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DI LIONI

I Litfiba dalle origini new wave allo sputtanamento attuale

Alla fine degli anni ‘70, in Gran Bretagna e negli Usa la bufera del punk settantasettesco era ormai passata come una meteora. Dalla tempesta emersero soprattutto due gruppi, i Clash e gli Stranglers, che operarono una svolta decisiva sotto il profilo musicale e poetico, significativa anche sul piano dell’impegno politico. Il punk si evolveva in quella temperie artistica che sprigionava le sonorità della musica dark e post-punk, dell'elettronica e della new wave. Gli artisti di riferimento divennero i Bauhaus, i Gang of Four, i Joy Division, i Killing Joke, i Police, i Ruts, i Simple Minds, i Tuxedomoon, ma anche personaggi eclettici come David Bowie e la cantautrice statunitense Patti Smith.

In quegli anni Firenze stava per diventare una delle capitali europee del clima culturale ed artistico legato alla New Wave. D’altro canto, quella non fu la prima volta in cui il capoluogo toscano ebbe modo di rappresentare un crocevia dell’arte e della cultura, in Italia e in Europa. Già in altri momenti storici Firenze era stata al centro di formidabili esperienze di risveglio e di trasformazione artistica e culturale in Italia e nel mondo. Si pensi al periodo assolutamente unico e irripetibile in cui Firenze fu la culla della civiltà umanistica e rinascimentale europea, tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento. Si perdoni il paragone che potrà apparire azzardato e irriverente.

Nei primi anni ’80 la scena musicale europea fu attraversata dalle avanguardie darkpost-punk e new wave. In quegli anni Firenze pullulava di locali alternativi (new wave o post-punk) e stavano emergendo band che segneranno il corso successivo del rock in Italia. Basta citare il caso dei Diaframma e dei Litfiba, senza dimenticare i Neon, i Pankow ed altre band fiorentine che hanno calcato la scena underground di quegli anni. I Diaframma e i Litfiba furono gli alfieri e i precursori di una corrente musicale alternativa e innovativa che fu assorbita e sfruttata dall’industria discografica e culturale. Le due band fiorentine anticiparono i fermenti di un profondo rinnovamento musicale, influenzando anche la sfera del costume, tanto che a Firenze e dintorni la new wave si impose come una tendenza culturale e sociale di massa, assumendo i contorni di una moda commerciale che procurò un’immensa fortuna all’industria tessile di Prato.

Il nome dei Litfiba fu scelto prendendo spunto dall'indirizzo telex della sala prove usata all’inizio della loro carriera: "Località ITalia FIrenze via dei BArdi". In arte Litfiba. La composizione del gruppo è mutata più volte nel corso degli anni a causa dei frequenti avvicendamenti, ma la formazione originaria, quella del periodo d’oro compreso tra il 1980 e il 1989, riuniva cinque elementi storici: Gianni Maroccolo al basso, Federico Renzulli alla chitarra, Francesco Calamai alla batteria (a cui subentrò nel 1984 Ringo De Palma), Antonio Aiazzi alle tastiere e Piero Pelù alla voce. In seguito a divergenze artistiche e personali sorte all’interno della band, in particolare con il manager Alberto Pirelli, Gianni Maroccolo e Ringo De Palma si congedarono definitivamente dai Litfiba per unirsi al gruppo punk emiliano CCCP Fedeli alla linea, ribattezzato in seguito CSI.

A differenza dei Diaframma, che prediligevano le tonalità dark più cupe ed ossessive, i Litfiba ne inventarono di proprie ed originali, aggiornando il sound della new wave in chiave mediterranea e creando una versione latina dell’hard rock e dell’heavy metal.

Il primo brano dei Litfiba, intitolato "A Satana", era un pezzo solo strumentale in quanto la band non aveva ancora trovato un cantante. Fu il tastierista Antonio Aiazzi ad ingaggiare come vocalist un giovane liceale: Pietro Pelù. Nel luglio dell'82 i Litfiba vinsero la seconda edizione dell'Italian Festival Rock di Bologna e, nello stesso anno, uscì l'Ep Guerra, contenente brani assai significativi non tanto a livello musicale quanto poetico. Lo stile rievoca le sonorità dark/post-punk tipiche dei primi anni ’80. Infatti, il pentametro musicale adottato dai Litfiba ai loro esordi era quello tipico di David Bowie, Killing Joke, Stranglers, Tuxedomoon, assecondando il gusto estetico del momento. Nel 1983 uscì per la casa discografica Fonit Cetra il 45 giri "Luna/La preda" e nella compilation Body Section apparve il bellissimo pezzo "Transea". Sempre nello stesso anno i Litfiba realizzarono la colonna sonora dello spettacolo teatrale Eneide di Krypton.

Il 1984 fu l'anno della svolta per i Litfiba. Venne fondata la casa discografica IRA, ovvero "Immortal Rock Alliance", che divenne ben presto l’etichetta indipendente italiana più importante, per la quale uscì anche l’album Siberia dei Diaframma. Nello stesso anno si unì al gruppo il batterista Luca De Benedictis, in arte Ringo De Palma, il migliore amico ed ex-compagno di Liceo di Pier Pelù. Nel 1984 uscì l'Ep Yassassin, con "Electrica danza", una canzone d'amore bohemienne in cui è palese l'influsso esercitato da David Bowie. Sempre nell’84 uscì la prima antologia dei Litfiba, Catalogne Issue, con altri due classici del loro repertorio: "Onda araba" e "Versante est", in cui il linguaggio della new wave è rivisitato in chiave mediterranea. Sempre per l'IRA uscì nell’86 l'Ep Transea, ispirato da atmosfere e suggestioni orientali che saranno una fissazione di Pelù: gli zingari dell'est.

In ogni caso il ciclo più originale e significativo della produzione artistica dei Litfiba è costituito dalla cosiddetta "trilogia del potere", di cui Litfiba 3 (del 1988) rappresenta l'ultimo atto, il seguito di Desaparecido (del 1985) e 17 Re (del 1986). Questi tre dischi, incisi per la solita IRA, sono accomunati dall'avversione per i regimi totalitari. Dal tour successivo all’uscita di 17 Re fu estratto il live 12/5/87, il primo album dal vivo dei Litfiba. Nel 1989 uscì Pirata, il disco che sancì la consacrazione definitiva al grande pubblico. I Litfiba iniziarono a riscuotere una popolarità impensabile per un gruppo rock italiano, che da band di culto e di nicchia si trasformarono in un fenomeno di massa. Intanto crescevano le rivalità artistiche e personali tra Maroccolo e Renzulli, che causarono l’abbandono definitivo del gruppo da parte del bassista. Il quale nutriva una passione per le tonalità cupe, rese dalla dominanza del basso e delle tastiere elettriche sugli altri strumenti, mentre Ghigo seguiva una concezione più hard rock, all’insegna dei Led Zeppelin per intenderci, privilegiando gli assoli e le sonorità della chitarra elettrica.

La fase compresa tra il 1990 e il 1999 è legata alla cosiddetta “tetralogia degli elementi”, che annovera quattro dischi di indubbio successo commerciale: El diablo (inciso per la CGD nel 1990), Sogno ribelle (sempre per la CGD nel 1992), Terremoto (ancora per la CGD nel 1993) e Spirito (inciso per la EMI nel 1994). L’assenza di Maroccolo si avverte. Lo spirito new wave dei Litfiba era incarnato proprio da Gianni Maroccolo; la sua geniale vena creativa aveva ispirato la produzione artistica più originale e valida della band. Senza di lui i Litfiba non potevano più essere gli stessi. L’album di questo periodo che merita di essere segnalato è Terremoto, che proiettò per la prima volta in cima alle classifiche un gruppo rock italiano. Cavalcando l’onda della protesta emotiva suscitata dalle inchieste giudiziarie di Tangentopoli, in alcuni brani (ad esempio "Dimmi il nome", "Maudit" e "Soldi") Piero Pelù si lancia in polemiche un po’ facili e qualunquistiche: i bersagli sono la Chiesa, la classe politica corrotta, la mafia.

In conclusione, i Litfiba hanno compiuto uno dei più clamorosi "tradimenti" nella storia del rock italiano. Dopo aver rinnegato l’ispirazione ribelle, originale e lirica degli esordi, negli anni ’90 hanno abbracciato una formula pop/rock con venature “metallare” obsolete e commerciali, avviandosi verso un declino artistico e giungendo infine alla crisi del sodalizio tra Piero Pelù e Ghigo Renzulli. E all’inatteso e deludente rientro del 2010.

Lucio Garofalo


 

25 ottobre 2010....a proposto di Terzigno

La “vertenza irpina”, la questione dei rifiuti e l’emergenza democratica

 

Da tempo esiste oggettivamente un’allarmante vertenza in Irpinia, che si estrinseca in una serie di gravi emergenze di natura ambientale, sociale, economica e politica. Si pensi anzitutto alla cosiddetta “emergenza demografica”, cioè al calo inarrestabile della popolazione irpina, provocato non solo dalla drastica diminuzione delle nascite, ma anche dal nuovo fenomeno dell’emigrazione giovanile, di tipo intellettuale. Tali fattori concorrono allo spopolamento crescente dei paesi irpini, tranne pochi casi virtuosi ma isolati, che appaiono in controtendenza grazie al flusso di lavoratori immigrati extracomunitari o provenienti da altre province, soprattutto dall'hinterland napoletano.

 

Si pensi al problema della disoccupazione (il tasso della disoccupazione giovanile in Irpinia ha superato il 50 per cento), della precarietà economica sempre più estesa, di cui nessuno si preoccupa e che nessuno a livello istituzionale è intenzionato ad affrontare.

 

Ma su tutte le questioni spicca la cosiddetta “emergenza sanitaria”, che si traduce nell’infausta decisione di sopprimere i presidi ospedalieri di Sant'angelo dei Lombardi e di Bisaccia, che servono un bacino di utenza pari ad almeno cinquantamila abitanti.

 

Queste e altre emergenze irrisolte, come quella scolastica o quella esistenziale (si pensi all’aumento delle tossicodipendenze e dei suicidi giovanili), al di là delle molteplici responsabilità locali, si possono ridurre ad un comune denominatore, identificabile nell’assenza, o nella riduzione, degli spazi di agibilità democratica avvertita nel nostro Paese. Si tratta di un fenomeno preoccupante che va ascritto a livelli sovrapposti di responsabilità, derivanti dalle iniziative demagogiche assunte dal governo in carica. 

 

Si pensi alla pesante emergenza ambientale, che riesplode in Campania a causa del mancato smaltimento dei rifiuti napoletani: si pensi dunque al problema delle discariche di Savignano Irpino, dell’altopiano del Formicoso ed altri siti della nostra provincia.

 

A questo punto è il caso di soffermarsi a riflettere con lucidità intorno alla cosiddetta “emergenza” dei rifiuti riesplosa drammaticamente a Napoli, per smaltire anzitutto le (eco)balle, cioè le menzogne che ci stanno di nuovo propinando senza risparmio. Balle gonfiate ad arte, sia dagli organi della stampa borghese, sia dalle forze politiche formate da varie aggregazioni, che si tratti di coalizioni targate centro-destra, o si abbia a che fare con schieramenti politici di marca opposta ma, alla prova dei fatti, speculare.

La madre di ogni quesito è la seguente: cui prodest? A chi giova la logica emergenziale che ogni tanto riaffiora e si tenta di imporre con ogni mezzo, ricorrendo sia alla disinformazione di massa, alla manipolazione quotidiana delle notizie e alla propaganda mistificatrice e filo-camorrista, sia al ricatto e alla violenza repressiva istituzionalizzata?

Perché si insegue ad ogni costo lo scontro fisico con le popolazioni locali e non il dialogo pacifico? A chi conviene provocare uno stato di conflittualità permanente? A chi fa comodo creare una situazione così assurda e caotica, al limite della dittatura, peggiore di ogni fascismo conclamato e di ogni aperto totalitarismo perché più ipocrita e subdolo, esercitato in concreto, ma formalmente riparato sotto le vesti di una falsa "democrazia"?

Ormai è evidente che la cosiddetta "emergenza rifiuti" è solo un facile pretesto per instaurare nel paese una drastica svolta in senso autoritario. E’ in atto uno stato di polizia permanente che fa capo ad un regime cripto-fascista. Ci troviamo di fronte ad una nuova “strategia della tensione”, che mescola istanze e pulsioni xenofobe, urgenze di stampo sicuritario, con vertenze esplosive quali la drammatica questione dei rifiuti.  

Pertanto, la vera emergenza che incombe in Italia è anzitutto quella democratica. Ormai è un dato di un’evidenza assolutamente innegabile: non si può fare a meno di constatare l'assenza di un'autentica forza di opposizione politica e sociale, in grado di costruire un’alternativa seria e credibile al sistema di potere imposto dal berlusconismo.

