Archivio storico"Benedetto Petrone"
|
|||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
|
1 ottobre 1949 nasce la Repubblica Popolare Cinese La RIVOLUZIONE CINESE VISTA DAI COMUNISTI INTERNAZIONALISTI Dopo il 1960, anno in cui gli 81
partiti sedicenti comunisti (compreso quello di Mao) manifestarono la loro
unanimità sul programma dell'opportunismo kruscioviano, una rottura di
fatto si è prodotta fra Pechino e Mosca. In diversi testi che noi abbiamo
analizzati, la Cina presenta la propria variante nazionale dello
stalinismo: ma a differenza degli altri «socialismi nazionali» di marca
araba, cubana o jugoslava, il «socialismo cinese» pretende di rivedere i
conti alla Russia borghese, di erigersi in difensore del marxismo e di
ricostruire sotto la propria egida i ranghi del proletariato mondiale. È
questa pretesa, più che gli inevitabili antagonismi fra Stato russo e
Stato cinese, che esige la nostra risposta. Perché, né la pratica
sociale, né l'ideologia politica ufficiale dei dirigenti di Pechino sono
dirette verso il trionfo del programma comunista. Natura e
prospettive delle rivoluzioni d'Oriente 1) In Cina, come negli altri paesi
arretrati d'Africa e d'Asia, le due guerre mondiali hanno portato al loro
punto di rottura le contraddizioni fra lo sviluppo delle forze produttive
e i vecchi rapporti di produzione ereditati dal regime patriarcale. Per un lungo periodo le insurrezioni
nazionali e le rivolte agrarie vi si sono susseguite, a conferma dei
pronostici formulati dal marxismo sin dagli inizi del secolo. Così,
malgrado le ripetute disfatte del proletariato nelle metropoli europee,
l'esplosione dei movimenti nazionali in Oriente ha reso testimonianza
della forza rivoluzionaria degli antagonismi accumulati dal sistema
capitalista. Ma, come oggi è provato dal ritardo crescente dei paesi
arretrati rispetto allo sviluppo economico delle loro ex metropoli, queste
contraddizioni non potevano essere risolte in un quadro nazionale e nella
forma di un «progresso borghese». Esse sono il prodotto del capitalismo
mondiale, del suo sviluppo ineguale, dell'accumulazione di tutte le
ricchezze in un pugno di Stati super-industrializzati. È appunto in questi termini che
l'Internazionale Comunista, fin dal suo «Manifesto» del 1919 poneva la
questione coloniale: «L'ultima guerra, che è stata anche una guerra
contro le colonie, fu contemporaneamente una guerra con l'aiuto delle
colonie... Il programma di Wilson «libertà dei mari», «società delle
Nazioni», «internazionalizzazione delle colonie», non mira ad altro,
nell'interpretazione più favorevole, che a cambiare l'etichetta della
schiavitù coloniale. La liberazione delle colonie è possibile solo
contemporaneamente alla liberazione della classe operaia delle metropoli».
Questa è stata battuta, poi asservita all'ideologia borghese e pacifista;
ma contro tutti i profeti di «pace sociale» e di «coesistenza pacifica»,
deve trarre dalle rivoluzioni di Oriente questa lezione e questa certezza:
la violenza è sempre la sola levatrice della storia. 2) Quale che possa essere stata in Cina
l'oppressione dell'imperialismo straniero, la natura degli antagonismi
economici e sociali che questo vi ha scatenati non poteva fare della sua
rivoluzione, di per sé, una rivoluzione «anti-capitalista». Il marxismo
ha sempre denunciato questa illusione del «socialismo» piccolo-borghese,
che fu pure quella dei populisti russi e che oggi è sfruttata dall'«estremismo»
di Mao. Diceva Lenin dei populisti russi: La liberazione del contadino dai
vincoli dell'economia naturale, lo sviluppo di un'industria «moderna»,
utilizzante le risorse in manodopera e in capitali fornite da
un'agricoltura «moderna», la creazione di un mercato nazionale e, a
coronamento di tutto ciò, l'esaltazione della «unità nazionale», di
una «cultura nazionale» e di tutti gli attributi «moderni» della
potenza statale, non sono mai stati e non possono essere altro che il
programma dell'accumulazione del capitale. 3) Tuttavia, lungi dal limitarsi, in un
movimento rivoluzionario borghese, alla rivendicazione formale dello Stato
nazionale e della democrazia politica, il marxismo determina nel modo più
rigoroso il ruolo delle classi sociali in ogni rivoluzione. La comparsa di
un proletariato industriale in Cina, come nella Russia zarista o
nell'Europa del 1848, significava per i comunisti la necessità di una
organizzazione di classe che sfruttasse ai propri fini politici la crisi
del regime pre-borghese. Tale è la linea del «Manifesto
del Partito Comunista» e della Rivoluzione di Ottobre, linea che Marx
ha definito col nome di «rivoluzione permanente». Nelle sue «Tesi
complementari sulla questione coloniale», Roy sottolineava al II
Congresso della III Internazionale l'importanza di questa prospettiva di
lotta indipendente e continua per il proletariato dei paesi coloniali: Imprigionando il proletariato cinese,
