OPEN AREA PUGLIANTAGONISTA |
Come nostra prassi riportiamo integralmente un interessante articolo firmato da fabio Damen sulla situazione in Ossezia ed inviatoci dal
CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO
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La redazione di pugliantagonista ricorda che nella sua scelta di pubblicare articoli non equivale a esprimersi sul giudizio della linea politica dei gruppi o partiti politici a cui fanno riferimento gli articoli. Se in questo mese di agosto abbiamo rallentato la nostra attività è dovuto ad un lavoro di risistematizzazione del sito e ci scusiamo se non abbiamo potuto pubblicare i vostri contributi. e
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È dal 1992 che la questione Ossezia travaglia la regione caucasica.
Come tutti i nazionalismi, anche quello dell´Ossezia rientra nel gioco imperialistico che la crisi internazionale rende sempre più duro. I motivi che hanno indotto la Georgia ad attaccare la piccola regione autonoma del Caucaso e quelli che hanno spinto la Russia a impiegare l´esercito a favore degli indipendentisti osseti contro il governo di Tblisi, vanno ben al di là dei fatti contingenti che la cronaca regionale ci racconta.
Innanzitutto la questione Ossezia riguarda lo scontro tra Russia e Georgia. La prima non può tollerare l´avvicinamento del governo di Saakashvili agli stati Uniti, né tanto meno il suo dichiarato desiderio di entrare a far parte della Nato quale pedina di Washington nell´area dell´ex impero sovietico. Ciò comporterebbe la costituzione, con l´Ucraina, di un fronte anti-russo ai confini centro-meridionali. La seconda, la Georgia, con il recente atto di forza, vuole accelerare i tempi della sua "occidentalizzazione" invocando esplicitamente l´intervento degli Usa. Così facendo spera di chiudere a suo favore la pratica Ossezia, di mettere di fronte al fatto compiuto la nemica Russia e di guadagnare i galloni di futura testa di ponte degli interessi occidentali nel Caucaso, con tutti i vantaggi politici ed economici che il nuovo status le conferirebbe. Nello specifico, lo scontro con l´Ossezia del sud avrebbe dovuto aprire la porta agli interessi Usa che hanno nell´alleata Georgia di Saakshvili, l´unico accesso al controllo e al trasporto delle ricchezze energetiche del Caspio bypassando l´attuale controllo russo.
Proprio per questo motivo, lo scontro tra la Russia e la Georgia (Usa) ha come epicentro la necessità di controllare, da parte di entrambi, i paesi che sono prossimi o si affacciano sulla sponda ovest del Mar Nero (Ossezia del nord ma anche Daghestan) in quanto area di interesse per il passaggio di futuri oleodotti e gasdotti che dal Caspio dovrebbero portare le materie prime energetiche in Europa e le cui traiettorie geografiche impongono l´esclusione di qualsiasi forma di interferenza da parte della concorrenza. La Russia ha intenzione di costruire, con ingenti investimenti, un gasdotto (South Stream) che dal Caspio, attraverso il Mar Nero, dovrebbe portare gas in Europa con due terminali, uno nella zona meridionale (Grecia, Kosovo o Puglie, l´altra più a nord verso l´ Austria. Ma la criticità del progetto risiede proprio nella sponda est del Mar Nero, in Ossezia del sud e in Daghestan. Il progetto prevede che un tratto del gasdotto, quello che va da Vladikvaz (Ossezia del nord) alla periferia di Ckhinvali, passi per tutto il territorio dell´Ossezia del Sud per poi dirigersi verso i porti russi del Mar Nero.
Ed è qui che lo scontro cessa di essere regionale per assumere le dimensioni di un conflitto inter-imperialistico i cui terminali sono la Russia e gli stati Uniti, le loro aspirazioni di egemonia nell´area, premendo sugli alleati, reprimendo gli avversari, inscenando aggressioni e reazioni militari all´unico scopo di creare le migliori condizioni al soddisfacimento dei rispettivi interessi. Non per niente l´azione militare georgiana ha avuto l´avallo americano, va ricordato come il governo Usa abbia trasportato con i propri aerei un contingente militare di due mila soldati georgiani dall´Afganistan direttamente nell´Ossezia del sud, e come la reazione russa sia stata immediata, programmata, violenta quanto isterica.
