianews.it/DaiComuni/news/?news=52728>
IrpiniaNews, e
dall'Assessore Salvatore Ruggiero sul blog
<http://www.telelioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=422:ri
sposta&catid=33:politica&Itemid=50> TeleLioni in seguito al
mio
<http://www.telelioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=417:de
ficit&catid=33:politica&Itemid=50> intervento, non intendo
affatto sottrarmi
ad uno stimolante e proficuo scambio di opinioni.
Anzitutto devo riconoscere che le repliche dei due esponenti
istituzionali
denotano senza dubbio un certo grado di cultura civile e democratica,
per
cui ravviso la possibilità di promuovere una preziosa dialettica
democratica
anche attraverso un vivace confronto a distanza su siti on-line tra i
cittadini e i rappresentanti degli enti locali.
La democrazia del futuro viaggia sui canali di Internet e si esplica
in
quelle che sono le agorà dei giorni nostri, ossia le piazze virtuali
di
discussione e partecipazione politica. Il web è probabilmente uno
degli
strumenti più efficaci per superare "uno dei limiti di questa
Amministrazione" che, come ammette lo stesso Salvatore Ruggiero,
"si
manifesta proprio in modo vistoso sul piano della comunicazione verso
la
cittadinanza".
Riconosco altresì che l'assenza di un'opposizione seria e credibile
non è
imputabile all'attuale maggioranza consiliare, così come il deficit
di
democrazia partecipativa non si può ascrivere alle responsabilità di
una
sola Giunta municipale, in quanto si tratta di un clima politico, una
mentalità e un malcostume che hanno avuto origine in altri contesti e
altre
esperienze storiche. Ma bisogna anche aggiungere che l'odierna
amministrazione, guidata dal sindaco Rodolfo Salzarulo, non si è
spesa molto
per migliorare la situazione ereditata dalle precedenti gestioni
municipali.
La mia riflessione non si riferisce a comportamenti specifici assunti
dai
singoli amministratori, ma tende ad inquadrarsi in una cornice storica
e
politica più vasta e complessa. In tal senso, sono pienamente
d'accordo con
l'analisi suggerita da Salvatore Ruggiero per provare a spiegare e
comprendere la regressione e l'imbarbarimento culturale, civile e
politico
compiuto dalla società italiana negli ultimi venti o trent'anni.
Pertanto, raccogliendo l'invito ad essere più incisivo e costruttivo,
mi
permetto di rilanciare una proposta politica semplice, immediata ed
efficace: il bilancio partecipato.
Al di là delle chiacchiere e dei ricordi nostalgici, una democrazia a
partecipazione diretta si traduce in una serie di strumenti e
dispositivi
tecnico-amministrativi che permettano alla popolazione di contribuire
in
modo attivo e concreto all'elaborazione e all'esercizio della politica
municipale, favorendo la più ampia partecipazione possibile alle
decisioni
davvero importanti e determinanti per la comunità quali, ad esempio,
le
scelte concernenti la progettazione e la gestione del bilancio
economico
comunale.
Raccogliendo l'invito del sindaco di Lioni, mi permetto di suggerire
in
sintesi le eventuali modalità tecniche e pratiche di attuazione di
una
simile ipotesi partecipativa.
La partecipazione al bilancio municipale si compie anzitutto su base
territoriale: il Comune di Lioni, ad esempio, è diviso in quartieri.
Nel
corso di pubbliche assemblee la popolazione di ciascun quartiere è
invitata
ad esprimere e precisare i propri bisogni e stabilire le priorità in
vari
ambiti di intervento come l'ambiente, la scuola, la sanità.
Il passaggio successivo sarà di integrare le proposte con una
partecipazione
promossa e allargata su basi tematiche mediante il coinvolgimento
delle
varie categorie professionali, dei ceti produttivi e dei lavoratori.
Ciò
permetterà di acquisire una visione più organica e completa del
territorio,
della collettività e delle sue esigenze reali.
L'amministrazione comunale dovrà essere presente a tutte le assemblee
con un
proprio referente, che ha il dovere di fornire ai cittadini le
informazioni
legali, tecniche e finanziarie, nonché per avanzare proposte,
evitando con
cura di influenzare le decisioni dei partecipanti alle discussioni. Al
termine di questo percorso, ogni gruppo espone le sue priorità
all'Ufficio
di pianificazione, che redige un'ipotesi di bilancio tenendo conto
delle
priorità indicate in precedenza. Il Bilancio viene infine approvato
in una
seduta del Consiglio comunale. Nel corso dell'anno, attraverso
apposite
assemblee, la cittadinanza valuta l'esecuzione dei lavori e dei
servizi
previsti nel bilancio dell'anno precedente.
Non mi pare che si tratti di una proposta politica astratta e
utopistica,
anzi. Serve solo la volontà politica di rendere possibile e
praticabile
anche a Lioni un'autentica democrazia assembleare e partecipativa.
Lucio Garofalo
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