fin dall'inizio della rivoluzione, nel «blocco delle quattro classi» -
formula politica dell'attuale «democrazia popolare» - il partito di Mao
ha segnato la rottura di tutto l'Oriente arretrato con la tattica
gloriosamente illustrata dal bolscevismo russo. 4) La permanenza del processo
rivoluzionario che doveva dare il potere al proletariato dei paesi
arretrati, aveva senso, per una vittoria definitiva del comunismo,
soltanto se la rivoluzione proletaria riusciva ad estendersi alle
metropoli del capitale. La Russia, diceva la seconda prefazione di Marx
alla edizione russa del «Manifesto»,
potrà evitare la fase dolorosa dell'accumulazione capitalistica solo È noto come lo stalinismo abbia
capovolto questa tesi, facendo dei successi economici o diplomatici della
Russia il criterio universale dei progressi del comunismo. Pechino va fino
in fondo sulla via del rinnegamento: invece di indicare nella vittoria del
proletariato occidentale la sola prospettiva di emancipazione sociale
dell'Oriente, esso fa dipendere la causa del proletariato internazionale
dall'esito dei moti nazionali borghesi d'Africa e d'Asia. 5) Contro la teoria staliniana della «edificazione
del socialismo nell'URSS», e i prolungamenti tattici che l'Internazionale
degenerata le diede in Cina, Trotzky ha avuto il merito storico di
difendere la visione integrale del processo rivoluzionario scatenato dalla
prima guerra mondiale e dalla rivoluzione di Ottobre. Così, nelle sue
tesi del 1929 sulla rivoluzione permanente, egli dichiarava: La teoria della rivoluzione permanente
si applica quindi ad ogni Stato isolato di dittatura proletaria, tanto se
le sue strutture economiche sono mature per certe trasformazioni
socialiste quanto se sono ancora molto arretrate. Non più che la Germania
di Hitler, la Russia staliniana non poteva aggiudicarsi il privilegio
nazionale di «costruire il socialismo» entro le sue frontiere. Ma
d'altra parte, insisteva Trotzky, Democrazia e
proletariato: la questione nazionale 6) Instaurando la dittatura del
proletariato in un paese piccolo-borghese che non conosceva né il regime
parlamentare né un capitalismo sviluppato, i bolscevichi russi diedero
una smentita mortale al riformismo della II Internazionale che della
democrazia e dei suoi «progressi» faceva una condizione assoluta del «passaggio»
al socialismo. Mezzo secolo più tardi, non ci si
contenta di vedere nelle riforme costituzionali e nei metodi democratici
la via maestra verso il socialismo; lo stesso socialismo è definito dai
rinnegati in termini borghesi di «democrazia popolare» o di «Stato di
tutto il popolo». Coloro che hanno distrutto l'Internazionale di Lenin
non hanno più che una parola d'ordine ed una confessione: indipendenza
dei diversi partiti «comunisti», non-ingerenza negli affari interni dei
partiti «nazionali». Spiegando il fallimento della II
Internazionale, il «Manifesto» del 1919 dichiarava che 7) La questione nazionale non può
porsi come questione specifica del movimento proletario che nella fase
rivoluzionaria del capitalismo, quando la borghesia si lancia all'assalto
del potere per condurre a termine la sua opera di trasformazione economica
e sociale. In una fase di capitalismo già maturo, invece, ogni «programma
nazionale» di un partito operaio che rivendichi il perfezionamento del
sistema rappresentativo dello Stato borghese o della sua base economica,
costituisce un programma di collaborazione di classe e di «difesa della
patria». Appunto perciò il marxismo ha sempre strettamente delimitato
per aree geografiche queste due fasi successive del capitalismo. Oggi, questa fase si è egualmente
conclusa per tutta l'area afro-asiatica Dovunque si sono costituiti, alla
fine della II guerra mondiale, degli Stati nazionali più o meno «indipendenti»,
più o meno «popolari», che promuovono in modo più o meno «radicale»
l'accumulazione del capitale. Per questo solo fatto, l'«estremismo»
cinese non può più presentarsi come la teoria di un movimento nazionale
rivoluzionario, ma come un'ideologia ufficiale di Stato borghese
costituito, come un programma di collaborazione di classe con tutto ciò
che questo comporta in frasi «socialiste». 8) Neanche nella fase delle rivoluzioni
democratiche borghesi, i comunisti non possono erigere a feticcio la «questione
nazionale» e non devono collocarne la soluzione al disopra degli
interessi di classe e della propria lotta. Il proletariato rivoluzionario
non deve dimenticare che il suo compito storico è di distruggere lo Stato
borghese e i rapporti di produzione capitalistici per instaurare una
società in cui le classi spariranno, e con esse spariranno le differenze
fra Stati e le stesse nazioni. Nel suo sviluppo il capitalismo abbatte
le frontiere nazionali, superate dalle sue merci e dai suoi eserciti.