In terzo luogo le tragiche vicende dell´Ossezia confermano che:
In questa fase storica le contorsioni del capitale non possono che attaccare sempre di più le condizioni di vita del proletariato, non possono che creare miseria e fame per centinaia di milioni di uomini, quando non li schiacciano con i cingoli dei carri armati. Le devastazioni belliche, là dove sono in gioco gli interessi funzionali alla sopravvivenza del capitale, rappresentano la condizione necessaria per il mantenimento di una forma economica basata sul profitto e lo sfruttamento.
Le vicende della piccola Ossezia del sud sono la tragica rappresentazione di questo barbarico mondo dal quale non si esce se non con una forte ripresa della lotta di classe.
F.D.
2008-08-11 Documenti e volantini. (Caucaso e Anatolia)
Autore: gruppo Internazionalista. Battaglia Comunista
Probabilmente le frasi che meglio descrivono la situazione attuale nel Caucaso meridionale - nonché la diversa determinazione delle forze in campo - sono quelle attribuite al colloquio privato tra Putin e Bush, avvenuto a margine dell´inaugurazione delle olimpiadi di Pechino. Il premier russo avrebbe dichiarato senza mezzi termini che "in Sud Ossezia di fatto è scoppiata una guerra", aggiungendo peraltro che l´intervento non sarà probabilmente di breve durata, ma anzi "in Russia molti volontari intendono andare lì e indubbiamente è molto difficile mantenere la pace nella regione". Bush si sarebbe limitato a replicare che "nessuno vuole una guerra". [1]
Le vicende che hanno portato allo scoppio del conflitto, nella notte tra il 7 e l´8 agosto, non sono chiare. Tuttavia l´escalation - preannunciata da una serie di provocazioni reciproche, ma anche dall´evacuazione di donne e bambini dall´Ossezia del Sud, cominciata già ai primi di luglio - è apparsa subito preoccupante. Il giorno successivo il controllo di Tskhinvali, capitale della regione separatista, era ancora conteso tra forze russe e georgiane. Aerei russi avevano nel frattempo bombardato la città di Gori (che, piuttosto che per aver dato i natali a Stalin, è importante perché percorsa dalle pipeline regionali) e diversi altri obiettivi in territorio georgiano, distruggendo il porto di Poti, nei pressi del terminale petrolifero di Supsa. Aerei sarebbero stati visti provenire da territorio armeno, ed il conflitto si è presto esteso all´Abkhazia, altra regione separatista, dove sarebbe stata lanciata una offensiva contro le truppe georgiane attestate nella gola di Kodori. Nelle ultime ore, dopo il blocco navale imposto dalla flotta russa, truppe di terra pare abbiano occupato i nodi nevralgici di Senaki e Gori. Le vittime civili sono ancora difficili da quantificare. Fonti russe descrivono un massacro con circa 1500 morti tra i civili, ma la cifra è contestata da Tbilisi. Certo è che gli attacchi, sia in territorio osseto che georgiano, non hanno risparmiato la popolazione inerme. [2]
Dal canto suo, in un´intervista alla Cnn, il presidente georgiano Saakashvili ha esplicitamente chiesto l´intervento degli Stati Uniti:
Non è più solo una questione georgiana. Si tratta dell´America e dei suoi valori. Noi siamo una nazione amante della libertà che ora si trova sotto attacco. [3]
Sulla presunta "democraticità" del reazionario regime di Saakashvili, fondato su nepotismo e repressione di ogni opposizione, come su quella dei suoi sponsor americani, per il momento sorvoliamo. È chiaro però che la vicenda dell´Ossezia, oltre a prevedere nell´immediato uno scontro tra Russia e Georgia, sia al contempo al centro dello scontro tra Russia e Usa sulle interferenze della Nato nell´area ex sovietica e sul controllo delle via di trasporto e di commercializzazione del gas e del petrolio caspici, che sono i veri "valori" in gioco.
Non è che l´ulteriore riprova - se ce ne fosse bisogno - che nell´epoca dell´imperialismo qualsiasi questione nazionale finisce per essere fagocitata dal processo di ricomposizione imperialistico in atto. Non poteva avvenire diversamente per l´Ossezia del Sud.