In un contesto di crescente regressione autoritaria e populista sul piano nazionale si va delineando  una tendenza storica involutiva causata dalla recessione economica internazionale, a sua volta riconducibile alla crisi strutturale e senza precedenti che coinvolge il sistema capitalistico su scala planetaria, i cui effetti più dolorosi si ripercuotono sulle aree più arretrate e depresse del Meridione, in modo particolare sul mondo del lavoro produttivo, a scapito quindi della classe operaia, cioè di quel proletariato composto in modo crescente da lavoratori immigrati, un proletariato sempre più precario e malpagato, escluso dalla sfera del potere politico ed economico.

Se non si comincia a combattere in modo serio ed efficace le emergenze che affliggono le nostre comunità e soprattutto le classi lavoratrici, difficilmente si potrà estirpare alla radice il malessere sempre più diffuso che angoscia le giovani generazioni irpine. Sembra che l'ottimismo sia ormai un lusso riservato a pochi privilegiati, nella misura in cui le nuove generazioni, prigioniere dell'inquietudine e dello sconforto, non possono nutrire neanche la speranza verso un avvenire più sereno e soddisfacente, data la totale assenza di prospettive legate ad un lavoro decente e ad una vita degna d’essere vissuta. 

A causa della cittadinanza negata alle masse subalterne, i nostri giovani sono in gran parte costretti a mendicare favori che sono elargiti attraverso sistemi ereditati dal passato, sia per ottenere un lavoro a tempo determinato, precario e malpagato, privo di ogni diritto e tutela, sia per ricevere un normalissimo certificato, per cui i nostri diritti sono svenduti e sviliti in termini di volgari concessioni in cambio del voto politico a vita.

Questa mentalità clientelistica e fatalistica è un malcostume intrinseco alla “normalità” quotidiana, una situazione ritenuta “naturale” in base ad una legge di natura che in realtà non esiste. In effetti le leggi naturali non sono applicabili alla dialettica storica, che è segnata da tendenze e controtendenze sociali sempre mutevoli, che si intrecciano in un rapporto di reciproca interazione, per cui nulla è immutabile nella realtà storica e politica degli uomini, come si evince dalle esperienze rivoluzionarie del passato che hanno abolito i privilegi feudali e lo sfruttamento della servitù della gleba. Condizioni che per secoli gli uomini hanno accettato e riconosciuto come “giuste” e “ineluttabili”.

Purtroppo, anche in Irpinia la classe operaia conosce percentuali sconcertanti di omicidi bianchi, che denunciano un vero e proprio stillicidio di cui nessuno osa parlare. In Irpinia i lavoratori salariati sono endemicamente sudditi e ricattabili, in quanto asserviti ai notabili locali, dato che le assunzioni in fabbrica sono ancora decise secondo metodi clientelari. I segnali di una ripresa dell’iniziativa proletaria sono assai deboli, parziali e slegati tra loro; non vi sono attualmente organizzazioni politiche in grado di favorire un’accelerazione dei processi di presa di coscienza e di auto-organizzazione. Il proletariato (non solo quello irpino) non ha ancora acquisito fiducia in se stesso e non ha ancora rinunciato alle vane illusioni propinate dai mass-media e dai partiti borghesi.

Lucio Garofalo

 


 

IN OCCASIONE DELL’8 MARZO:

UNA RIFLESSIONE SU FEMMINISMO E FEMMINILIZZAZIONE NELLA SCUOLA ITALIANA

Probabilmente, occuparsi oggi di un tema vasto e controverso come il "femminismo" potrebbe apparire demodé nel senso che, per quanto si possa sollevare un problema reale ed oggettivo, l’approccio rischierebbe di essere  superato e scorretto in partenza.

Non c’è dubbio che diversi segnali attestano che l’uguaglianza tra i sessi rappresenta un traguardo ancora distante quando si tratta dei ruoli decisionali, benché la presenza femminile in molti settori lavorativi sia in costante aumento. E’ innegabile come in tutti gli ambiti lavorativi e sociali i maschi detengano e difendano a denti stretti le posizioni di maggior prestigio e potere. La discriminazione diventa un dato più evidente nel campo della politica, soprattutto ai vertici del potere. Infatti, tranne rare eccezioni, i “boss” dei partiti politici più importanti in Italia sono quasi tutti elementi maschili. Ciò è vero anche per gli ambienti della cosiddetta “sinistra radicale”, compresa Rifondazione comunista, i cui quadri dirigenti sono stabilmente in mano agli uomini.

Nel contempo, laddove esiste una netta prevalenza femminile, come nel settore della scuola, il rapporto di potere è rovesciato: infatti, sono in aumento i dirigenti scolastici donna. Tuttavia, a riguardo mi sono formato alcune convinzioni che, all’apparenza, potrebbero risultare invise alle più accese "femministe". Mi riferisco alla realtà della scuola italiana, soprattutto a livello dei primi ordini di scolarità: scuola dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di I grado. In tale contesto la femminilizzazione è un dato dominante. Si pensi alle scuole materne, laddove gli elementi maschili sono completamente assenti, o alle scuole elementari, dove i maestri costituiscono una netta minoranza. Ebbene, sono convinto che uno tra i principali problemi della scuola italiana (non l’unico, è ovvio) sia rappresentato dall’eccessiva femminilizzazione.

Mi spiego meglio. Altrove, ad esempio in Francia o in altri stati europei (in particolare nei paesi scandinavi) la presenza maschile è più consistente e, in alcuni casi (si pensi alla Norvegia), è addirittura massiccia. La ragione si intuisce e si spiega facilmente. In tali paesi gli emolumenti assegnati agli insegnanti sono più appetibili e convenienti, per cui gli uomini aspirano in maggior numero ai posti di insegnamento, a differenza del nostro paese, dove gli stipendi retribuiti alla classe magistrale sono a dir poco indecenti.

Ebbene, lo scarso valore economico riconosciuto alla professione docente in Italia, deriva almeno in parte dalla eccessiva femminilizzazione nella scuola. Infatti, le donne che insegnano sono nella quasi totalità madri e mogli, impegnate ad attendere alle faccende domestiche e accudire la prole, relegate in ruoli marginali rispetto ai coniugi, che magari svolgono funzioni più vantaggiose e remunerative sul piano economico.

Pertanto, le insegnanti che sono anche mogli e madri non hanno molto tempo, né voglia per dedicarsi ad attività sindacali e sociali, e tantomeno per occuparsi di politica. Per le medesime ragioni, quando si tratta di lottare e rivendicare i propri diritti, ottenere miglioramenti nella propria condizione lavorativa, le insegnanti (mogli e madri) tendono a sottrarsi e disimpegnarsi in modo decisivo, per cui il potere contrattuale della categoria si è ridotto progressivamente. Non a caso le adesioni agli scioperi nel comparto scuola sono più basse rispetto ad altri settori, laddove la presenza maschile è più alta. Si pensi ad esempio all’industria metal-meccanica o ad altri ambienti di lavoro.

Il mio non è un atto d'accusa nei confronti della presenza femminile nella scuola e nella società italiana, anzi. Il mio intento è esattamente quello di ridestare le coscienze assopite delle donne, distratte da troppi impegni familiari e di altro tipo, siano esse insegnanti, madri e mogli, siano esse indipendenti, perché la liberazione della società passa anche attraverso l'emancipazione effettiva delle donne da una condizione di marginalità e subalternità a cui ancora sono costrette nella società italiana, in vari ambiti professionali, ma ancor più sul versante del potere politico decisionale.

Lucio Garofalo


 

LAVORARE MENO PER LAVORARE TUTTI E VIVERE MEGLIO



Mi capita a volte di pensare a un paradosso universale, in quanto colpisce
direttamente l'intera compagine umana. Mi riferisco ad un'assurda e
insanabile contraddizione tra il crescente progresso tecnologico e
scientifico avvenuto soprattutto negli ultimi decenni, che permetterebbe
all'intero genere umano di vivere in condizioni decisamente migliori, e la
realtà concreta che denota un sensibile peggioramento dello stato in cui
versa gran parte dell'umanità, in particolare i produttori, cioè le classi
lavoratrici salariate. Questa assurda incongruenza opprime anche i
lavoratori che vivono nel mondo occidentale.

Ebbene, grazie alle più recenti e avanzate conquiste ottenute nel campo
tecnico e scientifico, la nobile ed antica "utopia" dell'emancipazione
dell'umanità dal bisogno di lavorare, inteso come prestazione di tempo
alienato e mercificato, cioè sottoposto a condizioni di servitù e
sfruttamento economico, è virtualmente realizzabile oggi di ieri.

Ciò significa che tale ipotesi sarebbe oggettivamente possibile e
necessaria, ma nel contempo è impraticabile nel quadro dei rapporti
giuridici ed economici vigenti, imperniati su leggi e strutture classiste
insite nel modo di produzione capitalistico, che non a caso attraversa un
periodo di grave crisi ideologica e sistemica di portata globale.

Pertanto, l'idea dell'affrancamento dell'umanità dallo sfruttamento e
dall'alienazione che si verificano durante il tempo di lavoro, potrebbe
dirsi prossima alla sua attuazione. Tuttavia, una simile meta non si
potrebbe conseguire senza una rottura rivoluzionaria compiuta a livello
planetario nel quadro del dominio capitalistico tuttora vigente. Mi
riferisco esplicitamente all'abolizione della proprietà privata dei grandi
mezzi della produzione economica, che controlla e detiene l'alta borghesia
industriale e finanziaria.

Così come gli antichi greci si occupavano liberamente e amabilmente di
politica, filosofia, poesia e belle arti, godendo dei piaceri concessi dalla
vita, essendo esonerati dal lavoro manuale svolto dagli schiavi, parimenti
gli uomini e le donne del mondo odierno potrebbero dedicarsi alle piacevoli
attività del corpo e dello spirito, affrancandosi finalmente dal tempo di
lavoro assegnato alle macchine e condotto grazie ai processi di automazione
ed informatizzazione della produzione dei beni di consumo.

Questo traguardo rivoluzionario è già raggiungibile, almeno in teoria,
grazie alle enormi potenzialità "emancipatrici" ed "eversive" fornite dallo
sviluppo della scienza e della tecnica soprattutto nel campo della robotica,
della cibernetica e dell'informatica.

Lucio Garofalo



Smemorati nel giorno della Memoria

Come si sa, il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita dal
Parlamento italiano con la legge 211 del 20 luglio 2000, in ottemperanza
alla proposta internazionale di dedicare il 27 gennaio alla commemorazione
delle vittime dell'Olocausto. La scelta della data rievoca il 27 gennaio
1945, quando le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di
concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo intero l'orrore del
genocidio nazista.

Il ricordo della Shoah è celebrato da molte nazioni e dall'ONU in ossequio
alla risoluzione 60/7 del 1° novembre 2005. Il concetto di olocausto, dal
greco holos, "completo", e kaustos, "rogo", come nelle offerte sacrificali,
venne introdotto alla fine del XX secolo per indicare il tentativo nazista
di eliminare i gruppi di persone "indesiderabili": Ebrei ed altre etnie come
Rom e Sinti, cioè gli zingari, comunisti, omosessuali, disabili e malati di
mente, Testimoni di Geova, russi, polacchi ed altre popolazioni di origine
slava.

Il vocabolo Shoah, che in lingua ebraica significa "distruzione", o
"desolazione", o "calamità", nell'accezione di una sciagura improvvisa e
inattesa, è un'altra versione usata per indicare l'Olocausto. Molti Rom
usano l'espressione Porajmos, "grande divoramento", o Samudaripen,
"genocidio", per definire lo sterminio nazista. Sommando agli Ebrei queste
categorie di persone il numero delle vittime del nazismo è stimabile tra i
10 e i 14 milioni di civili, e fino a 4 milioni di prigionieri di guerra.

Oggi il termine "olocausto" è usato anche per esprimere altri genocidi,
avvenuti prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, e designare
qualsiasi strage volontaria e pianificata di vite umane, come quella causata
da un conflitto atomico, da cui discende la voce "olocausto nucleare".
Talvolta la nozione di "olocausto" serve per descrivere il genocidio armeno
e quello ellenico, che provocò lo sterminio di 2,5 milioni di cristiani da
parte del governo nazionalista ottomano dei Giovani Turchi tra il 1915 e il
1923.

Tuttavia, con questo articolo mi preme resuscitare la memoria di altre
terribili esperienze storiche in cui furono consumati orrendi eccidi di
massa troppo spesso ignorati o dimenticati dai mass-media e dalla
storiografia ufficiale. Mi riferisco in modo particolare allo sterminio
perpetrato contro gli Indiani d'America e a quello contro i "Pellerossa" del
nostro Sud, i briganti e i contadini ribelli del Regno delle Due Sicilie.

Dopo la scoperta del Nuovo Mondo ad opera di Cristoforo Colombo nel 1492,
quando giunsero i primi coloni europei, il continente nordamericano era
popolato da un milione di Pellerossa riuniti in 400 tribù e circa 300
famiglie linguistiche. Quando i coloni bianchi penetrarono nelle sterminate
praterie abitate dai Pellerossa, praticarono una spietata caccia ai bisonti,
il cui numero calò drasticamente rischiando l'estinzione. I cacciatori
bianchi contribuirono allo sterminio dei nativi che non potevano vivere
senza questi animali, da cui ricavavano cibo, pellicce ed altro. Ma la
strage degli Indiani fu opera soprattutto dell'esercito statunitense che per
espandersi all'interno del Nord America cacciò i nativi dalle loro terre
attuando veri e propri massacri senza risparmiare donne e bambini. I
Pellerossa furono letteralmente annientati attraverso uno spietato
genocidio.