Distruttore di rapporti di proprietà, esso infrange le entità nazionali
e impone le sue forme di dominazione mondiale ai paesi più avanzati come
ai popoli oppressi. I comunisti non possono quindi attendere dal capitale
che esso crei un'armoniosa «società delle nazioni» in cui i rapporti
fra Stati siano regolati conformemente al «diritto delle genti». Era
invece loro permesso di sperare che l'abbattimento del capitalismo
mondiale evitasse all'Oriente la fase dell'accumulazione capitalistica e
della costituzione in Stati nazionali borghesi. 9) La III Internazionale aveva
prospettato le diverse possibilità di sviluppo della rivoluzione
mondiale: Ma non considerò la vittoria di un
blocco di classi come una prospettiva rivoluzionaria duratura e alla quale
il proletariato dei paesi arretrati potesse legare il suo destino. In
tutti i casi le tesi del II Congresso che Roy aveva particolarmente
consacrato alla Cina e all'India insistevano sulla necessita per il
proletariato di separarsi dalla borghesia «nazionale». 10) La storia del movimento operaio in
Cina e la tradizione politica del PCC sono la negazione di questa esigenza
dell'Internazionale. Entrando nel Kuomintang, fin dal 1924, il giovane
partito comunista cinese dava la sua adesione ai «tre principi del popolo»,
versione asiatica delle formule di Lincoln («un governo del popolo,
mediante il popolo e per il popolo») e della rivoluzione borghese
francese («libertà, eguaglianza, fraternità»). Come ha mostrato
Trotzky, la fusione del PCC e del partito nazionalista non aveva nulla a
che vedere con la tattica delle alleanze temporanee che Marx giudicava
accettabile in una rivoluzione democratica borghese e che i bolscevichi
avevano utilizzato in Russia. Si trattò di un'adesione di principio,
rinnovata da Mao Tse-tung ad ogni «tappa» della rivoluzione cinese anche
dopo la sconfitta e l'eliminazione del Kuomintang: Dalla
rivoluzione russa alla Comune di Canton: rivincita del menscevismo 11) è nell'analisi degli avvenimenti
del 1905 che il bolscevismo trovò la conferma della sua tattica e si
separò definitivamente dalla corrente menscevica. In Russia, constatava
Lenin, Combattendo la teoria delle «tappe»
della rivoluzione borghese che Stalin sosteneva già, Lenin ricordò nel
marzo 1917 il contenuto delle divergenze fra bolscevichi e menscevichi: 12) Lo stalinismo si è sforzato di
negare l'applicazione ai paesi coloniali dei principi e degli insegnamenti
della rivoluzione di Ottobre e a questo scopo sostenne un'interpretazione
tipicamente menscevica, secondo cui il giogo imperialista rendeva la
borghesia «nazionale» dei paesi arretrati più rivoluzionaria che la
borghesia antifeudale russa. A questa teoria di Bucharin, Trotzky rispose: Senza fare l'analisi dei rapporti di
classe in Cina, come negli altri paesi coloniali, era impossibile capire
sia il contenuto della questione agraria, sia il fenomeno della borghesia
compradora, sia infine il ruolo dei «signori della guerra» e altri
generali nazionalisti, come Ciang Kai-scek e Uan Tin-uei, in cui
l'Internazionale cercò degli alleati e in cui trovò dei carnefici. 13) «Le
rivoluzioni d'Asia ci hanno mostrato la stessa mancanza di carattere e la
stessa bassezza del liberalismo, la stessa importanza esclusiva di una
indipendenza delle masse democratiche, la stessa delimitazione precisa fra
il proletariato e ogni borghesia».