Il conflitto non cade dunque come fulmine a ciel sereno, ma era in preparazione da anni. I rapporti tra Russia e Georgia non sono mai stati distesi, fin dal crollo dell´Unione Sovietica nel 1991, ma sono significativamente peggiorati dopo la Rivoluzione delle Rose che nel 2003, nella stagione delle cosiddette rivoluzioni colorate foraggiate dagli Stati Uniti, ha sostituito il debole e corrotto governo di Shevernadze con quello dell´ultra-nazionalista Saakashvili. Già alla fine del 2006 la tensione si era fatta palpabile, sfociando nella cosiddetta "crisi delle spie". Come scrivemmo già in quell´occasione:
Dietro tutte le tensioni che si manifestano nell´area caucasica, si nasconde in realtà una lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi il controllo dei flussi energetici. Fino ad oggi l´unico percorso possibile, sia per il petrolio di Baku che per quello di Tengiz, era l´oleodotto CPC (Caspian Pipeline Consortium) che garantiva alla Russia il controllo quasi completo delle risorse dell´area. Ma dopo l´inaugurazione dell´oleodotto Baku-Tbilisi-Cheyan (BTC), avvenuta il 13 luglio, il petrolio potrà fluire senza attraversare i confini russi. Un gasdotto parallelo, la South Caucasus Gas Pipeline (SCP), è in via di completamento. [4]
Da allora tuttavia si sono verificati diversi cambiamenti significativi. Le tensioni sono proseguite a riguardo dello scudo antimissile voluto dagli Usa, con radar e postazioni missilistiche da installare in Europa dell´Est, in primis in Repubblica Ceca e Polonia, ma anche sulla dislocazione di basi e nuclei militari statunitensi, la cui presenza in Caucaso e Asia Centrale, sempre più difficoltosa, continua ad infastidire l´imperialismo russo, che considera tali aree suo "giardino di casa".
A voler individuare un evento preciso, probabilmente il livello di massima sopportazione per Mosca è stato raggiunto la scorsa primavera, quando gli accordi per le importazioni energetiche dall´Asia Centrale (Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan) sono stati tutti chiusi con grossi rincari ai danni di Gazprom (pare che il prezzo pattuito per il 2009 sia vicino ai 250$ per 1000 metri cubi). Gli stati centrasiatici hanno potuto negoziare da una posizione abbastanza diversa rispetto al passato, spuntando prezzi soddisfacenti, dietro la minaccia di una diversificazione delle vie di commercializzazione. A questo riguardo, le pipeline transcaucasiche hanno giocato naturalmente un ruolo fondamentale. [5]
Ma il quadro era, ed è, in veloce mutamento. In primo luogo, la crisi finanziaria internazionale, partita dalla cosiddetta "crisi dei subprime" negli Stati Uniti, sta determinando un contesto nuovo nelle dinamiche inter-imperialiste. Secondo dichiarazioni provenienti dal Ministero degli esteri russo:
Gli Usa sono sull´orlo di una crisi di sopravvivenza, una crisi di massa [...] Gli Stati Uniti sono sulla china di cambiamenti drastici e dolorosi; tanto per cominciare devono imparare a vivere all´altezza dei loro mezzi. [6]
Da auspicare quindi "una minor interdipendenza" nelle relazioni con gli Usa, ossia maggiore indipendenza dalla svalutata moneta statunitense, ma anche dalla loro agenda politica e militare.
Infatti, inestricabilmente legata alla crisi finanziaria, sta sviluppandosi una più complessiva crisi dell´imperialismo americano, che non solo è rimasto impantanato in Afghanistan e Iraq, ma ha anche mancato l´obiettivo di approvare quest´anno un piano di adesione di Georgia e Ucraina alla Nato, che avrebbe portato i confini dell´alleanza atlantica a ridosso della Russia. Nel vertice Nato dello scorso aprile a Bucarest, invece, a seguito del deciso niet russo e della opposizione di Francia e Germania, le porte dell´alleanza sono rimaste chiuse per gli stati ex-sovietici. Dopo quel passo falso degli Usa, il governo russo pare aver acquisito piena coscienza dell´entità delle ferite dell´imperialismo statunitense, palesando ormai l´intenzione di prendere il timone della politica internazionale.