Oggi i nativi nordamericani non formano più una nazione, essendo stati
espropriati della terra che abitavano, ma anche della memoria e
dell'identità culturale. Infatti una parte di essi si è progressivamente
integrata nella civiltà bianca, mentre un'altra parte vive ghettizzata in
centinaia di riserve sparse nel territorio statunitense e in quello
canadese.

Un destino comune, anche se in momenti e con dinamiche diverse, associa i
Pellerossa ai Meridionali d'Italia. Questi furono definiti "Briganti",
vennero trucidati, torturati, incarcerati, umiliati. Si contarono 266 mila
morti e 498 mila condannati. Uomini, donne, bambini e anziani subirono la
stessa sorte. Processi manovrati o assenti, esecuzioni sommarie, confische
dei beni. Ma i Meridionali erano cittadini di uno Stato molto ricco.

Il Piemonte dei Savoia era fortemente indebitato con Francia e Inghilterra,
per cui doveva rimpinguare le proprie finanze. Il governo della monarchia
sabauda, guidato dallo scaltro e cinico Camillo Benso conte di Cavour,
progettò la più grande rapina della storia moderna: cominciò a denigrare il
popolo Meridionale per poi asservirlo invadendone il territorio: il Regno
delle Due Sicilie, lo Stato più civile e pacifico d'Europa. Nessuno venne in
nostro soccorso. Solo alcuni fedeli mercenari Svizzeri rimasero a combattere
fino all'ultimo sugli spalti di Gaeta, sino alla capitolazione.

I vincitori furono spietati. Imposero tasse altissime, rastrellarono gli
uomini per il servizio di leva obbligatoria (facoltativo nel Regno delle Due
Sicilie); si comportarono vigliaccamente verso la popolazione e verso il
regolare ma disciolto esercito borbonico, che insorsero. Ebbe inizio la
rivolta dei Briganti Meridionali. Le leggi repressive furono simili a quelle
emanate a discapito dei Pellerossa. Le bande di briganti che lottavano per
la loro terra avevano un pizzico di dignità e di ideali, combattevano un
nemico invasore grazie anche al sostegno delle masse popolari e contadine,
deluse e tradite dalle false promesse concesse dall'"eroico" pirata,
mercenario e massone, Giuseppe Garibaldi.

Contrariamente ad altre interpretazioni, non intendo assolutamente comparare
il fenomeno del Brigantaggio meridionale post-unitario alla Resistenza
partigiana del 1943-1945. Per varie ragioni, anzitutto perché nel primo caso
si trattò di una vile e barbara aggressione militare, di una guerra di
rapina e di conquista che ebbe una durata molto più lunga della guerra
civile tra fascisti e antifascisti: l'intero decennio dal 1860 al 1870.

I briganti meridionali furono costretti ad ingaggiare un'aspra e strenua
resistenza che ha provocato eccidi spaventosi, in cui vennero trucidati
centinaia di migliaia di contadini e di briganti, persino donne, anziani e
bambini, insomma un vero e proprio genocidio perpetrato contro le
popolazioni del Sud Italia. Una guerra conclusasi tragicamente, dando luogo
al fenomeno dell'emigrazione di massa dei contadini meridionali. Un esodo di
proporzioni bibliche, paragonabile alla diaspora del popolo ebraico.
Infatti, i meridionali sono sparsi nel mondo ad ogni latitudine e in ogni
angolo del pianeta, hanno messo radici ovunque, facendo la fortuna di
numerose nazioni: Argentina, Venezuela, Uruguay, Brasile, Stati Uniti
d'America, Svizzera, Belgio, Germania, Australia, e così via.

Se si intende equiparare ad altre esperienze storiche la triste vicenda del
brigantaggio e la feroce repressione sofferta dal popolo meridionale, credo
che l'accostamento più giusto sia quello con la storia dei Pellerossa e le
guerre indiane combattute nello stesso periodo, vale a dire verso la fine
del XIX secolo. Guerre sanguinose che hanno causato stragi e delitti
raccapriccianti contro i nativi nordamericani. Un genocidio ignorato o
dimenticato, come quello consumato a discapito del popolo dell'Italia
meridionale.

Nel contempo condivido solo in minima parte il giudizio, forse oltremodo
drastico e perentorio, probabilmente unilaterale, che attiene al carattere
anacronistico, codino e antiprogressista, delle ragioni storiche, politiche
e sociali, che furono all'origine della lotta di resistenza combattuta dai
briganti meridionali. In politica ciò che è vecchio è quasi sempre retrivo e
conservatore. E' in parte vero che dietro le imprese e le azioni di
guerriglia compiute dai briganti si riparavano gli interessi di un blocco
reazionario, filo-borbonico, sanfedista e filo-clericale. Tuttavia,
inviterei ad approfondire le motivazioni e le spinte che animarono la
strenua resistenza dei briganti contro gli invasori sabaudi.

Non intendo annoiare i lettori con le cifre sui numerosi primati detenuti
dalla monarchia borbonica e dal Regno delle Due Sicilie in ampi settori
dell'economia, dell'assistenza sanitaria, dell'istruzione e via discorrendo,
né mi sembra opportuno esternare sciocchi sentimenti di nostalgia verso una
società arcaica, dispotica e aristocratico-feudale, quindi verso un passato
di barbarie e oscurantismo, ingiustizia ed oppressione, sfruttamento e
asservimento delle plebi rurali del nostro Sud. Ma un dato è certo: la
dinastia sabauda era senza dubbio più rozza, retriva e ignorante, meno
moderna e progredita di quella borbonica. Il Regno delle Due Sicilie era uno
Stato molto più ricco e avanzato del Regno dei Savoia, tant'è vero che
costituiva un boccone appetibile per le maggiori potenze europee del tempo,
Francia e Inghilterra in testa. Questo è un tema estremamente vasto,
complesso e controverso, che esige un approfondimento adeguato.

Concludo con una rapida chiosa circa le presunte tendenze progressiste
incarnate nei processi di creazione e unificazione degli Stati nazionali nel
XIX secolo e nella costruzione dell'odierno Stato europeo. Non mi pare che
tali processi abbiano spinto e assicurato un autentico progresso sociale,
ideale, morale e civile, ma hanno favorito uno sviluppo prettamente
economico ad esclusivo vantaggio delle classi dominanti e possidenti.
Intendo dire che l'unificazione dei mercati e dei capitali, prima a livello
nazionale ed ora a livello europeo, non coincide con l'integrazione dei
popoli e delle culture, siano esse locali, regionali o nazionali. Ovviamente
le forze autenticamente progressiste e rivoluzionarie, devono puntare a
raggiungere il secondo traguardo.

Lucio Garofalo

La crisi in Irpinia

Se provassi a ragionare sui problemi concreti dell'Irpinia e mi addentrassi troppo nel merito, temo che rischierei di espormi a qualche denuncia, giacché un malcostume tipico dei politici è esattamente quello di sentirsi facilmente "diffamati" o “calunniati”, querelando chiunque osi affermare una verità riconosciuta da tutti, ma sottaciuta, sempre malintesa e confusa con la menzogna, respinta come una "accusa infamante".

Ormai siamo giunti ad un punto in cui non si può più ignorare un insieme di segnali che indicano anche in Irpinia l’inasprimento delle condizioni di vita delle fasce sociali più colpite dalla crisi e dalla precarietà economica. Tali situazioni esistono e si aggravano anche nei piccoli centri, che non sono più "oasi felici", oltretutto perché si è allentata la rete di reciproca solidarietà che in passato assisteva  le nostre comunità.

I dati Istat, relativi al 2008, riferiscono che In Italia le famiglie in condizioni di povertà relativa sono stimate in quasi 2 milioni 737 mila e sono l’11,3% delle famiglie residenti. Gli italiani poveri hanno superato quota 8 milioni, esattamente sono stati calcolati 8 milioni 78 mila di poveri, pari al 13,6% della popolazione nazionale. A parte le stime della povertà assoluta in Italia, che pure rappresentano un serio motivo di allarme, le cifre più inquietanti denunciano l’incremento costante della povertà relativa negli ultimi anni, soprattutto al Sud, dove l’incidenza del fenomeno si espande paurosamente.

Infatti, se in Italia le cose vanno male, al Sud vanno sempre peggio. "Al Sud non solo ci sono più poveri, ma vivono anche peggio rispetto alle altre aree del Paese", spiega Nicoletta Pannuzi, ricercatrice Istat. Nel Mezzogiorno i poveri oltre ad essere più numerosi sono anche più poveri: al Sud la percentuale della povertà sale al 24%. Ma le regioni dove si sta peggio sono Campania e Sicilia: le famiglie campane e siciliane evidenziano un peso della povertà rispettivamente del 27 e del 30,8%. In questo dato negativo incide anche la presenza di famiglie numerose, composte da cinque o più componenti, che denotano livelli di povertà più alti: in Italia il 26,2% di queste famiglie versa in condizioni di povertà relativa, ma al Sud la percentuale si attesta al 39,2%.

Dunque, il 24% della popolazione meridionale affonda  sotto la soglia di povertà. Anche in Irpinia la povertà registra un incremento allarmante a causa della crisi: la platea della popolazione irpina che giace in condizioni di povertà relativa si attesta intorno al 22%.

In un contesto simile, segnato da sconcertanti fenomeni di povertà, precarietà ed emarginazione in costante aumento, che colpiscono un’area rilevante della popolazione irpina, s’insinua pure una tendenza impercettibile e complessa che agisce in profondità.

Anche in Irpinia l’effetto più drammatico e palese della crisi scaturita dal fallimento di un modello di sviluppo diretto ed imposto dall’alto negli anni della ricostruzione post-sismica, è stato un processo di imbarbarimento che ha alterato profondamente i rapporti umani. I quali sono sempre più improntati all’insegna di un feticismo assoluto, quello del profitto e della merce, trasmesso alle nuove generazioni come l’unico senso della vita.

Tale modello consumistico si è rivelato quantomeno diseducativo, in quanto il mito del denaro e del benessere tiranneggia come un’aspirazione univoca e pervade ossessivamente la nostra esistenza, diventando un punto di riferimento deleterio, specie se non è sorretto da una coscienza matura sotto il profilo etico e spirituale, capace di sottoporre a critica e sostituire, se necessario, quell'interesse unilaterale con altri valori più solidi e gratificanti. L'imposizione di una visione  della vita conforme all’ideologia dominante, agisce attraverso metodi diversi rispetto al passato, cioè mediante il ricorso a meccanismi solo apparentemente democratici e non apertamente autoritari, ma che alla prova dei fatti si rivelano più alienanti e coercitivi di qualsiasi totalitarismo. 

A scanso di equivoci, chiarisco che non mi appartiene assolutamente un sentimento di nostalgia verso un passato ormai anacronistico che fu di dolore ed oppressione, di miseria e sfruttamento delle plebi rurali irpine, di depravazione morale delle classi sociali dominanti: si pensi all'aristocrazia baronale o alla ricca borghesia mercantile. Invece mi preme spiegare la società vigente sulla base di un'interpretazione corretta e disincantata del passato. Occorre indagare in profondità la realtà esistente, segnata da un fallace sviluppo economico e civile, da una democrazia posticcia e solo formale, da un benessere fittizio, corrotto e mercificato, in quanto esclusivamente consumistico.

L’analisi storica serve per provare a progettare e costruire un avvenire migliore per le giovani generazioni irpine. Le quali sono costrette ad emigrare in massa per cercare fortuna altrove, benché siano indubbiamente più scolarizzate dei loro antenati emigranti analfabeti o semianalfabeti. Con la differenza che quello odierno è un flusso migratorio senza più ritorno, per cui la perdita per le nostre zone si rivela immane e irreparabile.

Il mio "pessimismo cosmico" è solo apparente e deriva da una valutazione onesta e severa della società odierna, ma è un atteggiamento sorretto e confortato da uno spirito sano e ottimistico, che discende dal desiderio di modificare lo stato di cose esistenti.

Occorre propugnare una trasformazione radicale dell’esistente a beneficio dei nostri figli, insieme con gli altri soggetti realmente antagonisti e progressisti, attraverso un'azione  politica necessariamente rivoluzionaria. Le popolazioni irpine sono ancora soggette ad una casta politica ormai vetusta e incancrenita, che governa con sistemi obsoleti, alla stregua del celebre "Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, convinto che tutto debba cambiare affinché nulla cambi e resti come prima.

L'attuale processo di sviluppo ha generato aspre e velenose contraddizioni sociali, dando luogo a nuove sacche di miseria ed emarginazione, precarietà e sfruttamento in contesti sempre più omologati sul piano culturale. Questo fenomeno di massificazione dei corpi e delle menti è peggio di qualsiasi fascismo conosciuto in passato, è un sistema subdolo e perverso, non apertamente autoritario, in quanto non si serve delle istituzioni repressive per antonomasia come il carcere e la polizia, ma si avvale dei mezzi di comunicazione e persuasione di massa, per cui la sua forza si rivela più efficace e pervasiva.