(Lenin, «I destini storici della dottrina di K. Marx», 1913). Tali gli insegnamenti che fin dal 1913
Lenin tirava dalla prima ondata delle rivoluzioni nazionali borghesi in
Oriente: Russia (1905), Persia (1906), Turchia (1908), Cina (1911). Poco
prima che la seconda ondata rivoluzionaria finisse nel massacro del
proletariato cantonese, nel 1927, Trotzky riassunse l'amara lezione della
tattica seguita dall'Internazionale: E in realtà nelle grandi battaglie
della rivoluzione cinese fra il 1924 e il 1927 non fu la sorte di una Cina
«indipendente, ricca e potente» ad essere compromessa per molti anni, ma
la sorte di tutto il movimento operaio nelle colonie per un periodo
storico infinitamente più lungo e più doloroso. 14) Entrando nel Kuomintang, mandando i
suoi «ministri» nel governo nazionalista di Canton, il PCC non eseguiva
un'abile manovra tattica per aumentare la sua influenza, come gli fece
credere l'Internazionale di Mosca. Esso rinunciava ai suoi principi e
subordinava la sua azione alla strategia nazionale della borghesia. Stalin
spinse questa posizione fino alle sue ultime conseguenze e le «tesi» da
lui pubblicate nell'aprile 1927, più di un anno dopo il primo colpo di
forza di Ciang Kai-scek, contro i comunisti, presero una forma «classica». L'adesione ai «tre principi del popolo»
non implicava infatti il semplice riconoscimento di principi astratti, la
«fede comune degli operai e dei borghesi nel movimento nazionale».
Secondo la dottrina di Sun Yat-sen ai «tre principi» corrispondevano «tre
tappe» dello sviluppo della rivoluzione borghese: - La prima tappa, «militare»,
doveva tradurre in pratica il principio del nazionalismo mediante
l'unificazione della Cina; - La seconda, «educativa», doveva preparare
il popolo alla democrazia politica; - La terza, infine, doveva realizzare
questa democrazia e introdurre il «benessere del popolo». Nelle sue «tesi», Stalin riprende le
stesse «tappe» battezzandole: antimperialista, agraria, sovietica. Solo
il massacro del proletariato cinese segnava per lui la fine della «prima
tappa», durante la quale i comunisti non dovevano porre né la questione
agraria né quella della loro uscita dal Kuomintang. Tutti i partiti
staliniani ripresero questa politica nei paesi coloniali. In Cina, in cui
essa fu applicata per la prima volta, essa si è rivelata apertamente come
un tradimento di classe, abbandonando i proletari insorti nei maggiori
centri industriali alla sanguinosa repressione di Ciang Kai-scek. 15) Nella sconfitta del 1927, lo
stalinismo non volle mai vedere che «una tappa» della rivoluzione
borghese in Cina e un «provvisorio» rinculo del movimento operaio. Noi
respingiamo questa interpretazione. Le lotte di classe in quel periodo
furono così poco «parziali», che si trasformarono in una lotta per
la conquista del potere fra borghesia e proletariato, e la sconfitta
si accompagnò all'eliminazione fisica duratura di tutta l'avanguardia
comunista. Ormai, come disse Trotzky, la «rivoluzione democratica»
in Cina avrà il carattere non più di una rivoluzione, ma di una
controrivoluzione, borghese. Infine, il rovescio del 1927 segna per
l'Internazionale di Mosca il rinnegamento completo della
tradizione bolscevica in tutti i paesi d'Oriente. Alle tesi di Aprile
1917, con le quali Lenin annunciava l'imminente vittoria della rivoluzione
russa, si contrappongono parola a parola le tesi di aprile 1927, in cui
Stalin giustifica con la teoria delle «tappe» rivoluzionarie il colpo di
stato di Ciang Kai-scek. Contro la storiografia nazionale e
borghese, il marxismo deve ristabilire la sua concezione proletaria e
mondiale del corso storico dei movimenti rivoluzionari borghesi: «Socialismo»
contadino e democrazia di tipo «nuovo» 16) Il marxismo non ha solo denunziato
la teoria della «tappa democratica», ha anche respinto, nella «tappa
agraria», l'impiego ad opera di Stalin della parola d'ordine della «dittatura
democratica degli operai e dei contadini», per coprire l'alleanza
governativa con il Kuomingtang di sinistra. Nella sua forma compiuta,
questa teoria è diventata quella della democrazia «nuova», abbandono
completo delle concezioni marxista sulla natura di classe di ogni stato. Non soltanto l'Internazionale di Lenin
non ha mai chiamato i proletari delle colonie a fondare questi Stati «intermedi»
