I
fratelli Cervi un mito che vorrebbero smontare ma a noi piace ancora di
più
in collaborazione con l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia
di Brindisi.
Il
video sarà proiettato nell'incontro del 10 giugno 2010
Il
"mito" dei fratelli Cervi, una lezione di comunicazione politica di
Gianni Barbacetto
http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-fratelli-cervi-e-lo-strabismo-del-sole-24-ore/
di Gianni Barbacetto, societacivile.it/blog
Ognuno festeggia il 25 aprile come
vuole. Il Domenicale del Sole 24 ore lo fa ospitando in
prima pagina un articolo dello storico Sergio Luzzatto che decostruisce il
mito dei fratelli Cervi. Un mito edificato, scrive Luzzatto, da un «funzionario
della casa editrice Einaudi», un «tipico interprete del "lavoro
culturale" svolto per conto del Partito comunista». E cioè Italo
Calvino. È lui a scrivere per primo - sulla rivista dell'Anpi, poi sull'Unità
- dei sette fratelli sterminati per rappresaglia dai fascisti di Salò e
di loro padre Alcide, «basso e solido e nodoso come un ceppo d'albero».
Articoli che folgorarono un padre della patria, il giurista Piero
Calamandrei, che ai fratelli Cervi dedicò una memorabile orazione civile
al Teatro Eliseo di Roma, il 17 gennaio 1954, giorno in cui papà Alcide
fu ricevuto al Quirinale dal presidente Luigi Einaudi.
Poi partì, ci spiega Luzzatto, «una vera e propria campagna di
propaganda», promossa dai dirigenti nazionali del Pci, «per trasformare
i sette figli del cattolicissimo Alcide nella quintessenza del
martirologio resistenziale comunista». Nacque così, «soprattutto sulle
direttive della Commissione stampa e propaganda» del partito, il volume
di Einaudi "I miei sette figli", che divenne un bestseller. «Promosso
capillarmente presso le sezioni del Pci, fu messo in vendita attraverso un
sistema di pagamento rateale, diventò un must nella bibliotechina di ogni
buona famiglia comunista». Ne furono diffuse quasi un milione di copie in
un anno. Così la famiglia Cervi fu trasformata «in un'icona rossa della
Resistenza». Come? «Da Italo Calvino in giù, l'intellighenzia comunista
fece di tutto per abbellire una storia certo eroica, ma parecchio
complicata. Perché nei due o tre mesi intercorsi fra l'inizio della
Resistenza e la loro morte, i sette fratelli Cervi erano stati tutto
fuorché altrettante incarnazioni del "rivoluzionario
disciplinato", consapevole avanguardia di un "popolo alla
macchia"».
Insomma: i sette hanno fatto la Resistenza solo per due o tre mesi; e lo
hanno fatto impegnandosi in «attività di renitenza e sabotaggio con una
convinzione ai limiti dell'incoscienza». Non erano poi mancate «le
frizioni fra loro e i dirigenti locali del Partito comunista clandestino,
che accusavano i fratelli Cervi di comportarsi da "anarcoidi"».
Ma niente paura: in seguito, «i cantori dell'epos resistenziale
trasformarono i fratelli Cervi in icone, quasi in santini». Per «fare
leggenda» e «per segnalare agli italiani del dopoguerra come la storia
delle Resistenza nella bassa emiliana non fosse affatto riconducibile alla
caricatura infamante» della propaganda anticomunista, «tutta impegnata a
denunciare i crimini del cosiddetto triangolo della morte». Così al Pci
degli anni Cinquanta viene nei fatti rimproverata una cosa che oggi viene
praticata e celebrata come essenza della politica: la capacità di
comunicare. Oggi ci si mostra ammirati perfino per la capacità di far
credere agli italiani un sogno che non c'è. E si chiama invece
"propaganda" la capacità di far conoscere all'Italia sette
giovani uccisi dai repubblichini. Sette ragazzi che, adesso che so che
erano "anarcoidi", mi risultano anche più simpatici.
(19 aprile 2010)
IL
LIBRO REGALATO DAI COMPAGNI DELLA SEZIONE CURIEL DI BOLOGNA AI COMPAGNI
DEL pci DI BRINDISI