L'Irpinia di oggi è una realtà desolante, nella misura in cui l'autonomia e la consapevolezza del singolo sono impedite e soffocate, la personalità individuale è deprivata di ogni scelta alternativa all'esistente, espropriata di ogni diritto ed ogni possibilità effettiva di partecipazione sociale e politica libera e cosciente. Insomma, il "pensiero unico" dell'homo economicus, tipico dell'ideologia mercantile borghese, ha attecchito anche nella nostra terra, facendo regredire le coscienze e i comportamenti individuali e collettivi all'interno di società che fino a pochi decenni fa potevano dirsi abbastanza coese e solidali, moralmente sane, autenticamente a misura d'uomo.

Quelle che un tempo erano piccole comunità tutto sommato omogenee e compatte, benché anguste nella loro arretratezza culturale, estremamente gelose delle proprie usanze e tradizioni religiose e linguistiche, appoggiate su un’economia chiusa di tipo arcaico e semi-feudale, si sono trasformate in modo improvviso, convulso e brutale. Per cui oggi risultano completamente disgregate e nevrotiche, sconvolte da un'accelerazione storica che ha innescato un processo involutivo sul piano delle relazioni interpersonali.

La schizofrenia e l'atomizzazione sociale sono probabilmente i segnali più evidenti e dolorosi di una società caduta in pieno disfacimento e in fase di decomposizione avanzata, in quanto momento finale e irreversibile di una  profonda crisi strutturale e ideologica che investe il funzionamento del sistema capitalistico a livello mondiale. 

Lucio Garofalo

LIONI 20 GENNAIO 2010


 

 

Uno spettro migrante s'aggira per l'Europa



Non c'è dubbio che la paura sia un istinto naturale, insito nella natura
animale degli uomini. La paura è un impulso congenito e primordiale,
indispensabile alla sopravvivenza e all'autoconservazione delle specie
viventi. Senza questo istinto gli esseri viventi non avrebbero alcuna
possibilità di scampo di fronte alle insidie presenti nell'ambiente
circostante. Ma proprio in quanto comportamento istintivo, la paura è un
elemento irrazionale e primitivo che ha bisogno di essere regolato
dall'intelligenza per evitare che prevalga, divenendo l'elemento dominante e
determinante delle azioni umane.

La paura può essere una forza devastante quando si fa strumento di lotta
politica ed è usata per influenzare gli orientamenti delle masse che, prese
dal panico, impazziscono, tramutandosi in furia cieca e incontenibile.
Infatti, nulla è più impetuoso di una folla inferocita o terrorizzata, al
pari di una mandria di bufali in fuga, assaliti dai predatori.

Il panico causa disastri come un cataclisma naturale, è catastrofico come un
terremoto o un'eruzione vulcanica. Il "Terrore" per antonomasia è costituito
dalla violenza della rivoluzione, quindi è la madre delle paure collettive
che affliggono le classi dominanti.

La paura suscitata dalla minaccia di una "catastrofe sociale" che rischia di
sovvertire l'ordine costituito e mette a repentaglio la sicurezza del
proprio status di classi possidenti, è all'origine delle angosce che
tormentano la società contemporanea. Ecco che risorge lo spettro della
rivoluzione sociale, lo spauracchio della rivolta di massa.

Da quando l'umanità ha creato le prime forme di proprietà privata,
accumulando il surplus economico originario, derivante dall'espropriazione
del prodotto del lavoro collettivo, la paura più forte e ricorrente nella
storia della lotta di classe nelle diverse società (dallo schiavismo antico
al feudalesimo medievale, al capitalismo moderno) è la paura di perdere ciò
che si possiede, il terrore di vedersi espropriare le ricchezze estorte ai
produttori, siano essi schiavi, servi della gleba o salariati. Non è un caso
che più si è ricchi più si ha paura e, probabilmente, si è più infelici in
quanto tormentati dall'inquietudine. Da qui è sorta l'esigenza di istituire
un potere forte e superiore, detentore del monopolio della violenza, ossia
lo Stato, atto a garantire la sicurezza e l'ordine in una società retta
sull'ingiustizia, sullo sfruttamento e sulla divisione in classi.

La rivoluzione sociale è il più grande spauracchio dei governi e delle
classi egemoni, in particolare dei governi e delle classi possidenti e
dominanti nelle società capitaliste decadenti e putrescenti, sempre più
angosciate dall'assalto inevitabile delle masse dei proletari migranti,
impaurito dalla rabbia e dall'ansia di riscatto dei popoli e delle classi
socialmente più povere, oppresse ed emarginate provenienti dal Sud del
mondo.

Una paura molto attuale e diffusa negli stati sembra essere la paura verso
una società realmente democratica, che si estrinseca nella partecipazione
concreta delle persone, per cui può divenire fonte di conflittualità e di
antagonismi sociali. La democrazia, non quella subìta passivamente, bensì
vissuta attivamente, da protagonisti e non da sudditi o spettatori, il
dissenso e il libero pensiero, la libertà intesa e praticata come critica e
partecipazione diretta ai processi politici decisionali, tutto ciò incute
un'angoscia profonda nell'animo di chi controlla e detiene il potere e la
ricchezza sociale.

Da tali paure scaturisce un'idiosincrasia anticomunista e antidemocratica
che tende a demonizzare le idee di libertà e i loro portatori, fino alla
criminalizzazione e alla repressione di ogni dissenso ed ogni vertenza,
recepiti come un'insidia che mina l'ordine costituito, che a sua volta si è
determinato in seguito a precedenti rivolgimenti sociali.

Si rammenti che gli stati moderni e le società borghesi capitaliste hanno
avuto origine da violente rivoluzioni sociali eseguite in gran parte dalle
masse contadine e proletarie guidate dalle avanguardie illuminate e liberali
della borghesia, che oggi teme di perdere il proprio potere e i propri
privilegi di classe egemone e possidente. Il ruolo storico della borghesia,
che un tempo era stato politicamente eversivo e rivoluzionario, determinando
il rovesciamento violento dei regimi dispotici e assolutistici e delle
aristocrazie feudali, con le loro sovrastrutture ideologiche oscurantiste di
origine medievale, si è rapidamente trasformato in senso conservatore e
misoneistico, rappresentando un ostacolo concreto alla realizzazione del
progresso scientifico, culturale e sociale, all'esercizio pratico della
democrazia diretta e partecipativa, al compimento di un effettivo processo
di liberazione e di affrancamento del genere umano da ogni forma di barbarie
e di violenza, di oppressione e di sfruttamento, di schiavitù e di paura.

Lucio Garofal
o

Quando gli schiavi si ribellano e la loro rabbia spaventa la borghesia



La rivolta rabbiosa ed improvvisa (ma prevedibile) dei braccianti africani
della piana di Gioia Tauro, che hanno messo in atto una furiosa guerriglia
urbana che rievoca le scene incendiarie della banlieue parigina o dei ghetti
di Los Angeles di alcuni anni fa, ha turbato i sonni tranquilli di una
società piccolo-borghese che si è ridestata attonita e sgomenta dal torpore
in cui sono sprofondate pure le masse proletarie italiane, vittime di un
razzismo strisciante alimentato quotidianamente dai media e dal governo in
carica.

Gli ipocriti e i benpensanti si scandalizzano facilmente di fronte alla
rivolta degli immigrati, deprecando l'aggressività e la rabbia con cui si è
manifestata, celebrando l'intervento armato delle forze dell'ordine, come se
la violenza di chi reagisce all'oppressione non abbia una ragione morale
superiore alla violenza perpetrata dall'oppressore. Gli schiavi non possono
e non devono ribellarsi al loro padrone.

La violenza fa parte di una società che la condanna come un delitto quando
ad esercitarla sono gli ultimi e i più deboli, i negri, i proletari e gli
oppressi in genere, ma viene legittimata come un diritto quando è una
violenza sistemica esercitata dal potere, per cui viene autorizzata in
termini di repressione armata finalizzata alla salvaguardia dell'ordine
costituito, un ordine retto (appunto) sulla violenza di classe.

Non a caso la violenza viene esecrata solo quando è opera degli oppressi e
degli sfruttati. Si pensi alla rivolta di massa che alcuni anni fa esplose
con furore nella banlieue parigina, espandendosi con la rapidità di un
incendio alle altre periferie suburbane della Francia. Si pensi
all'esplosione di rabbia e violenza dei lavoratori immigrati di Rosarno, in
maggioranza di origine africana, oppressi e sfruttati a nero, maltrattati e
vessati dai caporali e dalla criminalità al limite della sopportazione
umana.

Per comprendere tali  fenomeni sociali occorre rendersi conto di ciò che
sono diventate le aree periferiche e suburbane in Francia, ossia luoghi di
ghettizzazione, degrado ed emarginazione, occorre verificare le condizioni
brutali e disumane in cui sono costretti a vivere i lavoratori agricoli
immigrati in Italia, sfruttati al massimo dagli sciacalli della malavita
organizzata locale e dal padronato capitalistico di stampo mafioso e legale.


In Italia meridionale si è formato un vero e proprio esercito di
forza-lavoro migrante, in gran parte di origine africana, che si muove
periodicamente dalla Campania alla Puglia, dalla Calabria alla Sicilia,
seguendo il ciclo dei raccolti agricoli, che lavora nei campi in condizioni
al limite della schiavitù e vive in ghetti subumani costituiti da baracche
di cartone e nylon sostenute da fasce di plastica nera, in aree misere e
degradate.

Questi braccianti irregolari, in quanto clandestini, sono costretti a
lavorare a nero e sotto al sole per 14 ore al giorno, retribuiti con meno di
20 euro giornalieri, sfruttati in condizione di estrema ricattabilità,
sottoposti all'arroganza dei caporali e alle vessazioni della criminalità
mafiosa che controlla sia i flussi migratori che il lavoro nero. Questa
manodopera agricola offerta a bassissimo costo è estremamente conveniente,
in quanto viene prestata senza rispettare alcun contratto sindacale e quindi
senza osservare alcuna norma di sicurezza e di retribuzione, consentendo
notevoli profitti economici.

Dunque, per capire l'emblematica rivolta dei "nuovi schiavi" bisognerebbe
calarsi nella loro realtà quotidiana dove il disagio sociale e materiale, il
degrado urbano, la violenza e lo sfruttamento di classe, la precarietà
economica, il dolore, la disperazione e l'emarginazione degli
extracomunitari, costituiscono il retroterra materiale, sociale ed
ambientale che produce inevitabilmente drammatiche esplosioni di rabbia,
violenza e guerriglia urbana come quelle a cui
abbiamo assistito in questi
ultimi giorni in Calabria.

Invece, tali vicende sono etichettate e liquidate (ingiustamente e
banalmente) come atti di "teppismo" e "delinquenza", secondo parametri
razzisti e classisti che sono tipici di una mentalità ipocrita e benpensante
che da sempre appartiene alla piccola borghesia.

Lucio Garofalo






A proposito di violenza

Ultimamente si è cianciato molto a sproposito di violenza, per cui ho
elaborato una riflessione personale su un tema su cui vale sempre la pena di
spendere qualche parola.

La violenza, intesa come comportamento individuale, ha senza dubbio
un'origine più profonda e complessa, insita nella struttura sociale. Nelle
realtà capitaliste, la violenza del singolo, la ribellione apparentemente
senza causa, la follia, il vandalismo e il teppismo, la criminalità comune,
la perversione di quei soggetti qualificati come "mostri", sono sempre il
frutto (marcio) di un'organizzazione sociale che ha bisogno di creare e
alimentare odio e violenza, sono la manifestazione di un sistema che, per
sua natura, genera divisioni e conflittualità, costringendo alla
depravazione dell'animo umano che in tal modo viene intimamente condizionato
dall'ambiente esterno.

Dunque, la violenza non è una questione di malvagità individuale, ma un
problema di ordine sociale, è la facciata esteriore dietro cui si ripara la
violenza organizzata delle istituzioni, è lo strato superficiale e
fenomenico sotto cui giace e s'incancrenisce la corruzione dell'ordine
costituito. La visione che assegna alla "perfidia umana" la causa dei mali
del mondo, è solo un'ingenua e volgare mistificazione. Il tema della
violenza è talmente vasto e complesso da rivestire un ruolo centrale nella
storia del genere umano.

La crisi e la decadenza del sistema capitalistico guerrafondaio, ormai in
fase di decomposizione avanzata, hanno creato un meccanismo perverso da cui
discende la necessità di una produzione su scala industriale della violenza,
del delitto, del "mostro", che serve come facile e comodo capro espiatorio
per giustificare la richiesta, da parte dell'opinione pubblica, di nuovi
interventi armati, repressivi e coercitivi.

In tal modo trovano una precisa ragion d'essere i vari Saddam Hussein, Bin
Laden ecc., i cosiddetti "criminali" che diventano uno spauracchio
funzionale a una logica di riproduzione della violenza legalizzata, volta a
perpetuare i rapporti di comando e subordinazione esistenti all'interno e
all'esterno della società capitalistica.