fra la dittatura del proletariato e quella della borghesia, ma noi
neghiamo altresì che ne esista o ne sia resistito uno solo dopo 40 anni
di «fronti anti-imperialistici». L'esperienza del dualismo del potere
nella rivoluzione russa ha provato che la «dittatura democratica degli
operai e dei contadini» non può non trasformarsi, a breve scadenza, in dittatura
del proletariato o dittatura della borghesia. Trotzky estese
quest'insegnamento alla rivoluzione di Cina, e noi ne vediamo oggi la
conferma nel punto di approdo borghese di tutti i moti anticoloniali. 17) Dopo di avere a lungo ignorato il
movimento agrario e l'armamento dei contadini, gli staliniani se ne
invaghirono al punto di vedervi il tratto «La
questione nazionale è, fondamentalmente, una questione contadina», Non è questa, per noi, l'originalità
delle rivoluzioni borghesi nell'epoca imperialistica. In passato, tutte
hanno messo in moto il contadiname in forme diverse, compresa
l'organizzazione armata; tutti hanno realizzato in gradi diversi delle
trasformazioni profonde nell'agricoltura. Ma il marxismo ha sempre
sottolineato l'incapacità della classe contadina di avere una politica
propria. Esso ha dimostrato che le insurrezioni agrarie, parti integranti
delle rivoluzioni borghesi, sono riuscite unicamente sotto la direzione
delle città e cedendo loro il potere. Il «Manifesto»
insisteva già sul carattere duplice del contadiname e sulle
ragioni per cui non può agire come classe indipendente. Il
contadino non è che il rappresentante sociale di rapporti borghesi;
lascia sempre ad altri il compito della sua rappresentanza politica. A tutti i campioni del «socialismo»
contadino che, in Russia come in Cina, ci rimproveravano di «sottovalutare»
il contadiname, noi abbiamo apposta questi insegnamenti del marxismo
rispondendo che l'originalità delle rivoluzioni d'Oriente non
risiedeva nell'intervento armato delle masse rurali, ma nella
prospettiva di una direzione proletaria verso scopi che non fossero
inevitabilmente borghesi. 18) La sconfitta del proletariato
cinese spiega che la rivoluzione abbia dovuto ripartire dal fondo delle
campagne, ma non giustifica che i comunisti abbiano barattato le loro
concezioni classiste con le teorie del «socialismo» contadino. Nel
1848-'49, l'insuccesso della rivoluzione tedesca aveva lasciato il
proletariato in un'analoga disorganizzazione politica; l'aveva posto di
fronte allo stesso pericolo d'essere sommerso dalla democrazia
piccolo-borghese. È contro questo pericolo che Marx ed Engels scrissero
il loro celebre «Indirizzo alla lega dei comunisti». Contro i radicali piccolo-borghesi che
«tendono a coinvolgere i lavoratori in un'organizzazione di partito in
cui dominino le frasi generiche socialdemocratiche dietro cui si
nascondono gli interessi specifici dei piccolo borghesi», l'«Indirizzo»
ricorda la necessità di un partito di classe indipendente. Contro ogni tipo di potere della
democrazia piccolo-borghese, esso lancia in questi termini la parola
d'ordine della rivoluzione proletaria: È questa la classica risposta del
marxismo alle formule reazionarie dei «partiti operai-contadini», dei
governi «operai-contadini» e della democrazia «nuova». L'Indirizzo del
1850 è interamente diretta contro di esse. Se Marx ed Engels non vi
parlano di «dittatura democratica», gli è che una tale parola d'ordine
non poteva essere quella del proletariato di fronte alla agitazione dei
democratici piccolo-borghesi. Stalin e Mao non possono nemmeno appoggiarsi
su un'assenza in Germania della particolarità «originale» che si
pretende di aver scoperta in Cina o addirittura in Russia: la rivoluzione
agraria. Al contrario, nella Germania dell'epoca, Marx ed Engels
scontarono più di una volta una «riedizione» della
guerra dei contadini del XVI secolo sotto la direzione politica del
proletariato. 19) Non più che la rivoluzione
borghese tedesca, la rivoluzione russa non rivela il segreto di un potere
«popolare» stabile rappresentante un blocco di classi. Molto prima del
1917, Lenin aveva spiegato la formula della «dittatura rivoluzionaria e
democratica degli operai e dei contadini» come un potere del
proletariato «che si appoggia sui contadini» o che «si trascina
dietro i contadini», formula non frontista e neppure «democratica».
