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1
maggio 1924
A
Montecitorio sventola la bandiera
rossa ...quando Guido Picelli,
comandante degli
Arditi del popolo , beffò Mussolini e i suoi sbirri
Autor
Antonio Camuso
(è consentita
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Storico Benedetto Petrone con l'obbligo di riportarne la fonte e
il nome dell'autore)
La
bandiera rossa sventola su Montecitorio
Per 15 minuti,
il primo maggio 1924, in pieno fascismo, «lo
stracciaccio rosso di Mosca» viene issato sul balcone del Parlamento. Il
gesto eroico è di Guido Picelli, deputato indipendente comunista,
leader degli Arditi del popolo. Presto un film sulla sua vita (Giancarlo
Bocchi*)
Il primo maggio 1924 non è un giorno di festa. Mussolini, che ha preso il
potere da quasi due anni, ha abolito la Festa internazionale dei
lavoratori. Malgrado l'imposizione del regime fascista le astensioni dal
lavoro sono comunque massicce. Pattuglioni di agenti di polizia e di
carabinieri si aggirano per le vie arrestando gli operai che non possono
giustificare l'astensione dal lavoro. Solo nella capitale i lavoratori
arrestati sono più di mille.
È in questo contesto che Guido Picelli, deputato comunista, già
comandante degli Arditi del popolo durante la vittoriosa Battaglia di
Parma del '22 contro migliaia di squadristi di Italo Balbo, progetta e
attua un'azione solitaria e clamorosa. Picelli vuole sfidare il regime
fascista proprio nel palazzo del Parlamento ormai in mano ai fascisti,
anche grazie ai brogli elettorali.
Nelle elezioni che si sono svolte da poco la lista nazionale del fascio
littorio ha riportato, secondo i conteggi ufficiali, 4 milioni di voti e
eletto 356 deputati. Più i 19 fascisti eletti in una lista civetta. La
sinistra ha ottenuto al Nord più voti dei fascisti, ma il risultato
elettorale complessivo è disastroso. I socialisti hanno perso i 3/5 dei
voti, mentre il Pc ha ottenuto un piccolo successo, eleggendo 19 deputati.
Tra questi l'«indipendente» e ex deputato socialista Guido Picelli.
Il sistema delle preferenze indicate dal Partito è rigido. Ma Picelli
vince ugualmente. È l'unico a essere eletto al di fuori delle preferenze
del Partito, grazie al largo seguito popolare che ha in Emilia.
Picelli è alto, ha gli occhi intensi, luminosi e magnetici. Ha un
portamento elegante e fiero che incute rispetto. Quella mattina del primo
maggio del 1924, all'ingresso della Camera dei deputati i commessi lo
salutano con deferenza, rispetto e forse commentano tra di loro: «L' on.
Picelli è veramente matto a venire qui proprio oggi». È un giorno di
tensione. Decine di deputati fascisti bivaccano nell'edificio.
Ma Picelli è uno che non ha paura di niente e di nessuno. Sulla tempia ha
una cicatrice. È il segno di un colpo di rivoltella ricevuto nel marzo
1923. Un fascista di Parma aveva mirato dritto alla sua fronte e gli aveva
sparato a bruciapelo. Per fortuna o per caso, Picelli si era salvato con
un movimento istintivo della testa.
Negli ultimi mesi è scampato a numerose aggressioni che potevano
diventare mortali. Con l' aiuto dei popolani dei borghi dell'Oltretorrente
ha organizzato una rete segreta di percorsi e vie d'uscita per fuggire con
gli uomini della sua organizzazione clandestina dei «Soldati del popolo»
agli agguati e agli attentati squadristi. Per organizzare la resistenza e
partecipare alle riunioni politiche riesce ad attraversare gran parte
della città di Parma passando per i tetti delle case. Frequentemente
salta dalle finestre e passa per gli scantinati e i sotterranei seguendo
percorsi sconosciuti a altri. Per i fascisti locali è diventato
l'imprendibile. Picelli non è un politico di primo piano come Amedeo
Bordiga, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti. Ma al contrario dei
dirigenti può vantare di essere l'unico che ha sconfitto sul piano
militare i fascisti durante la Battaglia di Parma, nelle 5 giornate
dell'agosto 1922.
Per il proletariato italiano Picelli è una leggenda. Una leggenda che «ha
un coraggio di ferro», come dicono i popolani della sua città. Anche per
questo motivo è molto temuto dai fascisti, fuori e dentro il Parlamento.
Nell'ottobre 1923 venne organizzato un complotto (come poi avverrà mesi
dopo per Matteotti) per farlo fuori. Vincenzo Tonti, infiltrato, strumento
del regime, preso dal rimorso e affascinato dalla nobiltà d'animo di
Picelli denuncia pubblicamente: «Gli orditori del complotto erano divisi
da due opinioni: secondo alcuni l'on. Picelli doveva essere bastonato a
sangue (...) secondo altri, egli doveva scomparire addirittura». Chi
erano gli organizzatori del complotto? Tonti denuncia il generale Agostini,
il generale Sacco, il vicequestore Angelucci e Italo Balbo. Il complotto
doveva avere inizio proprio davanti alla Camera dei deputati. Un portiere
infedele, vedendo uscire Picelli, doveva avvertire i sicari del regime.