Una violenza che scaturisce e si alimenta soprattutto attraverso l'opera di
disinformazione e terrorismo psicologico esercitata dai mezzi di
comunicazione di massa per mantenere l'opinione pubblica in uno stato di
permanente tensione e pressione.

La violenza fa parte di una società che la disprezza e la demonizza quando a
praticarla sono gli altri (in passato i Cinesi, i Vietnamiti, i Cubani, oggi
gli arabi, gli islamici, i negri, i proletari, gli oppressi in genere), ma
viene autorizzata in termini di diritto e potere istituzionale quando essa è
opera del sistema stesso, in quanto intervento armato volto a mantenere
l'ordine all'interno (in termini di repressione poliziesca) e all'esterno
(in termini di guerre, come gendarmeria internazionale).

In tal senso la violenza viene disapprovata quando è opera d'altri. Si pensi
alla rivolta di massa che alcuni anni fa esplose con furore nella banlieue
parigina, espandendosi rapidamente ad altre periferie urbane della Francia.
Sempre in Francia, tempo addietro abbiamo assistito alla nascita di un
movimento di protesta giovanile che ha assunto proporzioni di massa, simili,
benché non paragonabili all'esperienza storica del maggio 1968, nella misura
in cui le cause e il contesto erano  senza dubbio differenti.

Per comprendere tali  fenomeni sociali così complessi e difficili, occorre
rendersi conto di ciò che sono effettivamente diventate le aree
metropolitane suburbane in Francia (ma il discorso vale anche altrove), cioè
luoghi di ghettizzazione e alienazione di massa.

Per capire bisognerebbe calarsi nella realtà quotidiana dove il disagio
sociale, il degrado urbano, la violenza di classe, la precarietà economica,
la disperazione e l'emarginazione dei giovani (soprattutto extracomunitari)
costituiscono il background materiale e ambientale che genera
inevitabilmente esplosioni di rabbia e guerriglia urbana.

Invece, tali vicende sono bollate come atti di "teppismo", "delinquenza" o
addirittura "terrorismo", secondo parametri razzisti e classisti tipici di
una mentalità ipocrita e benpensante che da sempre appartiene alla
borghesia. Tali vicende sono strettamente associate da un denominatore
comune: la violenza, nella fattispecie la violenza istituzionalizzata e il
monopolio di legalità imposto nella società.

Su tale argomento varrebbe la pena di spendere qualche parola per avviare un
ragionamento storico, critico e politico il più possibile serio e rigoroso.

In effetti, è alquanto difficile determinare e concepire la violenza come un
comportamento etologico ed istintivo, naturale ed immutabile, dell'essere
umano, poiché è la natura stessa della società il vero principio che genera
i criminali, i violenti in quanto singoli individui, che sono spesso i
soggetti più vulnerabili sul piano emotivo, che finiscono per essere il
"capro espiatorio" su cui si scaricano tutte le tensioni, le frustrazioni e
le conflittualità latenti, insite nell'ordinamento sociale vigente.

Sin dalle origini l'uomo ha dovuto attrezzarsi per fronteggiare la violenza
esercitata dall'ambiente esterno: il pericolo di aggressione da parte degli
animali, le avversità atmosferiche, i disastri naturali, i bisogni
fisiologici, la necessità di procreare, ecc. In seguito l'uomo è riuscito a
compiere notevoli progressi tecnologici e materiali che lo hanno affrancato
dal suo primitivo asservimento alla natura, rovesciando il rapporto
originario tra l'uomo e l'ambiente. Oggi è soprattutto l'uomo che arreca
violenza alla natura, ma la relazione rischia di invertirsi nuovamente, a
scapito dell'uomo.

Durante la sua evoluzione culturale e materiale l'umanità ha creato e
conosciuto varie esperienze di violenza: la guerra, la tirannia,
l'ingiustizia, lo sfruttamento, la fatica per la sopravvivenza, il carcere,
la repressione, la rivoluzione, fino alle forme più rozze quali il teppismo,
la prepotenza, la sopraffazione del singolo su un altro singolo.

Tuttavia, tali fenomeni così disparati si possono ricondurre a un'unica
matrice causale, ossia la natura intrinsecamente violenta e disumana della
struttura materiale su cui si erge l'organizzazione sociale dei rapporti
umani nel loro divenire storico. La cui principale forza motrice risiede
nella violenza della lotta di classe, nello scontro tra diverse forze
economiche e sociali per il controllo e il dominio sulla società. Tale lotta
di classe si estrinseca sia sul terreno materiale, sia sul versante teorico
e culturale, è una lotta per la conquista del potere politico ed economico,
ma anche per l'affermazione di un'egemonia ideologica e intellettuale
all'interno della società.

Il problema fondamentale della violenza nella storia (che è scisso dal tema
della violenza nel mondo pre-istorico) è costituito dall'ingiustizia e dalla
violenza insite nel cuore delle società classiste. Le quali si fondano sulla
divisione dei ruoli sociali e sullo sfruttamento materiale esercitato da una
classe dominante sul resto della società.

Solo quando lo sviluppo delle capacità produttive e tecnologiche della
società avrà raggiunto un livello tale da permettere il superamento delle
ragioni che finora hanno giustificato e determinato lo sfruttamento del
lavoro, l'umanità potrà compiere il grande balzo rivoluzionario che
consisterà in un processo di liberazione dalla violenza dell'ingiustizia e
dello sfruttamento di classe. E' un dato di fatto che tali condizioni,
connesse al progresso tecnico scientifico e alla produzione delle ricchezze
sociali, siano già presenti nella realtà oggettiva, ma sono mistificate e
negate dal persistere di un quadro obsoleto di rapporti di supremazia e
sottomissione tra le classi sociali.

In tal senso, il potere borghese non è mutato, i suoi rapporti all'interno e
all'esterno sono sempre improntati e riconducibili alla violenza. Esso
continua a reggersi sulla violenza, in particolare sulla forza legalizzata
di istituzioni repressive quali il carcere, la polizia, l'esercito. Nel
contempo il potere borghese ha imparato ad usare altre forme di controllo
sociale, più morbide e addirittura più efficaci, come la televisione. Oggi,
infatti, molti stati capitalistici, avanzati sul versante tecnologico, sono
gestiti e controllati non solo attraverso i sistemi tradizionali della
violenza legalizzata, cioè esercito e polizia, ma soprattutto ricorrendo
agli effetti di omologazione e alla forza alienante e persuasiva della
televisione e dei mezzi di comunicazione di massa.

Naturalmente il discorso sulla violenza non può esaurirsi in un breve esame
come questo, giacché si tratta di un tema talmente ampio, difficile e
controverso, da meritare molto più spazio, più tempo, più studio e più
ingegno di quanto possa fare il sottoscritto. Per quanto mi riguarda, ho
cercato semplicemente di sollecitare una riflessione iniziale.

Lucio Garofalo


Berlusconi, la mafia, la libertà di stampa e la violenza politica

Negli ultimi tempi la temperatura politica in Italia si è alzata
notevolmente sia perché si è ripreso a parlare dei rapporti tra mafia e
potere politico, nella fattispecie tra un pezzo della mafia e il capo del
governo, ma soprattutto a causa dell'aggressione perpetrata contro
Berlusconi. Ricordo una frase che suscitò scalpore, pronunciata dal premier
nel corso di una visita privata in Tunisia, in cui annunciava in modo
eclatante l'intenzione di "passare alla storia come il presidente del
Consiglio  che ha sconfitto la mafia".

Ma la notizia che destò maggior stupore fu questa. Marcello Dell'Utri, tra i
fondatori di Forza Italia, braccio destro di Berlusconi, già condannato in
primo grado a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione
mafiosa, il 19 agosto scorso annunciò di voler proporre una commissione
d'inchiesta sulle stragi del '92. Un'intenzione disattesa nei fatti, ma
annunciata e pompata sui media in modo enfatico. A quanto pare si trattava
della consueta politica demagogica e sensazionalista, fatta di facili
annunci e promesse sbandierate sui media e puntualmente tradite, a cui siamo
abituati da tempo.

Le vicissitudini politico-mediatiche degli ultimi tempi, a partire dalle
querele che Berlusconi decise di sporgere contro La Repubblica e L'Unità,
quindi le dimissioni di Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, organo
ufficiale della CEI, fino al grave episodio di Milano e al varo di un
provvedimento di legge volto a ridurre la libertà sul Web, hanno fatto
riemergere il tema, già scottante e controverso, della libertà di
informazione, insieme ad altri aspetti riconducibili ad un conflitto latente
e permanente tra i poteri forti che da diversi anni condizionano
pesantemente il destino del nostro Paese.

Ma procediamo con ordine per cercare di comprendere la logica di tali
vicende.

 

Il 26 agosto scorso, il Capo del governo decise di adire le vie legali
depositando una citazione per danni contro il gruppo editoriale
L'Espresso-Repubblica per contestare le dieci domande (evidentemente
scomode) che per oltre due mesi il giornalista Giuseppe D'Avanzo gli ha
posto sulle sue frequentazioni sessuali, senza ricevere alcuna risposta.

 

Probabilmente ciò che avrebbe indotto Berlusconi ad agire legalmente contro
La Repubblica furono le insinuazioni su una sua presunta "ricattabilità" e
su presunte infiltrazioni al vertice dello Stato italiano da parte di centri
mafiosi, in particolare della mafia russa, e l'ampia eco che tali notizie
hanno avuto sulla stampa internazionale.

 

Qualche tempo fa il direttore di Avvenire, Dino Boffo, rassegnò le
dimissioni con una lettera inviata al cardinale Angelo Bagnasco, presidente
della Conferenza Episcopale Italiana. Boffo era stato vittima di pesanti
accuse sulla sua vita privata, in modo particolare sulle sue abitudini
sessuali, messe al centro di una feroce e smisurata campagna diffamatoria
condotta in modo cinico e spregiudicato da Vittorio Feltri, direttore del
Giornale, il quotidiano edito dal fratello del premier Paolo Berlusconi.

Nello stesso giorno delle dimissioni di Boffo, il presidente del Consiglio
decise di trascinare in tribunale il direttore de L'Unità, Concita De
Gregorio, insieme ad  altre quattro colleghe del noto quotidiano. La
denuncia per diffamazione faceva formalmente riferimento ad una serie di
articoli sugli scandali sessuali venuti fuori nell'estate scorsa.

E' evidente che i violenti attacchi sferrati contro alcuni tra i maggiori
organi di stampa nazionali non potevano essere ricondotti semplicemente ad
alcuni fatti episodici, né ai motivi ufficialmente addotti nelle querele
inoltrate dai legali del premier, ma sono inquadrabili e spiegabili
all'interno di una cornice più vasta e complessa che pone al centro non solo
la libertà di informazione, sempre più minacciata da fenomeni di squadrismo,
killeraggio ed imbarbarimento politico, ma pure una serie di affari ed
interessi legati ad importanti centri di potere, tra cui non sarebbero da
escludere gli scontri interni al Vaticano tra la Segreteria di Stato e la
Conferenza Episcopale Italiana.

 

Nei mesi immediatamente precedenti all'aggressione contro Berlusconi, il
panorama politico italiano aveva assistito ad un frenetico susseguirsi di
avvenimenti, esternazioni e iniziative, a cominciare dalle provocazioni
estive avanzate dalla Lega Nord fino alla minaccia di elezioni anticipate,
quindi lo squadrismo giornalistico di Vittorio Feltri che aveva indotto alle
dimissioni il direttore di "Avvenire", gli ignobili attacchi sferrati dal
premier contro la libertà di stampa, che avevano suscitato reazioni diffuse
di sdegno, il botta e risposta tra Gianfranco Fini e il foglio di Feltri,
che ha lanciato un ricatto fin troppo palese contro il presidente della
Camera, divenuto un bersaglio per le sue esplicite divergenze con le
posizioni del presidente del Consiglio, la manifestazione nazionale del 3
ottobre per la difesa della libertà di stampa ed infine il recente NoBday.

Questo solo per elencare gli avvenimenti più importanti e significativi
degli ultimi mesi.

Dal punto di vista strettamente storico la minaccia lanciata da Vittorio
Feltri all'indirizzo di Gianfranco Fini ha costituito il primo ricatto
politico condotto a mezzo stampa, facendo oltretutto ricorso ad un codice
tutt'altro che cifrato. Negli anni '50 e '60 erano frequenti i dissidi
verbali tra gli avversari storici della Democrazia Cristiana, Giulio
Andreotti e Amintore Fanfani. I quali si contendevano la leadership
all'interno del partito e del governo, azzuffandosi anche a colpi di ricatti
e dossier legati alle attività investigative di giornalisti prezzolati o dei
servizi segreti deviati, ma lo scontro intestino, per quanto aspro, cinico e
spregiudicato, si svolgeva in modo dialetticamente raffinato ed elegante,
adoperando un linguaggio velato ed allusivo, mai troppo esplicito.