Ma ecco come, nell'aprile 1917, in perfetta continuità con Marx ed
Engels, egli la interpreta: Tra il febbraio e l'ottobre, i
populisti e i menscevichi furono dei rabbiosi partigiani della «dittatura
democratica», rimproveranti a Lenin di «sottovalutare»i contadini o di
voler «saltare» al di là della tappa delle riforme sociali borghesi. I
bolscevichi ricordavano invece che non si trattava di «introdurre il
socialismo» in Russia, ma di impadronirsi del potere politico;
dopo di che mostrarono come la dittatura proletaria realizzi le riforme economiche
della democrazia piccolo-borghese. 20) Dopo la capitalizzazione di fronte
alla borghesia liberale cinese, la «lotta contro il trotzkismo» ebbe per
scopo di assicurare il trionfo, in seno al proletariato sconfitto, delle
posizioni già difese dal blocco dei populisti e dei menscevichi durante
la rivoluzione russa. E fu Mao, già membro delle C. C. del Kuomingtang e
nuovo agitatore del contadiname, a realizzare questo compito. Per noi, egli non ha né «salvato» né
«ricostruito» il partito del proletariato conducendolo «nelle montagne»
e spingendolo alla guerriglia contadina; l'ha semplicemente annegato
nell'enorme magma piccolo-borghese contro la cui corrente Lenin
nell'aprile 1917 e Marx nel marzo 1850 avevano saputo preservare i
comunisti. Non ha nemmeno sbarazzato la questione del potere nella
rivoluzione cinese dalle illusioni piccolo-borghesi che nel 1927 avevano
permesso la repressione ad opera di Ciang Khay-scek. La teoria della «nuova
democrazia» non è che lo sviluppo di queste illusioni in un periodo e in
un paese in cui la debolezza della borghesia «nazionale» non lasciava
altre prospettive di costituzione di un potere borghese che mediante
l'azione delle masse «popolari» e contadine, così inette e lente ad
organizzarsi. I democratici piccolo-borghesi amano
attribuire alla «reazione» la loro difficoltà di unirsi «efficacemente»,
la loro mancanza di carattere e le loro fluttuazioni congenite. Il
marxismo vi riconosce al contrario il riflesso della loro situazione
economica instabile. Fare appello alla iniziativa politica di queste masse
per fondare uno Stato nazionale, combattere l'imperialismo e realizzare il
programma socialista, non è solo rinnegare Marx e Lenin, ma compromettere
ogni movimento rivoluzionario. Bastano per noi a provarlo le interminabile
peripezie della rivoluzione cinese e, ancor oggi, l'anarchia sanguinosa in
cui si dibatte la maggior parte dell'Africa nera. Ecco perché, nel 1917, Lenin accantonò
la «vecchia formula» della «dittatura rivoluzionaria e democratica»
che populisti e menscevichi volevano «realizzare»... mediante
l'Assemblea costituente. Allo stesso modo, i socialisti buttarono agli
archivi della seconda Internazionale il nome di «partito
socialdemocratico». Perché, e ciò vale anche per la «democrazia
di tipo nuovo», la «L'impotente
riformismo piccolo-borghese» 21) Nel loro «Indirizzo», Marx ed
Engels avvertivano i proletari tedeschi che la democrazia piccolo-borghese
avrebbe giocato lo stesso ruolo di tradimento che la borghesia liberale
nella trasformazione rivoluzionaria delle vecchie strutture sociali e
politiche. Queste previsioni si verificarono in Russia con i socialisti
rivoluzionari. L'esempio cinese ce ne da' la conferma assoluta alla scala
di tutto il periodo storico e di un intero paese. 22) Nella questione agraria, il partito
di Mao non ha fatto nulla per combattere le tendenze piccolo-borghesi
ansiose di sottolineare la rottura con i vecchi rapporti sociali con una
consacrazione giuridica dei sacri diritti della proprietà contadina. E
tutte le riforme annunziate a gran voce dopo la creazione della Repubblica
popolare non hanno contemplato una maggiore concentrazione
dell'agricoltura che sulla base dello sviluppo della produzione
particellare, degli «interessi» del contadino particellare e dell' «aiuto»
statale ad esso. Quando vuole superare questi limiti, che sono quelli dei
rapporti di produzione borghesi, la catastrofe sociale che ne derivò non
fu meno grave di quella seguita alla falsa collettivizzazione staliniana
in Russia. Riassumendo, la famosa «rivoluzione
agraria» si riduce a una difficile accumulazione del capitale nelle
campagne cinesi secondo le due fasi classiche di sviluppo dell'agricoltura
capitalista: prima dell'instaurazione della proprietà contadina, poi un
lento processo di espropriazione e concentrazione sotto la spinta delle
forze produttive borghesi e di una giganteggiante economia di mercato. È occorso un quarto di secolo
(1927-1952) perché si compisse la prima fase: confisca e spartizione. Ma,
prima che la Cina abbia un'agricoltura «moderna», concentrata, cioè
pienamente capitalista, possiamo sperare che il proletariato comunista
mondiale abbia avuto ragione del «socialismo» nazionale contadino e
piccolo-borghese. 23) Dallo sviluppo storico
dell'agricoltura cinese noi troviamo una conferma di fatto: il suo
carattere borghese. Ma dalla politica agraria del PCC traiamo una critica
di principio: essa non ha rispettato che i processi molecolare di questo
sviluppo senza tentare di anticipare sulle sue conseguenze, sociali, in
specie sul sovvertimento dei rapporti borghesi di proprietà. Citiamo
ancora l'«Indirizzo» del 1850: Per i comunisti, non si trattava di
stabilire se la Cina o la Russia piccolo-borghese era «natura» per
questa trasformazione: l'abbattimento della denominazione borghese era
concedibile solo su scala internazionale. Non si trattava nemmeno, in un
dato paese, di inventare delle ricette «collettivistiche» per accelerare
lo sviluppo economico. «Noi scriviamo un decreto, non un programma»,
diceva Lenin commentando il «Decreto sulla terra» al quale certuni
rimproveravano d'essere il programma dei socialisti rivoluzionari. In un
punto questo decreto si distingueva tuttavia dal loro programma: non
racchiudeva in forme giuridiche definitive (spartizione,
nazionalizzazione) le aspirazioni dei contadini. Qui risiede tutta la
differenza di programma fra «socialismo» nazionale e comunismo
internazionalista. 24) La politica piccola-borghese del
partito di Mao appare in luce ancora più netta nella «questione operaia».