In realtà anche la Russia non è affatto immune alla crisi del ciclo di accumulazione [7]. Tuttavia intravede la possibilità di sfuggire alla crisi (o subirne meno gli effetti) scaricandola all´esterno, cercando di imporre un signoraggio del rublo in contrapposizione al dollaro e di controllare il prezzo dell´energia, e quindi in certa misura la composizione organica del capitale dei concorrenti.
La Russia intende riproporsi quindi come centro imperialistico internazionale, sia sul terreno delle materie prime energetiche (è già il primo esportatore al mondo sommando petrolio e gas) sia su quello finanziario. In tal senso va letta la legge del maggio 2006, voluta da Putin, in cui si impone agli operatori russi di vendere oro e petrolio in rubli, ponendosi in diretta concorrenza con il dollaro Usa.
La rivista di geopolitica Limes [8] riporta poi l´obiettivo perseguito all´interno del Cremino di costituire una "Unione Russa". Pur riecheggiando nel nome l´Unione Sovietica, il piano non è tuttavia da intendere come una antistorica riproposizione del vecchio impero. Il nuovo progetto, anzi, potrebbe essere ancora più ambizioso. Fondato sulla "geopolitica del gas", ossia sul controllo semi-monopolistico delle risorse energetiche, delle loro vie di transito e soprattutto delle rendite e speculazioni legate alla loro commercializzazione, estenderebbe l´influenza russa ben oltre gli antichi confini sovietici.
Le diverse potenze imperialiste si accingono quindi a stabilire equilibri diversi, proseguendo cruentemente il percorso di concentrazione e centralizzazione del capitale a livello globale. Quel che può apparire oggi come un passo in avanti per la Russia è in realtà solo un passo verso un confronto più allargato. Ciò che si prepara per il proletariato è non solo di continuare ad essere sfruttato (sempre più) nei posti di lavoro, per mantenere in piedi un sistema produttivo ormai decadente, ma per di più di pagare con crescenti tributi di sangue gli appetiti imperialistici delle opposte potenze.
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CAPITALISMO È GUERRA
È universalmente noto che le guerre non sono un fenomeno tipico, esclusivo soltanto della nostra epoca storica. Le guerre vi sono state anche prima dell'avvento del capitalismo e hanno contrassegnato più o meno profondamente altre epoche, molto lontane dalla presente.
Non è nostro intento svolgere qui l'analisi storica delle guerre in generale. Vogliamo soltanto accennare alle guerre che nascono nel regime capitalistico di produzione. Vogliamo, particolarmente, mettere in luce le radici economiche profonde, che le generano, con lo scopo eminente di svergognare il pacifismo gesuitico dei falsi "comunisti" e di ribadire nel contempo la necessità assoluta di distruggere il capitalismo per ottenere la pace nel mondo.
L'attuale sistema è basato sull'ineguale sviluppo economico. Un profondo divario marca produzione e consumo e singoli settori della produzione fra di loro; ai singoli rami; fino a toccare le unità elementari del sistema, le aziende singole fra di loro.
Quando questo divario raggiunge un grado elevato esplode la crisi nell'industria e la guerra nella politica. Accumulazione, sovrapproduzione, crisi, guerra, sono fasi essenziali e cruciali del processo di produzione capitalistico. La guerra è una di queste fasi: un elemento inseparabile del processo d'insieme del capitalismo; una sua manifestazione tipica, ineliminabile.
Non è perciò disdegnando moralisticamente la guerra o predicando sentimentalisticamente la pace, che le guerre possono essere evitate o superate.
Ai giorni nostri i signori "comunisti" pacifisti fanno un chiasso assordante contro la guerra, come se si trattasse di "soffocarla" col baccano. E sventolano la bandiera più falsa e ipocrita, che ci sia, sulla quale hanno scritto: "Il movimento operaio e comunista internazionale è sempre stato per la pace e contro la guerra".
Questi imbroglioni che tutto mescolano e tutto confondono (Gesù Cristo con Carlo Marx, la democrazia con la rivoluzione, il capitalismo con il comunismo); questi emeriti imbroglioni capovolgono e mistificano ogni più semplice e chiaro concetto comunista! Che significa dire che i comunisti sono stati sempre per la pace contro la guerra? Che razza di affermazione è mai questa? I comunisti degni in questo nome respingono in modo categorico una simile panzana, una simile frode.