Quanto sta accadendo negli ultimi tempi rischia di accelerare un processo
involutivo e degenerativo della vita politica italiana a scapito soprattutto
del livello già basso della libertà di informazione e di quel poco di
democrazia formale ancora vigente nel Paese.

Dopo il ricovero di Berlusconi all'ospedale San Raffaele di Milano in
seguito all'aggressione di domenica scorsa, in Italia si è scatenata la
rabbiosa canea dei quotidiani più rognosi e reazionari e dei mass-media
filogovernativi, che hanno denunciato con furiosa idiosincrasia il "clima di
odio" esistente contro il capo del governo, accusando in modo indiscriminato
tanto i riformisti e i socialdemocratici, quanto gli anarchici e i
comunisti, riuniti nel medesimo calderone politico.

A parte il fatto che nell'aggressione a Berlusconi si notano molteplici
anomalie e incongruenze. Già un solo elemento irregolare avrebbe dovuto
suscitare un sospetto, due indizi anomali costituiscono una mezza prova, ma
in questo caso si rilevano troppe circostanze irregolari. Ma lasciamo
perdere le analisi dietrologiche e complottistiche per limitarci ad
un'interpretazione immediata dei fatti e, soprattutto, delle conseguenze.

Al di là di tutto, conviene ragionare criticamente sulle cause e sugli
effetti degli avvenimenti. Per comprendere l'accaduto non servono tanto
indagini di ordine dietrologico, ma occorre una valutazione lucida ed
obiettiva dei fatti e delle conseguenze, senza farsi influenzare
dall'emotività. Non ci è dato sapere se l'aggressione a Berlusconi sia stata
l'azione isolata di uno psicolabile o se dietro vi siano oscure manovre. Ciò
che possiamo verificare e valutare sono le sue conseguenze politiche, in
quanto non è la prima volta che viene sfruttato il gesto di uno squilibrato
per godere dei benefici politici e pubblicitari derivanti da simili atti.
Dunque, è lecito chiedersi: cui prodest? A chi giova ciò, quali sono i suoi
effetti politici e ideologici?

Il primo elemento da ravvisare è che l'aggressione si è verificata in un
momento di grave crisi politica del governo, in cui i consensi di Berlusconi
erano in netto calo. Il giorno precedente all'attentato le agenzie di stampa
hanno diffuso la notizia che il premier era precipitato sotto il 50% dei
consensi. Sfruttando l'eccezionale onda emotiva suscitata dall'aggressione
contro Berlusconi, il consenso è immediatamente risalito. Questo è uno degli
effetti senza dubbio più evidenti ed immediati prodotti dall'attentato.

Gli altri effetti politicamente rilevanti sono riconoscibili nel
ricompattamento di una maggioranza parlamentare che si stava sgretolando,
nel disorientamento di una già inerte ed esausta opposizione parlamentare
(con particolare riferimento al PD), ma soprattutto nell'isolamento e nella
marginalizzazione di un'opposizione sociale che provava a riprendere vigore.
Infatti, negli ultimi mesi, al di là dell'evanescente opposizione
parlamentare, grazie ai nuovi strumenti di comunicazione si è sviluppato un
vasto movimento di contestazione del premier che, malgrado i suoi limiti e
la sua fragilità politica, ha sollevato con decisione la questione della
cacciata di Berlusconi.

Dopo l'attentato e la comparsa di gruppi su Facebook inneggianti
all'attentatore, il governo ha risposto con una furibonda crociata contro
Internet, il cui paladino è il ministro dell'Interno. L'unica risposta è
stata la volontà dichiarata di oscurare i siti web che criticano il capo del
governo. Questa è stata la reazione del governo e dell'intera classe
dominante, la quale, non potendo più contare sul ruolo rassicurante dei
partiti socialdemocratici, ora riscopre il vecchio, ma sempre efficace,
arsenale repressivo.

A proposito di censura e mettendo al bando ogni ipocrisia, non ci si può
stupire se su Facebook attecchisca un malcostume verbale quando un ministro
in carica ha urlato "questa sinistra di merda vada a morire ammazzata". Se
un ministro della Repubblica si esprime in una maniera così aggressiva,
violenta e volgare, perché ci si meraviglia se un linguaggio altrettanto
infelice viene adottato da coloro che frequentano Internet?

E' evidente che la comparsa eccessiva dei gruppi su Facebook inneggianti a
Tartaglia costituisce solo un pretesto per mettere il bavaglio ad un mezzo
di comunicazione e di mobilitazione di massa che ha rivelato tutta la sua
forza in occasione dell'organizzazione di un evento mediatico e politico
come la manifestazione nazionale del 5 dicembre scorso, a cui hanno
partecipato moltissime persone convocate tramite la Rete Web.

Infine, bisogna segnalare il vile e pavido comportamento dei sedicenti ed
evanescenti "democratici" del nostro Paese, chiusi in un eloquente ed
imbarazzato silenzio rispetto ad un'improvvisa svolta in senso bonapartista
della politica e della società, preoccupati solo di associarsi al coro di
solidarietà nei confronti di Silvio Berlusconi.

Lucio Garofalo


Le occasioni sprecate

Il 23 novembre di quest'anno ricorre il 29esimo anniversario del terremoto
che scosse con violenza un vasto territorio del Sud Italia, il cui epicentro
fu individuato in un'area compresa tra l'Irpinia e la Lucania, precisamente
a Conza della Campania. Il sisma, caratterizzato da una fortissima intensità
che superò il 10° grado della scala Mercalli e da una magnitudo 6,9 della
scala Richter, investì con furia numerosi paesi, spazzando via in pochi
attimi intere comunità e decimando le popolazioni locali. Per comprendere la
devastante potenza sprigionata dal terremoto del 1980, basta compiere una
semplice analisi comparativa con quello dell'Abruzzo, che ha raggiunto i 5,8
gradi della scala Richter. Nel complesso si contarono quasi 300 mila
senzatetto, oltre 2 mila morti e quasi 10 mila feriti. Tra i centri
maggiormente disastrati vi furono Sant'Angelo dei Lombardi, Lioni, Torella
dei Lombardi, Conza della Campania, Teora, Caposele e Calabritto.

Dunque, 29 anni fa si è consumata un'immane tragedia, la peggiore sciagura
che abbia colpito l'Italia meridionale nel secolo scorso. Si trattò di un
cataclisma senza precedenti, le cui traumatiche conseguenze non furono
provocate solo da cause naturali, ma anche da precise responsabilità umane,
cioè da scelte di ordine politico, economico, antropico e culturale. Il
fenomeno tellurico che sconvolse le nostre zone fu senza dubbio di una
potenza inaudita, ma le speculazioni affaristiche, l'incuria e
l'irresponsabilità degli uomini nella costruzione e nella manutenzione delle
abitazioni e degli edifici pubblici, le lentezze, i ritardi,
l'impreparazione della macchina organizzativa dei soccorsi statali nella
fase dell'emergenza post-sismica (quando serviva rimuovere con urgenza i
cumuli di macerie e salvare eventuali superstiti), contribuirono non poco ad
aggravare i danni e ad accrescere in modo agghiacciante il numero dei morti
e dei feriti.

Per gli abitanti dell'Irpinia il terremoto del 1980 rievoca emozioni
intense, un misto di cordoglio, tristezza e turbamento, di angoscia,
inquietudine e rabbia. Il ritorno ad una vita "normale" è stato un processo
assai lento ed ha richiesto lunghi anni trascorsi in una condizione di
permanente provvisorietà emergenziale, che ha visto numerose famiglie
crescere i propri figli fino alla maggiore età, se non addirittura oltre,
nei container con le pareti rivestite d'amianto. Il completamento della
ricostruzione, lo smantellamento e la bonifica delle aree prefabbricate sono
interventi che appartengono alla storia recente. Inoltre, l'opera di
ricostruzione degli alloggi e degli agglomerati urbani non è stata
accompagnata da un'effettiva volontà e capacità di ricostruzione del tessuto
della convivenza civile e democratica, da un indirizzo politico che
contenesse scelte mirate a ricucire una rete di sane relazioni
interpersonali, a recuperare gli spazi di aggregazione e di partecipazione
sociale che rendono vivibili le strutture abitative.

Il terremoto del 1980 ha straziato e scompaginato l'esistenza di intere
generazioni di giovani, ha impressionato le percezioni più elementari,
imprimendosi nella memoria e nelle coscienze individuali, agendo nella sfera
più nascosta delle sensazioni interiori. I cambiamenti prodotti dalle
viscere della terra, intesi soprattutto in termini di abiezione e degrado
sociale, si sono insinuati nell'intimità degli affetti, nei gesti e negli
atteggiamenti più comuni, penetrando negli stati d'animo e nelle normali
relazioni quotidiane, degenerando in una sorta di imbarbarimento e
regressione antropologica.

A distanza di anni, continuano a perpetuarsi l'organizzazione e l'arroganza
del potere politico clientelare che continua a ricattare i soggetti più
fragili e indifesi, condizionando e riducendo la libertà di scelta delle
persone, influenzando gli orientamenti elettorali dei singoli individui e
creando vasti serbatoi di voti tra le masse popolari. Tali rapporti di forza
si sono conservati in modo cinico, sopravvivendo indisturbati alle inchieste
giudiziarie di Tangentopoli e agli scandali dell'Irpiniagate.

A partire dagli anni '80, attingendo ampiamente agli ingenti finanziamenti
stanziati dal governo per la ricostruzione, fu varato un folle piano di
industrializzazione forzata delle zone di montagna. Si progettò la
dislocazione di macchinari installati nel Nord Italia all'interno di
territori tortuosi, difficilmente accessibili e praticabili, in cui non
esisteva ancora una rete moderna di infrastrutture stradali, di trasporti e
di comunicazioni, in cui i primi soccorsi inviati dallo Stato nella fase
dell'emergenza stentarono ad arrivare.

Si è innescato in tal modo un processo di perenne sottosviluppo economico e
sociale che nel tempo ha rivelato la propria natura sinistra ed alienante, i
cui effetti hanno arrecato guasti irreparabili all'ambiente e all'economia
locale, che era prevalentemente agricola e artigianale. Occorre ricordare
che sul versante strettamente economico-produttivo, la "modernizzazione"
delle nostre zone è avvenuta in tempi rapidi e in modo convulso, maldestro
ed irrazionale. Tale risultato si è determinato all'interno di un processo
di "post-modernizzazione" del sistema capitalistico globale, cioè in una
fase di ristrutturazione tecnologica post-industriale delle economie più
avanzate dell'occidente, con il trasferimento di capitali e macchinari ormai
obsoleti nelle aree economicamente più depresse e sottosviluppate come, ad
esempio, il nostro Meridione.

A scanso di eventuali equivoci, chiarisco che non intendo affatto proporre
un'esaltazione acritica del feudalesimo o delle società arcaiche ormai
superate da un falso sviluppo che in realtà è in grado di generare solo
barbarie e sottosviluppo, né intendo esternare sentimenti di nostalgia di un
passato che fu di pena ed oppressione, di corruzione sociale e depravazione
morale, di miseria e sfruttamento materiale delle plebi rurali irpine.
Invece, mi interessa comprendere l'attuale società a partire da un'analisi
storica onesta, lucida ed obiettiva. Occorre indagare e spiegare la realtà
odierna, segnata da un fallace sviluppo economico, da una democrazia pseudo
liberale e solo formale, da un benessere artefatto, in quanto corrotto e
mercificato, di tipo prettamente consumistico.

Infatti, non si può negare che la "modernizzazione" delle zone terremotate
sia stata una conseguenza ritardata e regressiva del processo di
ristrutturazione tecnico-produttiva delle economie capitalisticamente più
forti del Nord Italia e del Nord del mondo, la cui ricchezza e il cui potere
derivano da un sistema di sviluppo che genera solo fame e miseria, guerra ed
oppressione, inquinamento, sottosviluppo e dipendenza in altre regioni del
pianeta, identificate come "Sud del mondo", in cui occorre includere anche
il Mezzogiorno d'Italia. A maggior ragione il ragionamento è valido se
riferito alla modernizzazione fittizia come quella avvenuta nella fase
storica della ricostruzione in Irpinia. Sotto il profilo economico quella
irpina non è più una società rurale, ma non è diventata nulla di
effettivamente nuovo ed originale, non si è trasformata complessivamente e
spontaneamente in un'economia industrializzata, pur vantando antiche
vocazioni artigianali e commerciali come quelle che animano le dinamiche e i
processi di sviluppo, irrazionali e senza regole, che si sono verificati sul
territorio locale.