Lungi dall'iscrivere sulle sue bandiere l'abolizione del salariato, il PCC
proclama l'associazione del capitale e del lavoro, e non tralascia nessuna
«misura di beneficenza» nella tradizione del «socialisti» alla Louis
Blanc: Un tale programma, una tale pratica,
non si distinguono più in nulla dal vecchio riformismo dei paesi
capitalisti progrediti, dai discorsi elettorali di qualunque deputato «progressista»
o ministro «reazionario» d'Occidente. Chiamandoli «socialismo» e
rivendicandone l'esclusività contro Mosca, Mao si è portato al livello
«ideologico» delle forze di conservazione borghese nel mondo. Ha perduto
la sua aureola di agitazione contadina. In Cina, la democrazia piccolo-borghese
ha cessato d'essere rivoluzionaria dal 1927; fu riformista
ancor prima di detenere il potere statale; oggi è reazionaria nel
presentare le sue illusioni e soprattutto la sua prassi economico-sociale
sotto l'etichetta di «costruzione socialista». Qui è tutto il
significato politico che noi attribuiamo al suo conflitto con
Mosca. 25) Così si compie il destino storico
del «populismo» cinese. Sin dalla prima rivoluzione borghese 1911, Lenin
sottolinea il doppio aspetto dell'ideologia di Sun Yat-sen. Utopista
era l'idea di realizzare il «socialismo» mediante la nazionalizzazione
delle terre, la «limitazione» del grande capitale e l'applicazione «onesta»
di un piano di sviluppo industriale concertato da parte delle grandi
potenze. Ma questo programma aveva un contenuto rivoluzionario borghese
che i bolscevichi seppero riconoscere in Cina come in Russia. Adottandolo,
realizzandolo, il partito di Mao gli ha conferito il solo «sviluppo
originale» che gli fosse riservato: l'utopia del «socialismo»
contadino è divenuta l'ideologia reazionaria della «costruzione
socialista» in Cina, e il suo contenuto rivoluzionario si è diluito
nell'oceano delle riforme piccolo-borghesi. Così è degenerata l'ideologia
politica di una classe molto tempo dopo che la storia né aveva firmato la
condanna a morte. All'opposto, dal lontano 1894, Lenin poteva annunziare
con i primi passi del proletariato russo il fallimento ideologico degli «amici
del popolo», molti decenni prima che il loro potere «popolare» vedesse
la luce: Antagonismi
dell'Oriente borghese 26) A differenza dall'India e da altri
paesi coloniali, la Cina è entrata nella storia moderna come la «colonia
di tutti». Ben presto l'esportazione di capitali prevalse su quella dei
prodotti industriali dalla vecchia metropoli inglese. Per proteggere i
loro investimenti, le grandi potenze «si accordarono» circa la
spartizione del paese in sfere d'influenza. A Pechino, il corpo
diplomatico disponeva nell'insieme delle finanze dello Stato. Questa
situazione rifletteva, come mostrò Lenin, il passaggio del capitalismo al
suo stadio supremo: l'imperialismo. Il programma di Wilson per «l'internazionalizzazione
delle colonne», la sua versione «ultra-imperialista» in Kautsky e il
progetto di Sun Yat-sen di creare un consorzio delle grandi potenze per lo
sviluppo di una Cina «indipendente», non avevano altra base oggettiva. L'esempio della Cina ha mostrato che
era impensabile. Il paese che, sui primi del secolo, offriva le maggiori
promesse di sviluppo capitalista e le più sicure garanzie di profitto, è
divenuto il campo chiuso delle guerre civili e delle rivalità
imperialiste. Meglio ancora, di fronte allo scatenarsi di questi
antagonismi, l'imperialismo mondiale ha dovuto rinunciare a tutti i suoi
«piani» economici in Cina, trasportando la sfrenata concorrenza fra
capitali sulle vecchie colonie e semicolonie: India, Africa, America del
Sud. Là sorgono i «piani di sviluppo» e il pacifico sviluppo bolso dei
Wilson e dei Kautsky russo-americani. Ma vi si preparano anche, su scala
ancor più vasta, le prossime esplosioni rivoluzionarie. 27) Il partito di Mao ha fatto di tutto