Ma quel primo maggio del 1924 Picelli non si cura dei complotti e dei
rischi che corre. Ha in testa l'azione che deve portare a termine. È
deciso, determinato. Dopo essere riuscito a seminare i pedinatori, a far
perdere le sue tracce agli sbirri che lo seguono giorno e notte,
attraversa i corridoi di Montecitorio con l'aria decisa di chi ha un
lavoro urgente da fare. In mano ha il solito bastone da passeggio, che a
volte gli serve come arma di difesa, e tiene sottobraccio qualcosa di
morbido avvolto in una carta. Sale lo scalone del palazzo e senza dare
nell'occhio arriva al primo piano. Attraversa alcune sale, si dirige verso
la grande finestra prospiciente il balcone sulla facciata principale sulla
piazza di Montecitorio .
Picelli esce sul balcone, scarta il pacchetto che aveva sottobraccio e
srotola un grande drappo rosso ornato di falce e martello. L'asta
portabandiera che si protende sulla piazza è nuda. Il tricolore sabaudo
viene inalberato solo durante le sedute del Parlamento. Ma in quel momento
non c'è alcuna bandiera perché la nuova legislatura non è ancora
iniziata. Picelli con l' aiuto di alcuni pezzi di spago fissa il vessillo
rosso sull' asta.
Dalla piazza i passanti, le forze dell'ordine e i fascisti guardano
allibiti il vessillo rosso dei lavoratori e del comunismo che sventola
placidamente sul palazzo del parlamento del regno. Picelli, anche
approfittando del trambusto e confusione, scende tranquillamente le scale
ed esce dal palazzo. Nessuno lo ferma. Nessuno gli chiede niente.
Il suo non è un atto soltanto per riaffermare lo slogan bordighista «Rosso
contro tricolore», ma piuttosto un gesto simbolico per affermare che la
Festa dei lavoratori non si tocca.
La polizia, dopo aver rimosso il corpo del reato dall' asta del palazzo
del Parlamento, svolge intense e urgenti indagini. Benito Mussolini, che
non si è ancora trasferito a Palazzo Venezia e alberga da presidente del
consiglio nel vicino palazzo Chigi è furioso: «Ancora quel Picelli!».
Probabilmente in Mussolini quel giorno riaffiorano i timori espressi prima
della marcia su Roma: «Non possiamo arrivare a Roma lasciandoci alle
spalle una situazione scoperta e pericolosa come quella di Parma». I
primi rapporti di polizia arrivano alle 16.30 dello stesso giorno nelle
mani del capo della polizia: «Verso le ore 14, l' on. Dudan, entrato con
l'ing. Foscolo del Comune di Roma, nel salone di lettura della Camera, si
era accorto che era stato attaccato all'asta della bandiera, posta al
balcone di centro del 1° piano del Palazzo di Montecitorio, un drappo
rosso (...). Immediatamente l'on. Dudan si era affrettato a togliere quel
drappo, informandone successivamente la Questura della camera. Questa
avrebbe raccolto sufficienti elementi per ritenere autore del gesto
inconsulto l' on. Picelli, deputato di Parma, che non è stato più
rintracciato nel locali della Camera».
Il rapporto del questore, il giorno dopo si si arricchisce di particolari
: «Alle ore 13.45 di ieri l' on. Dudan e l' architetto Fasolo (Foscolo
nel secondo rapporto di polizia diventa Fasolo) del comune di Roma, saliti
al salone dei giornali, alla Camera dei Deputati, notarono che un
individuo vestito di nero, sbarbato, si ritirava dal balcone prospiciente
su piazza Montecitorio, allontanandosi frettolosamente dal salone stesso.
Insospettito, l' on. Dudan si avvicinò al balcone e si accorse che un
drappo rosso era stato legato all' asta della bandiera». Quindi, secondo
i documenti ufficiali , la bandiera rossa dei lavoratori e del comunismo
sventolò per almeno 15 minuti sul palazzo del Parlamento italiano.
L'epilogo della clamorosa azione avviene alle 17.30 dello stesso giorno.
Picelli viene rintracciato dalla polizia in via Uffici del Vicario e «tratto
in arresto». Secondo il rapporto della Questura «L' on. Picelli confessò
(sic) il fatto aggiungendo di aver voluto compiere una affermazione di
carattere sentimentale e politico». Il questore inviperito per la beffa
arresta Picelli «per delitto di offesa alla bandiera nazionale, ai sensi
dell' articolo 115 Codice Penale».
Come ricordò Umberto Terracini anni dopo, Picelli compì l' azione «temerariamente
e di sua iniziativa» aggiungendo poi che «dopo che essa fu compiuta
certamente nessuno dei compagni di partito gliene fece rimprovero».
Dopo poche settimane, l'10 giugno 1924, viene rapito e assassinato a Roma
da sicari fascisti il deputato socialista Giacomo Matteotti. Il 30 maggio
1924 Matteotti aveva preso la parola alla Camera elencando tutte le
illegalità e gli abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni. Nel
discorso venne pronunciata la profetica frase: «uccidete pure me, ma
l'idea che è in me non l'ucciderete mai». Il corpo di Matteotti viene
ritrovato il 16 agosto in un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma.