 

Da noi convivono vecchi e nuovi problemi, piaghe antiche come il
clientelismo e la camorra, ma pure nuove contraddizioni sociali quali la
disoccupazione, le devianze giovanili, l'emarginazione, che sono effetti
causati da una modernizzazione puramente economica e consumistica. Come
sappiamo, il fenomeno dell'emigrazione si è "modernizzato", nel senso che si
ripresenta in forme nuove, più serie e complesse del passato. Infatti, un
tempo gli emigranti irpini erano lavoratori analfabeti, mentre oggi sono
giovani con un alto grado di scolarizzazione. Inoltre, mentre gli emigranti
del passato aiutavano le loro famiglie d'origine, a cui speravano di
ricongiungersi quanto prima, i giovani che oggi fuggono via lo fanno senza
la speranza e l'intenzione di far ritorno nei luoghi nativi, anzi spesso si
stabiliscono altrove e creano le loro famiglie laddove si sono
economicamente sistemati. Insomma, è un'emigrazione di cervelli, cioè di
giovani laureati sui quali le nostre comunità hanno investito ingenti
risorse materiali e intellettuali. Questo è il peggiore spreco di ricchezze
per le nostre zone. Spaesamento e spopolamento sono due tendenze solo
apparentemente contrastanti, ma che segnano in modo rovinoso la storia delle
aree interne meridionali negli ultimi decenni.

A questo punto non si può fare a meno di chiedere di chi sono le
responsabilità, che appartengono a vari soggetti, in primo luogo ad un ceto
politico che ha gestito la ricostruzione in Irpinia, conquistando il peso
della classe dirigente nazionale, formandosi attorno ai massimi esponenti
del potere politico locale e nazionale. Basta citare i nomi dei dirigenti
della Democrazia cristiana irpina che hanno occupato posizioni di rilievo
nell'ambito del partito e sono tuttora affermati ai più alti livelli
politico-istituzionali.

Il mio modesto contributo è anzitutto quello di provare ad interpretare e
conoscere la realtà, ma anche quello di provare a modificarla. La speranza
di riscatto delle nostre popolazioni deve esplicarsi in un progetto di
trasformazione concreta, da promuovere necessariamente in sede politica. Si
può e si deve cominciare dal basso, dal piccolo, dal semplice, per arrivare
in alto, per pensare ed agire in grande, tentando di migliorare il mondo
circostante. In questa prospettiva l'intellettuale, da solo, è impotente,
per cui deve riferirsi e agganciarsi alle forze sociali presenti nella
realtà storica in cui vive.

Lucio Garofalo


Chi è onesto e chi non lo è

 

Mi chiedo se siamo d'accordo su alcuni punti inamovibili, ovvero su alcuni
concetti di fondo. A partire dal ragionamento elementare che stabilisce i
parametri per valutare l'onestà in materia economica e fiscale.

A quanto pare, in Italia non siamo d'accordo sull'idea stessa del valore da
attribuire all'onestà, che viene scambiata normalmente per "fessaggine".
Ebbene, per accertare chi è onesto e chi non lo è dal punto di vista
economico e fiscale, non occorre essere filosofi. Basta verificare chi paga
le tasse e chi le evade.

Di certo i lavoratori dipendenti, i salariati del settore produttivo
privato, anzitutto gli operai delle officine e dei cantieri, nonché gli
impiegati della Pubblica Amministrazione, i tanto vituperati "fannulloni"
rappresentati egregiamente dal ministro Brunetta, le tasse le pagano tutte
mediante le ritenute fiscali trattenute direttamente alla fonte, cioè sulla
busta paga, come sanno persino i bambini delle elementari. Invece, qualcun
altro evade sistematicamente il fisco e froda l'erario pubblico, dunque
truffa e deruba la collettività intera, soprattutto i lavoratori onesti nel
senso che pagano le tasse.

 

E' evidente che per la categoria degli evasori e dei criminali abituali,
quelli che riciclano il denaro sporco trafugando all'estero i capitali
ottenuti illegalmente, in uno Stato serio (non mi riferisco necessariamente
ad un sistema di tipo "sovietico" e "bolscevico", ma penso anche solo agli
Stati Uniti) le conseguenze non possono essere quelle, assolutamente
irrisorie, previste dallo "scudo fiscale", vale a dire una vera e propria
amnistia dei reati commessi, ma bisognerebbe comminare pene severe ed
esemplari quali l'arresto ed il carcere per molti anni almeno.

Tale rigore è assolutamente necessario ad uno scopo anzitutto educativo e
deterrente.

Lucio Garofalo


Un nuovo indulto per i ricchi

Partiamo dalla riunione dell'Ecofin (il Consiglio che comprende i Ministri
dell'Economia e delle Finanze dei 27 stati membri dell'Unione europea)
svoltasi nel maggio scorso, quando Berlusconi annunciò la linea dura per
contrastare la speculazione finanziaria e il ministro Tremonti dichiarò di
voler imitare Obama mettendo a punto una lista nera dei "paradisi fiscali",
cioè dei vari staterelli come il Principato di Andorra, il Principato di
Monaco, il Granducato di Lussemburgo, ma anche Gibilterra e la Repubblica di
San Marino, solo per citare gli esempi più noti in Europa, che concedono
enormi vantaggi fiscali ai proprietari dei capitali trafugati all'estero.
Ebbene, dopo quelle parole e quei facili annunci di stampo demagogico, i
fatti si sono visti nei giorni scorsi. Analizziamoli.

Anzitutto, cos'è un "paradiso fiscale"? Riporto la definizione tratta da
<http://it.wikipedia.org/wiki/Paradiso_fiscale> Wikipedia: "Un paradiso
fiscale è uno Stato che grazie a un regime fiscale privilegiato può
garantire un prelievo in termini di tasse minore rispetto al paese di
origine, o addirittura nullo. La ragione di una scelta del genere è più che
altro politica: attirare capitale proveniente dai paesi esteri, fornendo in
cambio una tassazione estremamente ridotta."

La legge sullo "scudo fiscale", appena approvata in Parlamento, è a tutti
gli effetti un condono dei reati commessi contro il pubblico erario ed è
passata grazie all'assenteismo nei ranghi della minoranza. I voti favorevoli
sono stati 270, i contrari 250. Il via libera si è avuto con appena 20 voti
di scarto. Ciò significa che, se l'opposizione fosse stata al completo, il
provvedimento non sarebbe passato. Ma nelle fila dell'opposizione si
contavano ben 29 assenti, di cui 9 assolutamente ingiustificati, e la legge
è passata. I vertici del Partito Democratico hanno annunciato che saranno
decise ''severe sanzioni'' a carico dei deputati assenti ingiustificati al
momento del voto finale sullo scudo fiscale.

Un altro motivo di aspra polemica è stato fornito dalla "straordinaria
rapidità con la quale il Presidente della Repubblica ha firmato il decreto
'salva ladri' con cui questo governo Berlusconi ha voluto garantire
l'impunità ai peggior criminali d'Italia", così si legge in una nota del
presidente dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro.

A questo punto si può discutere ed opinare se il presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano si sia comportato in maniera conforme o meno alla sua
carica istituzionale, ma il capo dello Stato non può affermare che i doveri
che la Costituzione gli impone sono inutili, in quanto vanifica il senso
stesso del suo ruolo col rischio di farlo decadere.

Ad ogni buon modo, con la ratifica del cosiddetto "scudo fiscale", che a
dire il vero non è la prima amnistia concessa in Italia a favore dei reati
fiscali, tra cui figura anche il falso in bilancio, il nostro Paese si
conferma come un vero paradiso per i grandi evasori e i grandi criminali,
quelli che riciclano abitualmente il denaro sporco trafugandolo all'estero,
trasferendo i capitali di origine illecita in depositi di banche
consenzienti o colluse, per non dire complici, che fanno la fortuna di
numerosi micro-stati sparsi in Europa e nel mondo, che offrono condizioni
assolutamente vantaggiose in campo fiscale.

Il regime di indulto introdotto dallo "scudo fiscale" permetterà di
depennare molti reati commessi in materia fiscale, nella misura in cui verrà
esclusa la punibilità per le violazioni commesse al fine di evadere il fisco
e trasferire il denaro all'estero, nonché l'emissione di false fatture e il
falso in bilancio, che potranno essere sanati con il pagamento di una somma
pari al 5% dell'imposta evasa. In tal modo saranno condonate tutte le
infrazioni connesse al trafugamento dei grandi capitali all'estero. I
colpevoli godranno ancora una volta dell'impunità e saranno esentati da
imposte che superino l'aliquota del 5%, ma soprattutto saranno dispensati da
ogni sanzione di ordine penale.

Si tratta, dunque, di un indulto al contrario, che scarcera e premia chi ha
derubato il fisco e la collettività, grazie ad un provvedimento varato da un
governo che ha fatto della sicurezza il suo cavallo di battaglia. La stessa
legge, invece, penalizza i lavoratori onesti e indifesi, quelli che
percepiscono redditi fissi, vale a dire i redditi generati dal lavoro
produttivo come i salari operai e gli stipendi degli addetti al pubblico
impiego (i cosiddetti "fannulloni"), i quali resteranno gli unici ad essere
tassati al 50-60% attraverso le ritenute fiscali trattenute direttamente
alla fonte, cioè in busta paga.

Al di là di ogni argomentazione utilitaristica e pragmatica, è evidente che
il varo della nuova legge rischia di trasmettere un messaggio assolutamente
diseducativo e deleterio a livello etico e culturale, cioè che l'Italia si
riconferma il regno dei furbi, dei rei e dei colpevoli che la fanno franca e
restano puntualmente impuniti. Dipende solo dall'entità del reato: più il
reato è grande più rimane impunito, specie se trattasi di un reato
economico-finanziario, nella fattispecie compiuto contro l'erario dello
Stato, cioè contro gli interessi della collettività nazionale e dei servizi
sociali erogati ai cittadini.


 

C’era una volta in Irpinia

Nel corso dei primi anni ‘80, grazie agli ingenti fondi economici assegnati dal governo per la ricostruzione dei centri terremotati, fu avviato un ambizioso e controverso esperimento, quello dell'industrializzazione delle aree interne di montagna. Si decise di trasferire le fabbriche (le stesse installate, ad es. nella pianura padana) in zone di montagna, in territori aspri e tortuosi, difficilmente raggiungibili, in cui non esisteva ancora una rete moderna di infrastrutture stradali, trasporti e comunicazioni, in cui i primi soccorsi legati all'emergenza post-sismica stentarono ad arrivare a destinazione. Un'impresa velleitaria, se non impossibile, senza dubbio perdente dalla nascita. E non poteva essere altrimenti, dati i presupposti. Abbiamo patito un processo di sottosviluppo che ha rivelato la propria natura regressiva arrecando guasti irreparabili all'ambiente, al territorio e all'economia locale, prettamente agricola e artigianale. Basta farsi un giro in Irpinia per scoprire un paesaggio sfigurato per sempre.

Si trattava di un tentativo di industrializzazione e modernizzazione economica legato alla trasformazione post-industriale delle economie capitalisticamente più avanzate del Nord. Questo piano presupponeva il trasferimento di capitali e incentivi statali destinati a finanziare la dislocazione di macchinari ed attrezzature industriali ormai superate dai processi di ristrutturazione tecnico-produttiva in atto nelle aree capitalistiche più evolute del Nord Italia. Pertanto, quel progetto di (sotto)sviluppo era destinato a fallire sin dal principio, nella misura in cui era stato concepito e gestito con metodi clientelari, favorendo l'insediamento di imprese provenienti dal Nord Italia, senza tutelare le ricchezze, le caratteristiche e le esigenze territoriali, senza tenere nel dovuto conto i bisogni e le richieste del mercato locale, senza promuovere e valorizzare le produzioni e le coltivazioni indigene, sfruttando la manodopera disponibile a basso costo, innescando in tal modo un circolo vizioso e rovinoso, come si è dimostrato alla prova dei fatti. 

Sempre negli anni '80 l'Irpinia era la provincia che vantava il primato nazionale degli invalidi civili e dei pensionati, un triste primato soprattutto se si considera che in larga parte si trattava di falsi invalidi, in grado di guidare automobili, di correre e praticare sport, di scavalcare i sani nelle graduatorie delle assunzioni, di assicurarsi addirittura i posti migliori, di fare rapidamente carriera grazie alle raccomandazioni e ai favori elargiti dai ras politici locali, intermediari del capo, il potente "uomo del monte". Sin dai primi anni '80 la nostra era la provincia in cui si contavano più pensioni Inps che nell'intera regione Lombardia, con la percentuale più alta nel paese. Nelle nostre zone l'Inps era divenuto il maggior erogatore di reddito per migliaia di famiglie. In passato, soprattutto nel corso degli anni ‘80, il 50 per cento della popolazione irpina era formata da invalidi civili, in buona parte giovani con meno di 30 anni. Ciò era possibile grazie a manovre politiche clientelari e all'appoggio decisivo di altre figure e altri pezzi rilevanti di società, a cominciare dai medici e dai servizi sanitari compiacenti, se non complici. Negli anni ‘80 il sistema clientelistico, protezionistico e assistenzialistico in Irpinia era in pratica onnipresente e totalitario, nella misura in cui seguiva e condizionava la vita quotidiana delle persone, devote al santo di Nusco, dalla culla al loculo, a patto di cedere in cambio il proprio voto in ogni circostanza in cui veniva (e viene) richiesto, ossia ad ogni tornata elettorale a livello locale, regionale e nazionale. Ancora oggi sindaci e amministratori dei Comuni irpini sono designati con la benedizione dell'uomo del monte, che fa e disfa la politica a proprio piacimento, costruendo o affossando maggioranze amministrative, indicando persino i nomi dei candidati all'opposizione. Ancora oggi, all'interno del blocco demitiano si riflettono, si risolvono e dissolvono tutte le contraddizioni e i contrasti tipici della dialettica democratica tra governo e opposizione, tra sistema e antisistema, precludendo ogni possibilità di ricambio e mutamento radicale della politica irpina, che non a caso è tuttora sottoposta ai ricatti, alle influenze, ai capricci, ai condizionamenti esercitati dall'uomo del monte. 