perché la sua vittoria non prendesse il carattere di una violenta rottura
della catena imperialista in Asia. Aderendo ancor più completamente che
Sun Yat-sen alla guerra mondiale, il PCC fece proprie le illusioni della
borghesia liberale cinese su una «società delle nazioni» e una «cooperazione
internazionale» di cui la Cina fosse beneficiaria. Fin dal 1924 Sun Yat-sen aveva
constatato il fallimento di questo programma! Mao non solo gli è rimasto
fedele, ma lo predica a guisa di «socialismo»: Contro l'utopia piccolo-borghese di un
«socialismo» delle patrie realizzante uno sviluppo «armonico»
attraverso un commercio «uguale», noi rivendichiamo la distruzione
delle patrie borghesi e lo stabilimento di rapporti non mercantili, e che
appunto non saranno «uguali», fra i paesi in cui domani si instaurerà
la dittatura proletaria! 28) Lungi dal riflettere «divergenze
ideologiche», il conflitto cino-russo si colloca sullo stesso terreno
degli interessi nazionali borghesi. È incontestabile che i compromessi
dell'URSS con la borghesia autoctona o con l'imperialismo straniero
ritardarono fino alla fine della II guerra mondiale la costituzione di
Stati nazionali borghesi in tutto l'Oriente. Esattamente come la
rivoluzione russa aveva ridestato i moti anticoloniali d'Asia, la
controrivoluzione staliniana ne frenò gli sviluppi. Ma il partito di Mao
che oggi si leva contro Mosca non ha mai denunciato questo tradimento: né
nel 1937, quando il PC seguì docilmente la svolta dei «fronti popolari»
riannodando l'alleanza con Ciang Kay-scek, né nel 1945, quando Stalin
firmò con lo stesso Ciang un trattato di pace e di amicizia che doveva
durare... 30 anni. Non dunque la coscienza degli interessi
del movimento anticoloniale, né ancor meno la critica del «socialismo»
russo, è all'origine del conflitto cino-sovietico; ma le contraddizioni
tra lo sviluppo del capitalismo cinese e gli interessi dell'imperialismo
russo: 29) Il «Programma» che Stalin fece
adottare al VI Congresso dell'Internazionale escludeva per la Cina e gli
altri paesi arretrati quello che la Russia si era da poco attribuito: il
privilegio della «costruzione del socialismo» nelle sue frontiere
nazionali. Nel momento in cui gli interessi del capitalismo russo si sono
integrati in quelli del mercato mondiale, la Cina riprende per conto suo
questo vecchio slogan staliniano. E noi ripeteremo per essa ciò che
Trotzky diceva del «socialismo russo»: La «costruzione del socialismo» in
Cina non può significare che l'accumulazione del capitale e l'estensione
di un'economia di mercato. Ma questa teoria non riesce a mascherare degli
antagonismi molto più acuti. Il conflitto cino-sovietico, tutta la storia
dei movimenti nazionali borghesi d'Asia e di Africa, tutte le conferenze
sul commercio mondiale hanno sottolineato con inquietudine il ritardo
crescente della maggioranza dei paesi arretrati, «indipendenti» o no, «socialisti»
ho no, sul pugno di grandi potenze imperialistiche che detengono tutti i
poteri politici, economici e militari nel mondo attuale. 30) Per scongiurare la sorte che
l'attende, la borghesia dei paesi arretrati si sforza con tutti mezzi di
far passare la sua emancipazione politica e nazionale come pegno
dell'emancipazione sociale e umana delle masse sfruttate. Doppiamente
vittime della loro borghesia e delle contraddizioni accumulate
dall'imperialismo mondiale, i proletari delle ex colonie troveranno sempre
più ragioni per rompere con l'ideologia democratica e riformista. Essi
allora si ricorderanno che il marxismo e l'Internazionale di Lenin non si
erano mai aspettati dalla democrazia politica e dall'indipendenza
nazionale la liberazione dei popoli coloniali da ogni sfruttamento: E contro questa forma più libera,
vasta e chiara dell'oppressione di classe che il proletariato della Cina
«popolare», come dell'India russo-americana, dovrà riprendere la sua
battaglia.
|
|