I comunisti sono per il comunismo. Non sono per la pace e contro la guerra, che in sé e per sé non rappresentano né un obbiettivo, né tanto meno uno scopo. E ciò per la semplicissima ragione che tanto l'una quanto l'altra non hanno rilievo autonomo, ma dipendono strettamente dal dato sistema economico e sociale. E' una clamorosa bugia l'affermazione che il "movimento comunista internazionale è stato sempre per la pace e contro la guerra". Il Partito rivoluzionario del proletariato invece, da quando è nato fino a oggi, non è mai stato e non sarà mai, per principio, contro la guerra, a favore della pace sempre e dovunque.
I "comunisti" pacifisti anche se storcono cinicamente le cose e le presentano capovolte e in modo da carpire il sentimento spontaneo di repulsa alla guerra, non possono sfuggire lo stesso al marchio disonorante di rinnegati e di venduti alla borghesia.
Il comunista autentico è nell'attuale regime un antipacifista per eccellenza.
Primo. Esso è per la guerra sociale, per il rovesciamento del capitalismo.
Secondo. Il comunista vero distingue tra guerra e guerra. Vi sono infatti guerre rivoluzionarie e vi sono guerre conservatrici. Le prime sono utili e giuste. Si debbono appoggiare e fare. Le seconde invece sono reazionarie. Si debbono avversare e sabotare. Facciamo un esempio. Prendiamo le guerre di indipendenza che l'Italia dovette fare nel secolo scorso prima di costituirsi in Stato unitario, per potersi liberare dal giogo della dominazione austriaca. O ciò che è lo stesso, prendiamo le guerre di liberazione che i paesi coloniali e oppressi combattono in questo secolo contro le potenze imperialiste. Ebbene queste guerre sono progressive. Sono giuste. Di fronte a esse non si può essere per la pace, non si può essere pacifisti. Nessun borghese, anche il più pacifista mette in dubbio il carattere giusto delle guerre di indipendenza. Quelli che nel secolo scorso avversavano la guerra di indipendenza in nome della pace sociale erano smaccati sostenitori dei privilegi feudali e aristocratici, erano borghesi reazionari. Prendiamo ora le due guerre di questo secolo, la prima e la seconda guerra mondiale. Queste due guerre sono un esempio tipico di guerre conservatrici. Sono state due guerre imperialiste, di rapina, di spartizione del mondo e delle zone di influenza, da parte dei maggiori lupi capitalistici. Il Partito Comunista è proprio contro questo tipo di guerre. Le avversa e le combatte. Ma qui è un'altra caratteristica essenziale che distingue il comunista vero dal comunista a parole. Come le avversa, come le combatte? Non certamente belando pecorescamente la pace, come fanno ignobilmente i pacifisti, ma al contrario sabotando col disfattismo rivoluzionario le guerre stesse. Cioè incitando il proletariato alla lotta di classe contro la borghesia con la chiara, semplice parola d'ordine: "ALLA GUERRA DEGLI STATI, LA GUERRA DELLE CLASSI", che nel nostro secolo è l'unica parola d'ordine veramente comunista, veramente rivoluzionaria, veramente capace di contrastare la guerra, di vincerla, e di sradicare le radici stesse, che la producono.
Terzo. Il comunista rivoluzionario non sta a belare scioccamente la pace, perché non ha senso invocare la pace se vige il regime capitalista. Il comunista rivoluzionario sa che è un vile inganno, consumato contro la classe operaia, predicare astrattamente la pace e ingenerare l'illusione che essa possa essere mantenuta e conservata sotto la schiavitù capitalistica del lavoro.
La pace si può avere e si può indubbiamente ottenere. Questo è fuori di ogni discussione e di ogni contestazione. E' nell'ordine dei fenomeni sociali e quindi pienamente possibile. Ma questo risultato è soltanto possibile e conseguibile quando e solo quando tutta l'umanità avrà raggiunto il socialismo. Non prima di allora.