L'intero paese è scosso da un'ondata di sdegno e d' indignazione. Il
regime fascista vacilla.
Il 17 luglio al Comitato Centrale del Partito, Picelli propone la linea
dell'azione: «L' organizzazione di carattere militare deve essere
rafforzata. Da un momento all' altro noi possiamo essere trascinati sul
terreno dell'azione e guai se il Partito non fosse in condizione di
compiere interamente il suo dovere...». Come ai tempi della battaglia di
Parma del 1922, il suo appello all'«unità e all' azione» non sarà
ascoltato.
* cineasta
(il manifesto, 5.1.08)
NOTA:ARTICOLO SEGNALATOCI
DAI COMPAGNI DI RIVOLUZIONE COMUNISTA e alleghiamo ad esso il calendario
politico di quel 1924 stilato dagli stessi compagni, di ispirazione
bordighista, che pubblichiamo integralmente , senza commenti invitando,
altri compagni di diversa ispirazione ad inviarcene altri , di cui
noi saremmo felici di allegare a questa pacina, ritenendo utile il
dibattito per raggiungere l'unità delle forze autenticamente
rivoluzionarie, progressiste in un progetto di un radicale cambiamento
sociale e politico.
1924
(gennaio)
Gramsci rompe gli indugi, e s’impegna a seguire le direttive dell’IC
(rappresentata in Italia da Humbert Droz) per formare una frazione
centrista tra la sinistra di Bordiga e la destra di Tasca, e stabilire
rapporti amichevoli con la frazione dei “terzini”
.
(febbraio) Il governo sovietico riconosce il governo fascista.
(aprile) Gramsci viene eletto deputato, e torna in Italia (da Vienna).
(18 maggio) Si tiene una conferenza clandestina a Como per una verifica ai
vertici del partito: su 45 segretari di federazione, 35 più il segretario
della Federazione giovanile votano per la Sinistra di Bordiga, 4 per il
Centro di Gramsci e 5 per la destra di Tasca.
(giugno-luglio) Il Quinto Congresso I.C. chiude l’epoca rivoluzionaria (leniniana)
e apre l’epoca contro-rivoluzionaria (staliniana). Il tutto camuffato da
una pretesa “sterzata a sinistra”. Bordiga interviene, auspicando lo
spostamento del baricentro dell’I.C. dal partito russo ai partiti
europei. Zinoviev e soprattutto Bucharin lo attaccano violentemente. La
sinistra del PCd’I viene estromessa da tutti i posti dirigenti.
(agosto) Dopo un biennio di lotte interne, l’I.C. sopprime
definitivamente la prima direzione del P.C.d’I. e impone una direzione
di centro-destra. Questa nuova direzione è composta da Gramsci, Togliatti,
Mauro Scoccimarro, Mersù, Maffi.
Ed è ligia alla politica del fronte
democratico antifascista. Gramsci è l’artefice italiano della
svolta. La nuova direzione propugna la linea coalizionista del governo
operaio e contadino, linea esperimentata in modo fallimentare in
altri paesi; e porta il giovane partito comunista a rimorchio delle
frazioni democratiche della borghesia.
(giugno) Giacomo Matteotti, esponente del PSI, viene assassinato dai
fascisti.
(14 giugno) I deputati di vari partiti formarono il “Comitato delle
opposizioni” (repubblicani, democratici, l’ala sinistra dei liberali,
PSI e PSU, i seguaci di Amendola e i popolari). Il gruppo parlamentare
comunista li seguì. Era nato l’Aventino. Ma tra il PCd’I e gli altri
partiti v’era incompatibilità. Respinsero la proposta comunista di uno
sciopero generale. I compagni di partito di Matteotti, pur avendo la
maggioranza nella CGL, si limitarono a dichiarare uno sciopero di 10
minuti, al quale aderirono persino i sindacati fascisti, mentre i
comunisti proclamarono lo uno sciopero generale. Verso la fine di giugno
il partito, uscito dal comitato delle opposizioni, restava in una
posizione incerta. Bordiga chiese di scegliere: o lavorare all’interno
del Comitato delle opposizioni o uscire e combatterlo. Ovviamente, si
dichiarava per la seconda posizione.
(15 Ottobre) Il Comitato Centrale fece la proposta agli aventiniani di
creare un antiparlamento da opporre al parlamento dominato dai fascisti,
proposta respinta da tutti i partiti. Bordiga, che pure in passato
aveva difeso l’astensionismo, ricordò ai compagni che la tattica scelta
dall’Internazionale era basata sul parlamentarismo rivoluzionario,
e che ad essa bisognava attenersi, senza farsi condizionare dalle manovre
di opposizioni che vedevano nell’intervento del re l’ancora di
salvezza. Si decise allora di mandare Repossi, che il 12 novembre lanciò
in parlamento un terribile atto di accusa contro il fascismo, nonostante
la canea orchestrata dai fascisti.
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