La rete dell'assistenzialismo era un apparato scientificamente organizzato, volto a garantire la conservazione perpetua di un sistema politico clientelare simile ad una piovra, che con i suoi lunghi e complessi tentacoli si era impadronita della cosa pubblica, occupando in modo permanente la macchina statale, scongiurando ogni rischio di instabilità e di crisi, quindi di cambiamento reale della società irpina. La grande piovra del potere demitiano ha sempre distribuito posti, appalti, subappalti, rendite, prebende, forniture sanitarie, in tutti i paesi della provincia avellinese, favorendo e gestendo un vasto e capillare sistema parassitario composto da decine di migliaia di addetti del pubblico impiego, del ceto medio impiegatizio, di coltivatori diretti, di liberi professionisti, che prima sostenevano la Democrazia cristiana ed oggi appoggiano i suoi eredi, investendo sempre su San Ciriaco, la testa pensante e pelata della piovra tentacolare. Ecco perché tale struttura di potere si è preservata in modo integro sino ad oggi, resistendo ad ogni sussulto, sopravvivendo persino al furioso cataclisma politico giudiziario provocato dalle inchieste di Mani Pulite, mentre altrove si è dissolta sotto i colpi inferti dalla magistratura milanese all'inizio degli anni ‘90.

Negli anni ‘90 abbiamo assistito ad un nuovo processo di trasformazione del sistema economico produttivo, di mutazione antropologica dell’Irpinia. Con l’avvento della globalizzazione neoliberista, contestata ovunque, la società irpina ha subito un’improvvisa accelerazione storica che ha spinto fasce di popolazione, soprattutto giovanile, verso il baratro della disoccupazione, dell'emigrazione, della precarizzazione. Rispetto a tali condizioni, le "devianze giovanili", i suicidi e le nuove forme di dipendenza sono solo i sintomi più inquietanti di un diffuso malessere sociale.  L'attuale processo di (sotto)sviluppo ha generato anche mostruosità, veleni e contraddizioni, favorendo atteggiamenti tipici di un filone teatrale classificabile tra la tragedia e la commedia umana, dando origine a nuove sacche di miseria, sfruttamento ed imbarbarimento all'interno di comunità sempre più disumanizzate e disgregate, massificate e omologate a livello etico-spirituale. Tale fenomeno di standardizzazione dei corpi e delle menti è peggiore di ogni forma di totalitarismo precedente, in quanto più subdolo, non apertamente autoritario poiché non si avvale di istituzioni repressive come l’esercito, la polizia, il carcere, ma ricorre soprattutto ai mezzi di comunicazione e persuasione occulta di massa, per cui la sua forza si rivela più efficace e pervasiva. Tale ragionamento vale anche per le comunità irpine, un tempo a misura d’uomo.

Lucio Garofalo


 

 

Non c'è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali

In questi primi giorni di settembre, dopo la lunga pausa estiva, presidi e insegnanti hanno ripreso a lavorare, discutere ed incontrarsi nelle sedute dei Collegi dei docenti, nelle riunioni delle commissioni tecniche, nei Consigli di Istituto, per organizzare e progettare le attività didattiche curricolari e aggiuntive in relazione al nuovo anno scolastico. Ovunque, nelle case e nelle scuole fervono gli ultimi preparativi per l'imminente avvio delle lezioni. Il ministro, alti dirigenti e funzionari scolastici, varie figure di esperti gareggiano per lanciare qualche input, offrire consigli preziosi agli insegnanti, indicare ed illuminare la "retta via" a chi, eventualmente, l'avesse smarrita.

Inoltre, gli insegnanti precari hanno iniziato a ribellarsi e protestare in modo massiccio e compatto. Si tratta di una rivolta senza precedenti perché i licenziamenti di massa sono senza precedenti. Mai come in questo momento occorre stare al fianco dei lavoratori precari del mondo della scuola in un “autunno caldo” esploso con largo anticipo.

 

Si annuncia infatti un settembre infuocato nella scuola italiana, totalmente destabilizzata dalla "riforma" Gelmini, che in un botto solo ha lasciato 42mila persone senza lavoro, causando una vera macelleria sociale. E tutto per fare cassa, come detta Tremonti, e dirottare i finanziamenti alle banche e alle imprese private. In Campania, come in tutta Italia, i docenti precari hanno assaltato gli Uffici Scolastici Provinciali, in perfetto stile INNSE, avviando con forza una serie di vertenze mai conosciute in passato.

 

 

Nel frattempo continuano ad essere alimentate ideologie cariche di pregiudizi e veleni piccolo-borghesi. In seguito ad una martellante campagna demagogica e diffamatoria è inevitabile che si scatenino polemiche e piovano accuse che screditano il corpo docente, già mortificato da tempo. Stiamo parlando di una categoria professionale chiamata ad assolvere il difficile compito di educare e istruire le future generazioni, di formare i cittadini del futuro, per cui meriterebbe maggior rispetto e considerazione. Simili campagne ideologiche e strumentali sul presunto "parassitismo" dei lavoratori statali non costituiscono una novità. Inoltre mi indignano, nella misura in cui celano interessi affaristici e mercantilistici. Insomma, oltre al danno c’è anche la beffa.

 

Le retribuzioni salariali degli insegnanti italiani sono tra le più basse in Europa. Peggio di noi stanno solo i colleghi greci e portoghesi. Intanto, il governo in carica continua ad imporre pesanti tagli e riduzioni alle già misere risorse della scuola pubblica. Tutto ciò comporta e arreca gravi danni al budget finanziario riservato alla scuola pubblica, per dirottare i soldi verso altre destinazioni. Si pensi alle sovvenzioni stanziate per gli armamenti militari e ai contributi statali regalati alle scuole private.

 

Per quanto mi riguarda continuerò a seguire il principio riassunto nella frase contenuta in "Lettera a una professoressa", scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana del maestro don Milani: "Non c'è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali". Un concetto che richiama una visione anomala e anticonformista (diciamo pure antiborghese) della democrazia, riferita alla scuola e all'intero ordinamento sociale. La nostra è una scuola di disuguali inserita in una società sempre più disuguale, laddove pesanti disuguaglianze materiali e sociali sono destinate ad aggravarsi ulteriormente.

Dinanzi a simili sperequazioni economiche e sociali, di fronte ad allarmanti situazioni di crescente disagio e bisogno materiale, riconducibili alle nuove povertà e alle contraddizioni derivanti dai massicci fenomeni migratori provenienti dal Terzo mondo, la scuola non è attrezzata e preparata a fronteggiare tali emergenze, anzitutto per ragioni di ordine finanziario già spiegate in precedenza.

Ogni valida azione è affidata alla buona volontà, alla capacità, allo zelo spontaneo (altro che fannulloni) degli insegnanti, all'iniziativa autonoma delle istituzioni scolastiche e dei lavoratori - docenti e non docenti - che operano nelle scuole pubbliche. La cosiddetta "democrazia" non può ridursi ad un'ipotetica offerta di "pari opportunità", esplicandosi in un'arida ed insufficiente prassi di uniformità distributiva delle risorse, così come avviene nel modello finora adottato di welfare universalistico e indifferenziato.

Al contrario, occorre rilanciare e rafforzare l’attenzione verso l’uguaglianza e la giustizia redistributiva del reddito sociale, intese in termini di equità sociale e redistribuzione delle ricchezze, possibili solo in un altro assetto del welfare e dell'ordinamento statale e sociale, che sia in grado di fornire "a ciascuno secondo i propri bisogni" e chiedere ad ognuno "secondo le proprie possibilità". Il che significa rivoltare l'organizzazione sociale esistente, ridefinire e capovolgere l'idea stessa e la prassi finora applicata e conosciuta di democrazia, di scuola e di Stato sociale.

Lucio Garofalo

 

Replica al sindaco di Lioni e all'assessore Ruggiero

22 agosto 2009

Leggendo le risposte rilasciate dal Sindaco di Lioni, esattamente sul sito
<http://www.irpinianews.it/DaiComuni/news/?news=52728> IrpiniaNews, e
dall'Assessore Salvatore Ruggiero sul blog
<http://www.telelioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=422:ri
sposta&catid=33:politica&Itemid=50> TeleLioni in seguito al mio
<http://www.telelioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=417:de
ficit&catid=33:politica&Itemid=50> intervento, non intendo affatto sottrarmi
ad uno stimolante e proficuo scambio di opinioni.

Anzitutto devo riconoscere che le repliche dei due esponenti istituzionali
denotano senza dubbio un certo grado di cultura civile e democratica, per
cui ravviso la possibilità di promuovere una preziosa dialettica democratica
anche attraverso un vivace confronto a distanza su siti on-line tra i
cittadini e i rappresentanti degli enti locali.

La democrazia del futuro viaggia sui canali di Internet e si esplica in
quelle che sono le agorà dei giorni nostri, ossia le piazze virtuali di
discussione e partecipazione politica. Il web è probabilmente uno degli
strumenti più efficaci per superare "uno dei limiti di questa
Amministrazione" che, come ammette lo stesso Salvatore Ruggiero, "si
manifesta proprio in modo vistoso sul piano della comunicazione verso la
cittadinanza".

Riconosco altresì che l'assenza di un'opposizione seria e credibile non è
imputabile all'attuale maggioranza consiliare, così come il deficit di
democrazia partecipativa non si può ascrivere alle responsabilità di una
sola Giunta municipale, in quanto si tratta di un clima politico, una
mentalità e un malcostume che hanno avuto origine in altri contesti e altre
esperienze storiche. Ma bisogna anche aggiungere che l'odierna
amministrazione, guidata dal sindaco Rodolfo Salzarulo, non si è spesa molto
per migliorare la situazione ereditata dalle precedenti gestioni municipali.

La mia riflessione non si riferisce a comportamenti specifici assunti dai
singoli amministratori, ma tende ad inquadrarsi in una cornice storica e
politica più vasta e complessa. In tal senso, sono pienamente d'accordo con
l'analisi suggerita da Salvatore Ruggiero per provare a spiegare e
comprendere la regressione e l'imbarbarimento culturale, civile e politico
compiuto dalla società italiana negli ultimi venti o trent'anni.

Pertanto, raccogliendo l'invito ad essere più incisivo e costruttivo, mi
permetto di rilanciare una proposta politica semplice, immediata ed
efficace: il bilancio partecipato.

Al di là delle chiacchiere e dei ricordi nostalgici, una democrazia a
partecipazione diretta si traduce in una serie di strumenti e dispositivi
tecnico-amministrativi che permettano alla popolazione di contribuire in
modo attivo e concreto all'elaborazione e all'esercizio della politica
municipale, favorendo la più ampia partecipazione possibile alle decisioni
davvero importanti e determinanti per la comunità quali, ad esempio, le
scelte concernenti la progettazione e la gestione del bilancio economico
comunale.

Raccogliendo l'invito del sindaco di Lioni, mi permetto di suggerire in
sintesi le eventuali modalità tecniche e pratiche di attuazione di una
simile ipotesi partecipativa.

La partecipazione al bilancio municipale si compie anzitutto su base
territoriale: il Comune di Lioni, ad esempio, è diviso in quartieri. Nel
corso di pubbliche assemblee la popolazione di ciascun quartiere è invitata
ad esprimere e precisare i propri bisogni e stabilire le priorità in vari
ambiti di intervento come l'ambiente, la scuola, la sanità.

Il passaggio successivo sarà di integrare le proposte con una partecipazione
promossa e allargata su basi tematiche mediante il coinvolgimento delle
varie categorie professionali, dei ceti produttivi e dei lavoratori. Ciò
permetterà di acquisire una visione più organica e completa del territorio,
della collettività e delle sue esigenze reali.

L'amministrazione comunale dovrà essere presente a tutte le assemblee con un
proprio referente, che ha il dovere di fornire ai cittadini le informazioni
legali, tecniche e finanziarie, nonché per avanzare proposte, evitando con
cura di influenzare le decisioni dei partecipanti alle discussioni. Al
termine di questo percorso, ogni gruppo espone le sue priorità all'Ufficio
di pianificazione, che redige un'ipotesi di bilancio tenendo conto delle
priorità indicate in precedenza. Il Bilancio viene infine approvato in una
seduta del Consiglio comunale. Nel corso dell'anno, attraverso apposite
assemblee, la cittadinanza valuta l'esecuzione dei lavori e dei servizi
previsti nel bilancio dell'anno precedente.

Non mi pare che si tratti di una proposta politica astratta e utopistica,
anzi. Serve solo la volontà politica di rendere possibile e praticabile
anche a Lioni un'autentica democrazia assembleare e partecipativa.

Lucio Garofalo






 

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