Alla verità che il capitalismo è guerra, si deve scrivere e contrapporre quest'altra sola e corrispondente verità: "La pace è figlia del socialismo". E siccome per potere avere il socialismo, che dà all'uomo la pace, è necessario prima di ogni altra cosa che il proletariato si impadronisca del potere politico ovunque; per "volere veramente" la pace, bisogna volere assolutamente prima di tutto la guerra sociale, la rivoluzione comunista, la instaurazione della dittatura comunista mondiale, che sono condizioni indispensabili alla realizzazione del socialismo.
Così un comunista autentico considera le guerre. Così tratta pressappoco, ma sostanzialmente, la questione della pace e della guerra, che con tanta impressionante apprensione attanaglia l'umanità. Così e soltanto così debbono imparare ancora una volta a trattarla, a considerarla, i proletari; liberandosi dai fumi della droga pacifista. Ecco come in modo scheletrico, in parole povere, va messa la questione della guerra e della pace, spoglia da tutte le parole fumose, piene di retorica e di sentimentalismo, ma prive di sostanza e di valore. Ecco come bisogna mettere la questione dal punto di vista della classe operaia, dal lato dei suoi interessi, dal campo del comunismo.
I sedicenti comunisti dei nostri tempi, pacifisti ad oltranza e senza merito, fanno la più rancida propaganda astratta della pace. Illudono ignobilmente il proletariato con la frottola dell'evitabilità delle guerre, con la frottola della coesistenza pacifica.
Vale un soldo falso che essi vengono oggi ad ammannire simili frottole con gli "argomenti": a) che esiste un vasto campo cosiddetto socialista, amante della pace; b) che esiste la bomba atomica, capace di distruggere le basi stesse della vita.
Simili "argomenti" non danno alcun sostegno a quelle frottole, perché al pari di esse sono mendaci e fasulli. Sia il primo "argomento", sia il secondo, sono completamente falsi.
Non esiste innanzitutto un campo di paesi socialisti. Questa è la colossale montatura dell'opportunismo staliniano e post-staliniano, tenuta in piedi ancor oggi da quasi indistintamente tutti i partiti comunisti ufficiali del mondo, filorussi e filo cinesi. Esiste soltanto un mondo di paesi ormai quasi tutti capitalistici. Ormai quasi tutti capitalistici, perché l'area economica del precapitalismo si è alquanto ristretta.
In secondo luogo. Ammesso e non concesso che si possa dividere il mondo in due campi, un campo capitalista e un campo socialista, fra questi due campi può vigere soltanto, non la coesistenza pacifica, ma la guerra. La guerra più implacabile e più feroce che si possa immaginare, per la vita e per la morte, per la distruzione completa, assoluta, dell'uno o dell'altro.
Da qualsiasi punto di vista si vede la cosa, la conclusione inconfutabile che ne discende è che l'evitabilità della guerra nel capitalismo è una colossale frottola, una schifosa menzogna, conservatrice, reazionaria.
A questo primo "argomento" fa il paio il secondo "argomento": la esistenza di armi micidiali di sterminio. L'evoluzione degli armamenti è in diretto rapporto con l'evoluzione della tecnica produttiva. Mentre la guerra è una fase essenziale del processo economico, l'armamento o il tipo di armamento è semplicemente il derivato del grado di perfezionamento raggiunto dai processi tecnologici. Il capitalismo evoca poderose forze produttive, ma anche poderose forze distruttive, come suo ciclo vitale; senza che quest'ultime possano convincerlo, permettiamoci questa immagine amena, di atrocità o di sanguinario. L'esistenza di certe armi avrà diretta influenza sulla condotta e sullo svolgimento delle guerre; è più che evidente. Non può avere altro effetto però. Non può comunque, assolutissimamente, influire sulla guerra nel senso di renderla impossibile o evitabile.
Tanto la prima guerra, quanto la seconda guerra imperialista, hanno conosciuto ed esperimentato entrambe, armi micidiali, quali gas, atomiche. Né i gas risparmiarono la seconda, né l'atomica risparmierà la terza, se la rivoluzione comunista non avrà la meglio e non avrà vinto, spezzando il regime delle guerre.
(Apparso sul giornale: La Rivoluzione Comunista n. 5, giugno 1965